lunedì 30 settembre 2013

Festival di Fiume, settima tappa: Bradipongo reloaded

Giunti ormai quasi alla fine del pellegrinaggio, abbiamo ritrovato un'altra vecchia conoscenza: il Bradipongo di Colle Umberto (Treviso), di cui avevo già avuto occasione di provare le birre durante la degustazione in Brasserie descritta in questo post. Così siamo tornati, per così dire, a salutare: tanto più che quella sera non avevamo avuto modo di parlare direttamente con Andrea, Anna e Alessio, alias i tre tecnologi alimentari che - cito il loro sito - "hanno deciso di collaborare con qualche miliardo di cellule di lievito". Ad accoglierci è stata Anna, che per fortuna, quando le ho detto chi ero, non se n'è uscita con un "Ah, sei tu quella disgraziata che non ha capito assolutamente nulla delle nostre birre e ha scritto delle cavolate pazzesche": a volte, diciamocelo, è un mio timore. Ma in questo caso il mio post poi così male non doveva essere, dato che ci ha invitati a tornare - più tardi, grazie, in quel momento non era il caso...- a bere qualcosa.


Anche in quanto a birre, quindi, era un ritrovare delle vecchie amiche: i nostri avevano infatti portato i grandi classici della casa, tra cui la Mafalda - una belgian ale rossa che, al di là dell'omonimia col mio idolo dei fumetti, è pienamente nelle mie corde per quanto il retrogusto caramellato lasci un po' assetati -, e la BradIpa, una India Pale Ale che la volta scorsa avevo eletto a vera punta di diamante della scuderia Bradipongo - nonché delle Ipa in generale, insieme alla Freewheelin' di cui ho già parlato e alla Punk Ipa del Brewdog.

Ed è infatti su questa che, una volta smaltiti i bicchieri precedenti, è caduta la mia scelta: l'aroma di frutta e il retrogusto deciso di pompelmo sono notevoli, e la rendono molto dissetante nonostante il moderato tenore alcolico (6 gradi). Anche la luppolatura piuttosto forte, che in genere tendo a non apprezzare molto, nel caso della BradIpa è peculiarità imprescindibile. Sostanzialmente, diciamo che ho puntato sull'usato sicuro.

Ormai non mancava che l'ultima fatica, ossia lo stand del birrificio Campagnolo: accidenti, è proprio dura lavorare...

domenica 29 settembre 2013

Festival di Fiume, sesta tappa: Zahre e filosofia

Lo stand successivo che abbiamo visitato non ci era certo nuovo: Zahre, la birra di Sauris, quella che conosciamo da più tempo le presenti. Insomma, un nome, una certezza: tanto che - queste sì - le abbiamo provate tutte (nel tempo, cosa credete?), dalla Chiara Pilsen, alla Rossa Vienna, alla Canapa, all'Affumicata. C'è da dire, peraltro, che la nostra passione per Sauris non è certo legata solo alla birra o allo speck: viaggio dopo viaggio, questo paesino sperduto è diventato quasi un "luogo dell'anima", per cui andare lì vuol dire ristorarsi ottimamente non solo dal punto di vista culinario, ma anche da quello - passatemi il termine - spirituale.


Sarà un caso, ma proprio di questo sono finita a parlare con il buon Massimo, il cotitolare e responsabile della produzione: un saurano "vero", nato e cresciuto lì, che dopo aver fatto - come tanti in montagna - l'esperienza di cercare miglior fortuna altrove è tornato in fondo a questa valle impervia. "Quando nasci e cresci in un posto del genere - ha raccontato mentre stava dietro la spina - sei obbligato a porti delle domande: il silenzio, la quiete, gli amici che se ne vanno...ti trovi a chiederti che senso abbia vivere lì". E Massimo, probabilmente, l'ha trovato: "Dopo un periodo di lontananza, mi sono reso conto che ero circondato da tanta bellezza. E così sono tornato. Non tutti quelli che arrivano lassù capiscono Sauris...serve un rapporto spirituale col luogo". Ecco, mi sono detta, ha usato la stessa parola. E chi l'avrebbe mai detto che la birra stimola a filosofare, dato che da lì il discorso poi è proseguito.

Già, perché mica eravamo a mani vuote: entrambi avevamo nel bicchiere - solo un assaggio, lo giuro...questa è una foto di qualche tempo fa, come testimonia l'abbigliamento invernale... - di Canapa, che avevo scelto sull'Affumicata - la mia preferita, come ho già avuto modo di scrivere - giusto per cambiare. Devo ammettere che questa volta l'ho apprezzata meglio: ho sentito in pieno la particolarità dell'aroma dei fiori di canapa - questo sì "floreale" - e il gusto delicato, anche in questo caso del tutto particolare dato l'uso - appunto - della canapa. Molto dissetante, peraltro, complice anche il grado alcolico basso (5 gradi).

Che dire? Me ne sono andata non solo piacevolmente dissetata, ma soprattutto con la sensazione di aver appena fatto una bella conversazione con un amico, pur avendo conosciuto Massimo non più di un quarto d'ora prima...


sabato 28 settembre 2013

Festival di Fiume, quinta tappa: alla corte degli Estensi

Sempre per rimanere in Veneto, ma cambiando provincia, il passo successivo è stato il Birrificio Estense di - come dice il nome stesso - Este, in provincia di Padova. Un'attività, ci ha raccontato il buon birraio Nicola, che affonda le sue radici ancora nella passione del bisnonno Guido per malto e luppolo, e che è ricomparsa nell'albero genealogico con lui una decina d'anni fa quando ha iniziato i suoi primi esperimenti a livello - diciamo così - domestico.

L'Estense produce soltanto birre crude, ed è proprio a questo dettaglio che Nicola tiene particolarmente: "La pastorizzazione e la filtrazione uccidono gli aromi" è la sua massima, ripetuta più volte come un mantra durante la lunga e piacevole chiacchierata che ci siamo fatti. Effettivamente c'è di che dargli ragione, perché non solo nel caso dell'Estense, ma anche di altri birrifici che sono della stessa opinione, aromi e sapori ne guadagnano.


Il parco birre del buon Nicola è discretamente numeroso per un birrificio di queste dimensioni, essendo a quota sette: la pils Don Pablo, la bionda Calle de San Miguel, la weizen Weisse, la dunkel in stile tedesco Munich B.E., la rossa doppio malto Red Ale B.E., la rossa in stile belga De Bloem, e la birra di Natale Saint Nicolaus. Ovviamente quest'ultima è disponibile solo in stagione, ma con Nicola non ci siamo comunque fatti mancare una dotta dissertazione sulla bontà delle birre natalizie, dalla Bouche de Noel alla Mère Noel: insomma, non c'è che da aspettare poco più che un paio di mesi.

Per quanto la Munich si sia classificata terza al concorso nazionale di Unionbirrai di quest'anno, tendenzialmente le tedesche non sono nelle mie corde (e non sto parlando delle compatriote della Merkel): per cui, esclusa per ragioni di grado - ben 7 - quella che sicuramente avrebbe incontrato al meglio i miei gusti, la De Bloem, al posto successivo nella lista c'era la Red Ale, dato che nemmeno lo stile inglese mi dispiace.

In effetti sono d'accordo con i "fiori di luppolo particolarmente profumati" di cui parla la descrizione: l'aroma è decisamente intenso rispetto alle altre birre di questo tipo, anche se non lo definirei "floreale" dato che nella mia mente inesperta la concezione di "fiore" non comprende quella di luppolo. Insomma: sa di luppolo e punto, ritengo sia sufficientemente chiaro. In quanto al gusto non lo definirei "unico", nel senso che di fatto non è dissimile da quello di altre "sorelle" di questa birra; ma semplicemente "buono", nel senso che affina al meglio quello che è appunto il gusto classico di molte anglosassoni: in termini informatici, potremmo dire che ne fa l'upgrade. C'è da dire poi che per essere una rossa è estremamente beverina, e gli oltre cinque gradi scendono senza nemmeno sentirli, complice la luppolatura forte. Anche in questo caso, quindi, occhio all'etilometro.

Anche l'Estense vende in primo luogo presso il suo spaccio di Montagnana, in provincia di Padova, dove ha sede anche il laboratorio; inoltre distribuisce in alcuni locali in Veneto ed Emilia Romagna. Chissà, se capiteremo da quelle parti, indubbiamente varrà la pena fare un giro...

venerdì 27 settembre 2013

Festival di Fiume, quarta tappa: Maledetto Barone Rosso!

Gli appassionati dei Peanuts avranno sicuramente capito la citazione; e non ha potuto che venirmi in mente il bracchetto Snoopy nei panni dell'asso della prima guerra mondiale nel fare conoscenza con la terza novità della serata, il Baracca Beer di Nervesa (Treviso). Il birrificio prende infatti il nome dal celebre aviatore Francesco Baracca, che proprio a Nervesa venne abbattuto dopo le sue epiche imprese che gli valsero la medaglia d'oro al valor militare; e fu peraltro lui a creare il "logo" del cavallino rampante, dipinto sul suo velivolo, e poi "riciclato" da tal Enzo Ferrari. Sempre detto che non si butta via nulla, soprattutto le idee.

Il Baracca è probabilmente il più giovane e meno conosciuto tra i birrifici presenti, dato che non ha ancora soffiato sulla prima candelina e distribuisce per ora - oltre che via internet e nella loro sede - in quattro locali del circondario; ma con uno slogan che è tutto un programma - "Arte in fermento" - e tanta buona volontà non fa certo rimpiangere i brassatori di più lunga esperienza. Secondo il vecchio adagio del "piano e bene", quindi, sono per ora tre le offerte della casa: la prima nata Luce - una pils -, la rossa doppio malto Extasy, e la blanche Desideria. O meglio, pensavamo fossero tre: perché dopo la mia prudenziale scelta dei cinque gradi scarsi della blanche, dato che ormai il tasso alcolemico iniziava a salire, vedendo l'occhio sveglio di Enrico il buon birraio ha ammiccato con un "A te, invece, tiro fuori qualcosa di speciale".

E così ci è arrivata tra le mani l'Imperial Stout, "proprio appena fatta, non ho nemmeno ancora le etichette pronte". Sostanzialmente una doppia Guiness, sia in quanto a grado che in quanto a malti: "E' difficile, a livello artigianale, ottenere una buona stout rimanendo a basse gradazioni - ha spiegato infatti il birraio - così questo è il risultato". Beh, non c'è che dire, la Guinness in confronto è acqua; non solo perché questa fa quasi 9 gradi, ma soprattutto perché il gusto è nettamente più intenso data la "carica" di malto. Insomma, esperimento egragiamente riuscito.


Detto così, sembra che me la sia bevuta io; e in effetti, dopo aver assaggiato un sorso da Enrico, quasi mi piangeva il cuore al pensiero di dovermi limitare ad una blanche. Ma ho dovuto poi ammettere che la Desideria non è affatto una blanche come le altre: i sentori floreali e agrumati sono notevoli, e fanno sì che questa birra non si perda al gusto come capita con altre dello stesso genere. Un amaro leggero al retrogusto completa il sorso, lasciando la bocca fresca. Nota di merito dunque anche a questa, che nel panorama delle blanche si distingue nettamente.

Meno male che al banco erano disponibili anche dei salatini per tamponare l'alcol, altrimenti, come ha avuto a dire la mia dolce metà, "Non puoi continuare a dire cose sensate senza mettere niente sotto i denti": tanto più che eravamo solo a metà del giro....

giovedì 26 settembre 2013

Festival di fiume, terza tappa: alla scoperta del farro

Anche il terzo stand che abbiamo visitato non era tra le nostre vecchie conoscenze: si trattava infatti del birrificio Acelum, di Castelcucco - Treviso, ci avviciniamo alle mie terre d'origine...Da notare che Acelum è il nome latino di Asolo, poco distante dal paese in questione: insomma, oltre che saper fare la birra, questi sanno anche la storia. Accanto al banco faceva bella mostra di sé un'Ape Piaggio, decorata con fiori di luppolo, su cui erano posizionate le spine: indubbiamente un'idea originale, così come, del resto le birre che escono dai loro fermentatori.

Alle spalle dell'Acelum, quattro anni di esperienza: forse non molti, ma più di quelli di diversi dei birrifici presenti. Il tutto è nato da un'azienda che produce impianti per microbirrifici, la Bccinox, che ha poi deciso - diciamo così - di collaudarli: il titolare che ci ha accolti, infatti, ha messo in chiaro da subito di non essere lui ad occuparsi materialmente di malti, luppoli e cotte, compito affidato a birrai qualificati allo scopo. Spulciando nel loro sito, poi, ho pure scoperto che la Bccinox ha installato all'Acelum un impianto all'avanguardia, che si vanta di avere "un'efficenza dell'90% nella resa di cotta e un'efficenza termica altissima, dovuta all'ottima coibentazione e al recupero del vapore totalmente condensato", tanto che "in media una cotta costa in termini di energia elettrica intorno ai 13€". Non ho visto i prezzi delle loro birre, ma oso sperare che il risparmio si ripercuota anche sul consumatore.

Venendo al concreto, l'Acelum aveva portato a Fiume tre birre alla spina. Il nome della prima, la Delizia - una strong ale - ha peraltro una storia particolare: originariamente, forse per i suoi 9 gradi, di chiamava Deliria, ma poi è stato imposto di cambiare il nome per questioni commerciali. Traccia della vecchia denominazione è rimasta nella grafica dell'etichetta: la z, infatti, è formata da una r e da una i unite, tanto che il lettore distratto - o semplicemente allegro dopo un paio di bicchieri - può ancora confonderle.




Per rimanere più sul leggero c'era l'Anarkica, che con nemmeno quattro gradi torna buona per dissetarsi nelle giornate estive; e la Freya, dedicata alla saggista britannica Freya Madeleine Stark (nella foto), che ha trascorso ad Asolo buona parte della sua vita. Veramente, secondo il titolare, non è questa la punta di diamante della produzione dell'Acelum; ma una volta saputo che l'ingrediente principe di questa belgian ale è il farro, abbiamo deciso che valeva la pena togliersi la curiosità. Ancor prima di berla, arriva al naso un'incredibile zaffata di aroma floreale: aroma che si conferma nel gusto, dolce e delicato, che lascia però poi spazio ad un amaro leggero nel retrogusto parecchio dissetante. Al di là del fatto che l'ho molto apprezzata a livello di gusti personali, c'è da ammettere che non avevo mai assaggiato nulla di simile: caratteristica peraltro comune a molti dei birrifici presenti quel giorno, che esibivano in questo senso dei pezzi unici.

Insomma, mi toccherà tornare a cercare la Freya: purtroppo non ci sono nei paraggi locali che la tengono - l'Acelum distribuisce in Veneto e Lazio - per cui, a meno di non ordinarla online, vorrà dire che farò un giro a Castelcucco la prossima volta che torno in patria...






mercoledì 25 settembre 2013

Festival di Fiume, seconda tappa: La Furia dee Venexiane

La nostra prima nuova conoscenza della serata è stata quindi il Birrificio Artigianale Veneziano (Bav per gli amici), di Maerne di Martellago (Venezia): un'avventura nata un anno fa da sei giovani soci - di cui due a tempo pieno nello stabilimento - che hanno rilevato un birrificio già in attività. Proprio perché hanno potuto appoggiarsi ad una realtà già esistente brassano anche birre a bassa fermentazione, più difficili a trovarsi tra i microbirrifici di giovane età per una questione di impianti; ma si sa che non bastano gli impianti a fare una buona birra, per cui i nostri sei eroi avevano comunque davanti una bella sfida. Sfida a quanto pare vinta già ad un anno dall'apertura, dato che sul banco esibivano ben due attestati di birre prime classificate in diverse categorie al concorso "Birra dell'anno" 2013 di Unionbirrai.


Ce n'era di che incuriosirsi: così ci siamo avvicinati al loro stand dove ci hanno accolto Luigi, uno dei ragazzi del birrificio, e Roberto, uno dei loro agenti commerciali. Oltre che direttamente al birrificio e nei locali della zona, infatti, il Bav distribuisce le sue birre tramite una rete di agenti: e quale il nostro compiacimento nel venire a sapere che Roberto sta appunto curando l'espansione in Friuli, così che sarà più facile anche per noi rifornirci senza fare troppa strada. Il Bav, ci ha quindi spiegato Luigi, brassa due linee di birre non filtrate e non pastorizzate: "Le Furia - la pils, la rossa e la nera -, che abbiamo ereditato dalla precedente gestione; e le Venexiane, che invece abbiamo creato noi. E queste, beh, sono più buone" ha ammiccato. Non ne avevamo alcun dubbio, però dovevamo assaggiarle per crederci.

Pur non avendo nulla contro la Pale Ale - un'alta fermentazione in stile inglese - la nostra scelta è caduta sulle due birre che si erano classificate prime nelle rispettive categorie al concorso di cui sopra: così Enrico ha optato per la Pilsner, bassa fermentazione in stile tedesco, e io per la Bitter, alta fermentazione in stile inglese. Devo dire che non mi sono affatto pentita della scelta: una bella schiuma compatta, un gusto maltato ma non dolce - per quanto le descrizioni lo indicassero come "caramellato", non l'ho onestamente trovato tale - e un amaro finale che - questo sì - concordo nel definire "secco e pulito", senza "sorprese" di ritorno nel retrogusto - che tendenzialmente, nel caso del'amaro, tendo a non apprezzare.

Soprese che ho invece trovato nel bicchiere di Enrico: non ho certo assaggiato tutte le pils al mondo, ma questa di sicuro non ha nulla a che vedere con quelle usuali. L'aroma è di un erbaceo pungente; e se al gusto non lo è altrettanto, così da renderla parecchio beverina, il retrogusto riserva - appunto - un'inaspettata sorpresa ben dopo aver finito il sorso, ritornando con un'amaro che ricorda l'aroma iniziale. Insomma, per quanto la Bitter fosse più vicina ai miei gusti, riconosco che questa qui vince sotto il profilo dell'originalità.

Rimane poi la Unika, una birra speciale realizzata con luppoli freschi, che faceva bella mostra di sé in una bottiglia da litro e mezzo conservata con tutte le cure in una scatola di legno: ma considerando che ci mancavano ancora diversi stand, mi sa che sarà per la prossima volta...

martedì 24 settembre 2013

Festival di Fiume, prima tappa: Ritorno in Valscura

Dato che le amicizie vanno onorate - tanto più se, come in questo caso, onorarle è un piacere - per prima cosa siamo passati allo stand del Valscura, dove Gabriele ci ha come sempre accolti a braccia aperte. Tra tutti i birrifici presenti, Valscura era forse il più fornito in quanto a bottiglie: avevano infatti portato il loro intero parco birre, dalla Blanche de Sarone alla Passionale, per la gioia sia dei conoscitori che dei neofiti. Ammetto che non le ho assaggiate tutte, per cui di strada da fare ne ho ancora parecchia: sinora, per quanto non sia la mia preferita a livello di gusti personali, a colpirmi più di tutte stata senza dubbio la Canipa, aromatizzata con un miscuglio sapiente e difficile da riprodurre di una dozzina di spezie - tanto è vero che, osservava Gabriele, non sempre esce perfettamente uguale. Da bere, più che come una birra, come un digestivo, data la peculiarità del - o meglio, dei - gusti.


In quanto a birre alla spina, Gabriele e Renata - dato che squadra che vince non si cambia - hanno portato i pezzi di scuderia ampiamente collaudati: la Liquentia, una chiara ad alta fermentazione con malti pils e karapils, fresca e luppolata; la Santabarbara, la birra dai sette malti e dai‭ ‬7‭ ‬gradi,‭ che ho apprezzato - nonostante sia parecchio impegnativa - per l'inconfondibile lievito da whisky; e la Matrimoniale, una bionda doppio malto ad alta fermentazione con malti pils e pale ale,‭ ‬che si è aggiudicata il premio International Beer Challenge a Londra nel‭ ‬2012. Ed è proprio quest'ultima che, tra una chiacchiera e l'altra, Gabriele - forse perché ero con mio marito - mi ha fatto provare. Non c'è che dire, se ha vinto quel premio un motivo ci sarà: per quanto il grado alcolico sia marcato - otto gradi - e si senta, è assai beverina (occhio all'etilometro). I malti si fanno sentire nettamente al gusto, che mi ha decisamente colpita: ma anche il retrogusto non è affatto male, e invoglia a berne un altro sorso.

Peccato solo per il loro pezzo forte, la nera Valscura, che avrebbero dovuto presentare lì in‭ "‬tiratura limitata‭"‭ ‬così come l'avevano prodotta in preparazione a quella che ha conquistato il bronzo all'International Beer Challenge‭ ‬2013: purtroppo, ci ha spiegato Gabriele, per un disguido non è stato possibile. Già mi stavo pregustando il turbinio di profumi speziati e il retrogusto tostato con note di liquirizia che avevo provato nella mia ultima visita al birrificio: pazienza, vorrà dire che ci dovrò tornare, tanto più che Gabriele ha assicurato che sta per arrivare la Castegna, la birra alle castagne...

lunedì 23 settembre 2013

Un....fiume di birra

Si, lo so, è un titolo che in quanto ad umorismo fa concorrenza ai britannici: ma non ho potuto non pensare a questo gioco di parole nell'andare al primo Festival della birra artigianale di Fiume Veneto, in provincia di Pordenone. Una manifestazione che, pur essendo appena nata, prometteva bene: oltre a nomi già noti al grande pubblico come Zahre, o ai lettori di questo blog nonché alla sottoscritta come Valscura e Bradipongo, al Festival avrebbero partecipato il Birrificio Artigianale Veneziano di Maerne (Venezia), l'Acelum di Castelcucco (Treviso), il Baracca di Nervesa (sempre Treviso...evvai, che li battiamo tutti), l'Estense - appunto - di Este (Padova) e il Campagnolo di Muggia (Trieste). Insomma, se chi ben comincia è a metà dell'opera, per la seconda edizione ci aspettiamo grandi cose: come avremmo avuto poi modo di provare, infatti, si tratta dal primo all'ultimo di pezzi da novanta per quanto magari poco noti.

A dire la verità, la serata non era iniziata nel migliore dei modi: la chiarezza delle indicazioni apposte in paese lasciava un po' a desiderare, così abbiamo sorpassato il tendone - non ben visibile dalla strada - senza nemmeno accorgercene. Meno male che eravamo arrivati presto: così abbiamo fatto comunque in tempo ad ascoltare l'ultima parte della dotta dissertazione dei Costantino Cattivello dell'Ersa, che dava consigli sulla coltivazione del luppolo da birra nelle sue diverse varietà. Peccato che fossimo arrivati a relazione già iniziata, per cui - ammetto - non ci ho capito molto: ma ho comunque apprezzato quel poco che ho avuto modo di ascoltare.

Dato che il grosso della folla doveva ancora arrivare, abbiamo avuto modo di parlare anche con due degli organizzatori: ragazzi giovani e pieni di buona volontà, che non si sono fatti scoraggiare davanti al fatto di essere alla prima esperienza. Infatti, al di là dell'aver riunito dei birrifici di spessore, hanno messo in piedi un programma di tutto rispetto: oltre ai concerti, al concorso "Vota il birrificio migliore" e al raduno delle Ape Car, hanno organizzato una serie di laboratori di degustazione per la domenica pomeriggio. Enrico avrebbe indubbiamente puntato su quello "Birra e carne", in cui le birre venivano abbinate a spiedini e affini (perdonate la rima), a cura di una macelleria del luogo; personalmente avrei preferito il "Birra e cioccolata", uno degli accostamenti che apprezzo parecchio, sotto la guida di una pasticceria sempre della zona. Ad incontrare i gusti di entrambi sarebbe indubbiamente stato il "Birra e pizza": abbinamento classico, ma sempre gradito. Al di là dei gusti personali, è stato interessante il fatto che abbiano coinvolto gli esercizi commerciali locali: un buon esempio di collaborazione che può avere ripercussioni positive sul territorio anche al di là dei due giorni di festa.

Onore anche all'organizzazione della cucina, spesso punto dolente delle sagre, afflitto da lunghe code e gente che sgomita al banco della distribuzione: qui gli organizzatori hanno avuto la geniale intuizione di far compilare l'ordinazione a ciascuno su di un menù prestampato con indicato il numero del tavolo, che andava poi consegnato in cassa. A quel punto non restava che attendere di essere serviti, con notevole snellimento dei tempi e riduzione del caos. Fiduciosi dunque che procacciarci il cibo per la cena non sarebbe stato un problema - il menù era discretamente vasto, e andava dagli gnocchi, ai panini, al frico - abbiamo iniziato il nostro tour degli otto birrifici presenti: se siete curiosi di sapere com'erano, vi aspetto su queste pagine per le prossime puntate...

sabato 21 settembre 2013

Un assaggio di Oktoberfest

Si sa che Trieste, per gli Udinesi, è terra nemica; ma per fortuna nel nostro caso qualche amico triestino ce l'abbiamo, così qualche giorno fa siamo stati a farci un giro in questa città che - lo ammetto - mi ha sempre colpita con il suo fascino mitteleuropeo. Il nostro amico Gabriele peraltro, da bravo conoscitore del luogo, ci ha accompagnati in una stupenda passeggiata tra vie e viuzze assai pittoresche poco conosciute ai turisti, con tappa finale sulle rive a vedere un tramonto i cui colori avevano dell'incredibile. Insomma, a un anno dal mio trasferimento a Udine, proprio non riesco ancora a capire cosa mai ci sia che non va nel capoluogo giuliano.


Dato che ormai era ora di cena, abbiamo chiesto alla nostra guida di portarci in un locale che meritasse: e la sua scelta è caduta sulla birreria Paulaner, che si trova appunto sulle rive. Vabbè, non sarà birra artigianale: ma la Paulaner è sempre la Paulaner, per cui non ce lo siamo fatti dire due volte.

Le prime due pagine del listino erano interamente occupate dalle birre - appunto - Paulaner, in una varietà tale che alcune non le avevo mai nemmeno sentite nominare; curioso poi che, oltre al prezzo della birra piccola, da mezzo e da litro, sia riportato anche quello del fusto. Insomma, se siete una compagnia numerosa o se vi è piaciuta così tanto da volervela portare a casa in quantità industriali, sappiate che c'è anche questa opzione.

In quanto al cibo, vi avverto: se avete fretta, cambiate locale. Non perché siano lenti a servire, ma perché la lista di antipasti, insalate, piatti bavaresi, panini, e soprattutto di pizze, è così lunga che difficilmente arriverete a leggerla tutta, e se proprio volete farlo dovrete prendervi il vostro tempo. Ammetto di essere rimasta piuttosto disorientata, e infatti la scelta non è stata facile per nessuno dei tre. Dopo vari tentennamenti, io ho optato per una tagliata di pollo con verdure grigliate, rucola e pomodorini, Enrico per una pizza Cleo - come al solito leggerina: radicchio di Treviso, speck e formaggi - e Gabriele per un panino blues (e qui lo ammetto, non ricordo che cosa ci fosse dentro...). Tutte ottime scelte, peraltro: la tagliata era ben cotta e saporita, e anche la pizza - almeno così mi ha detto la mia dolce metà - ha superato l'esame sia in quanto a fragranza della pasta che a farcitura. Altro suggerimento, andate affamati: le porzioni sono assai generose, tanto che persino Enrico ha dovuto dare del suo meglio per arrivare in fondo.

In quanto a birra, invece, siamo andati sul sicuro: la Paulaner Salvator, una rossa a bassa fermentazione, dal malto molto spiccato - così come il grado alcolico, dato che ne fa 8. Insomma, roba tosta: in fondo, come ricorda il sito della Paulaner, "nel periodo di digiuno per i frati di San Francesco di Paola la Salvator sostituiva il nutrimento". Ah, ecco, si spiegano tante cose: dopo che ti sei bevuto una birra così corposa - non a caso fa 71 kcal per 100 ml, con tutto quell'orzo - vai avanti per una giornata intera. "Il birraio più famoso - prosegue poi il sito - è stato frate Barnaba, che ha diretto dal 1773 la birreria Paulaner del monastero. La sua ricetta originale è rimasta fino ad oggi pressoché immutata". Un pezzo di storia, insomma, oltre che un piacere per il palato. Certo non è il miglior abbinamento con il pollo: con quello sarebbe stata più indicata la birra dell'Oktoberfest, disponibile dato il periodo, una chiara molto beverina nonostante il tenore alcolico (6 gradi) e il gusto più maltato rispetto alle altre birre dello stesso genere. Ma per quella aspetteremo di andare davvero all'Oktoberfest...

venerdì 20 settembre 2013

Che sorpresa il malto d'avena

Era ormai da qualche tempo che la Matilde e Norberto non organizzavano una cena completa con degustazione; e hanno finalmente ripreso le buone abitudini mercoledì scorso, quando hanno coinvolto il buon Severino per una serata dedicata alle birre Garlatti Costa. La curiosità era parecchia, perché non solo si trattava di specialità che non avevo mai provato, ma una di queste era una novità per la stessa Matilde: insomma, proprio le ultime creazioni del birrificio, per cui le premesse erano più che buone.


La serata è iniziata con un aperitivo davanti ad una Kriek, e due chiacchiere con Severino: come già ho avuto modo di scrivere altre volte, infatti, a bere c'è più gusto se sai quello che stai bevendo. Ne ho così approfittato per farmi istruire sulle due birre che saremmo andati a degustare: discorso interrotto con i soliti modi spicci da Matilde, perché "Vi ho messo la pasta in tavola e poi si fredda". Ok mamma, arrivo.

In effetti sarebbe stato un peccato sciupare quelle prelibatezze, perché sia Matilde e Norberto che Severino avevano fatto del loro meglio. Come primo piatto ci sono stati serviti gnocchetti sardi al cartoccio con melanzane e zafferano - tra le ansie di Matilde, che non li aveva mai cucinati prima: tranquilla, Enrico ha spazzolato anche i miei lasciandomi quasi a bocca asciutta - abbinati alla Lunatica: una birra chiara, beverina e leggera - appena quattro gradi - dall'aspetto piuttosto torbido e dal gusto del tutto inusuale. Arcano che però ci era già stato svelato da Severino: il segreto è il malto d'avena, usato peraltro in percentuale più elevata rispetto al consueto, "per evitare che una birra così leggera risulti annacquata". Esperimento riuscito perché, pur conservando comunque un gusto molto delicato, ha quella nota di particolarità che la valorizza. Senza contare che scende che è un piacere: attenti a non berla quando avete tanta, ma tanta sete, altrimenti è facile scolarsene più del dovuto. Interessante anche la punta di amaro nel retrogusto, appena accennata ma notevole.

Sia cuochi che mastro birraio hanno però dato del loro meglio nella seconda parte della cena. Abbinata ai gustosissimi spiedini di polpette di manzo - abbiamo meditato un raid in cucina per vedere se ne erano rimasti - e ad un delicatissimo tortino di patate e carote di cui ho chiesto immediatamente la ricetta, c'era la Dolce vita: anche qui una chiara, beverina e leggera - cinque gradi - e poco luppolata, "per chi non ama l'amaro e vuole una birra da bere facilmente con tutto". Il "poco luppolato" in effetti ha incontrato i miei gusti, dato che l'ho preferita alla Lunatica: complice anche l'aroma più intenso e il gusto più corposo, nonché il retrogusto che, per i miei standard, aveva appunto la giusta dose di luppolo. Entrambe le birre, comunque, hanno dato del loro meglio ad una temperatura leggermente superiore rispetto a quella a cui erano state servite: tanto meglio, abbiamo provato gusti diversi. In fondo, il bello della birra è anche questo.

giovedì 19 settembre 2013

Friulidoc, parte quinta: frico, Porter, e Frizzi-Comini-Tonazzi

Dato che ormai sono ben avviata verso la "furlanizzazione" completa, non mi rimaneva che l'ultimo, definitivo passaggio: il frico, il piatto tipico per eccellenza, recentemente salito agli onori della cronaca anche negli Stati Uniti con la vittoria a Masterchef del cuoco di Aviano Luca Manfè proprio con questa ricetta (già mi vedo la McDonald's sostitire gli hamburger con dischi di frico all'interno dei panini, lanciando il McFrico sul mercato a stelle e strisce). Secondo i cultori della materia, il frico è quello di Carpacco, paese celebre appunto per la Sagre dal Frico: e così, nella serata finale di Friulidoc, non potevo non cenare al tendone in questione.


Lì, oltre alle prelibatezze gastronomiche, ci si poteva godere anche lo spettacolo: dietro al banco, infatti, era ordinatamente disposta una serie di spadellatori che miscelava con sapienza patate, cipolle e Montasio. Girava poi con ammirevole abilità il tutto a mo' di frittata una volta che si era formata quella crosticina che, ad opinione degli esperti, consente di mantenere un "cuore" morbido e distingue un frico ben fatto da uno da dilettanti. Ovviamente non mancava la piastra per abbrustolire la polenta, senza la quale il frico perde gran parte della sua ragion d'essere.


Un po' timorosa per la digestione - non si può certo dire che sia un piatto leggero -, ho quindi affrontato il frico di Carpacco: in effetti la famosa crosticina era notevole, così come l'interno ben cremoso - ma ad una temperatura da altoforno, occhio alla lingua. Non me ne vogliano i puristi del frico, né gli amici di Carpacco, se dico che - a livello di puro gusto personale - ho preferito quello di Godia, in cui ovviamente spiccano di più le patate: ma si sa che di ricette del frico e di opinioni su quale sia la regola aurea delle porporzioni tra gli ingredienti ne esistono tante quante i friulani, e quindi credo - e spero - di non aver offeso nessuno. Ad ogni modo poi così male non era se al povero Enrico, fiducioso e speranzoso nel fatto che non sarei arrivata in fondo alla generosa porzione, è rimasto poco e niente.


Altro spettacolo a cui abbiamo assistito sotto il tendone è stata l'esibizione del trio Frizzi-Comini-Tonazzi, che ho finalmente avuto il piacere di sentire dal vivo dopo tanto tempo passato a sbellicarsi ascoltando le loro canzoni: una girandola di risate tra Idraulico e la celeberrima Viva il maiale, tanto che non riuscivo più a schiodare Enrico da lì. D'altronde, se sono sulla breccia da ormai quasi quarant'anni senza perdere un colpo, un motivo ci sarà, e vederli esibirsi con i loro strumenti è uno spettacolo nello spettacolo. Enrico, bontà sua, avrebbe voluto dedicarmi una canzone, Una storia triste; ma poi ha concluso con un "Meglio di no, va'". Effettivamente, avrei dovuto pormi qualche domanda di fronte al fatto che i nostri vicini di tavolo - tra cui un ex compagno di banco di Frizzi - continuavano a ridere davanti alle mie insistenze perché "Dai, mi piace, sarebbe una cosa davvero romantica!": e infatti ho poi scoperto che il ritornello di suddetta canzone dice "Perché non me la dai", versi assai imbarazzanti e poco romantici da farsi dedicare, nonché forieri di dubbi sulla felicità della nostra vita matrimoniale.

Per finire la serata in bellezza siamo passati di nuovo dallo stand di Foglie d'Erba; e lì per la prima volta abbiamo provato la Porter, una - appunto - porter dall'aroma e gusto di caffè così decisi che non sfigurerebbe affatto a fine pasto al posto del classico espresso. Che piaccia o meno, bisogna riconoscere che non ce n'è di uguali: e così una bottiglia è arrivata fin nel nostro frigorifero, a scopo di riserva energetica senza caffeina....

mercoledì 18 settembre 2013

Friulidoc, parte quarta: oca, fritulis di miluç e Freewheelin' IPA

Eravamo rimasti all'ora di pranzo, sulla via per raggiungere il tendone di Morsano al Tagliamento: un paese che, soprannominato un tempo "Morsano delle oche" quasi come una presa in giro, ha saputo valorizzare questa - chiamiamola così - tipicità mettendo in piedi la celebre "Sagra dell'Oca", che il prossimo novembre vedrà l'edizione numero 41. Insomma, ormai è roba collaudata: tanto che la coda alla cassa del chiosco aveva dello scoraggiante.

Se non fosse che già avevamo fatto aperitivo, sarebbe valsa la pena iniziare con uno dei vini della fornitissima enoteca; abbiamo però preferito accompagnarlo al pranzo, dopo una nutrita - beh, non ancora...- discussione su quale piatto scegliere. Il menù infatti era assai vario, con conseguente indecisione; così abbiamo optato per tre piatti diversi da condividere. Io, giusto per andare sul sicuro, ho puntato sugli gnocchi al sugo d'oca: certo non erano le patate di Godia, però l'oca era quella di Morsano, e si capiva che preparare un ragù a dovere è il loro punto di forza. Emanuele invece è rimasto affascinato dal "nido d'oca", nella foto: bocconcini d'oca su letto di polenta e funghi, bello a vedersi oltre che da mangiare. Da ultimo Enrico, che come sempre è andato sul verace: coscia d'oca con polenta, certo abbastanza impegnativa in quanto a pesantezza, ma il sughetto che la accompagnava vinceva su tutto. Insomma, complimenti alle oche - e ai cuochi, ovvio.

Io però, in fin dei conti, sono una tipa da dolce: e poco distante c'era lo stand di Pantianicco, il Pais dal miluç - come recita anche il cartello stradale -, ossia il paese delle mele con relativa mostra regionale e festeggiamenti annessi. Ormai prossima, peraltro, dato che la prossima edizione partirà il 27 settembre fino al 6 ottobre. L'occhio mi è caduto sui tanti dolci disponibili, un vero paese del balocchi per un'appassionata come me: contrariamente alle mie abitudini ho scelto le fritulis, le frittelle, che generalmente escludo appunto perché fritte. Queste però, devo ammettere, erano fatte bene, per niente unte: onore al merito anche a loro, quindi, e alle loro mele.

A quel punto però, per par condicio, serviva il regalo anche per papà: e dato che squadra che vince non si cambia, ci siamo rivolti al chiosco degli amici di Foglie d'erba per una bottiglia di una certezza come la Freewheelin' IPA. Papà, lo so che l'hai già bevuta, inutile che lo neghi: com'era?

martedì 17 settembre 2013

Friulidoc, parte terza: Zahre, formaggi e Blave di Mortean

Spezziamo una lancia a favore della famiglia: tra i visitatori di Friulidoc c'era mio fratello Emanuele, venuto a festeggiare l'avvenuta discussione della tesi in ingegneria industriale. Così non ha potuto sottrarsi, oltre che alle congratulazioni, al fatto di offrire una birra: e dato che stavamo passando da Piazza Duomo la scelta non è potuta che cadere sulla birra di Sauris, o Zahre che dir si voglia. La mia preferita è indubbiamente l'affumicata, una rossa che - come dice il nome stesso - mi ha sempre colpita per le note di malto affumicato davvero notevoli. Certo è piuttosto impegnativa, non tanto per il grado alcolico (e che saranno mai 6 gradi), quanto per il gusto molto deciso. Enrico e Emanuele hanno invece preferito la Canapa, una pils che - nonostante sia appunto una pils - nemmeno io disdegno: aromatizzata ai fiori di canapa campagnola, anche chi magari non ne rimane conquistato è comunque costretto a riconoscerne l'unicità.

Generalmente la Zahre va abbinata al prosciutto o allo speck di omonima provenienza; questa volta però, date le numerose bancarelle dei caseifici della Carnia e del Pordenonese presenti lì attorno, abbiamo optato per i formaggi. Tra quelli che ho provato, erano in due a contendersi la palma del vincitore. Il primo è l'azienda agricola Capramica di Pinzano al Tagliamento, che, come dice il nome stesso, produce formaggi di capra: oltre a madre e figlia simpaticissime, lo stand vantava una serie di ricotte affumicate, formaggi spalmabili aromatizzati ed altre amenità, che ci hanno davvero messi in difficoltà nello scegliere il regalo per nostra madre. La scelta è alla fine caduta sul Frant, un tipico formaggio friulano al pepe, generalmente prodotto con latte vaccino e qui proposto - appunto - nella versione caprina: è bastato un assaggio a farci decidere non solo che questo era la scelta migliore, ma anche che, dato che era disponibile soltanto in forme da un kg, il regalo in questione conterà anche per il suo compleanno il prossimo novembre (mamma, lo so che stai leggendo, sei avvisata).

Il secondo è il caseificio Bontà dei Pascoli di Enemonzo, che produce e vende direttamente in Alta Carnia. Il ragazzo al banco mi ha magnificato il formaggio di latte crudo, ma personalmente ho preferito di gran lunga le caciottine: degli autentici gioiellini all'uvetta, alle noci, alle erbe o al peperoncino (occhio al piccante) davvero indimenticabili. La lunga fila allo stand testimoniava che non ero l'unica a pensarla così, dato che ho dovuto farmi largo praticamente a gomitate.

Tradizionalmente al formaggio va abbinata la polenta, che in effetti era presente in forze in tutte le sue varietà. A meritare una nota a parte è senz'altro la Blave di Mortean, il mais di Mortegliano: una produzione celebre in tutto il Friuli, ora valorizzata da una cooperativa nata allo scopo. Dai crostini di mais - altro che nachos, questi sono di tutt'altro calibro - spalmati con una ricotta spumosissima e composta alla cannella, alla polenta gialla con sopra la classica fettina di Montasio caldo, ce n'era per conquistare anche una tiepida estimatrice della polenta come me.

Dato che ormai era ora di pranzo, e lo stomaco dei miei due uomini iniziava a brontolare, ci siamo diretti verso lo stand della Sagra dell'Oca di Morsano: ma questa, come dicevano nei cartoni animati nel presentare la puntata successiva, è un'altra storia...

lunedì 16 settembre 2013

Friulidoc, parte seconda: vegano è bello, se c'è la Toz

Come ho scritto nell'incipit dell'articolo per Il Gazzettino, pubblicato nell'edizione di Udine sabato 14, "Un ristorante vegetariano e vegano nel cuore del regno della salsiccia qual è Friulidoc suona quantomeno fuori luogo": eppure era proprio lì, alla Cucina Carducci, che mi avevano chiesto di andare per fare una recensione. Tamponata la birra col Pan di sorc, quindi, mi sono diretta verso Piazza XX settembre, dove la Elite Events & Design - società organizzatrice di eventi - ha usato gli spazi dell'ex libreria Carducci per proporre qualcosa che aveva davvero il sapore di sfida: che speranza può avere un locale del genere in mezzo ai cultori del frico e del San Daniele?

E infatti, quando sono entrata, il ristorante era piuttosto vuoto: ne ho così approfittato per fare due chiacchiere con Luca e Stefano, i due organizzatori, e capire che cosa era passato loro per la testa. In effetti, hanno ammesso, "Volevamo entrare a Friulidoc in maniera provocatoria: ma soprattutto offrire a tutti, vegeriani e non, una vera e propria esperienza gastronomica, e dimostrare che i vegetariani non mangiano solo insalate scondite". E in effetti, a onor del vero, nel menù l'insalata non c'era proprio: dai piatti tradizionali come la parmigiana di melanzane - rigorosamente senza formaggio, però: questa è vegana, ossia senza derivati animali - e la panzanella, a quelli più esotici come il chapati con l'hummus (nella foto) e gli straccetti di seitan con i funghi - non sapete cosa sono? Beh, è l'occasione buona per provarli - c'era di che smentire simili credenze. Il tutto condito con i vini della tradizione friulana, dalla ribolla gialla al refosco.

La novità della proposta, oltre che nel listino, stava nell'arredamento: tutto recuperato da cantine e rigattieri, mettendo insieme con sapienza vecchi tavoli e sedie scompagnate che apparentemente non avrebbero mai potuto stare a meno di dieci metri di distanza senza contravvenire ai più elementari canoni estetici, fino a creare un ambiente davvero originale. «Non abbiamo comprato niente - hanno assicurato i due, nella foto - la nostra filosofia è quella del riuso e del riciclo, stoviglie biodegradabili comprese. E del dare nuova vita al locale anche se solo per pochi giorni». Già, perché la Cucina Carducci è durata solo il tempo di Friulidoc: un azzardo sostenere le spese e l'impegno logistico - sono serviti due mesi di lavoro - per così pochi giorni? No, grazie a partner e sponsor, hanno assicurato: in primis i proprietari della libreria. Prova del tutto, i prezzi effettivamente contenuti.

Man mano che si avvicinava l'ora di pranzo, a dispetto delle previsioni, il locale ha iniziato a riempirsi: tanti curiosi, che entravano solo per dare un'occhiata al menu e poi finivano per sedersi, tanto che trovare un vegetariano lì dentro era classica storia dell'ago nel pagliaio. Soltanto uno tra tutti i clienti da me interpellati ha affermato di esserlo: gli altri erano frequentatori di Friulidoc stufi di frico, ex clienti della libreria, o persone richiamate dai ricordi perché "le sedie che ci sono qui dentro sono come quelle del nonno". Insomma, l'effetto curiosità paga. Tutti, poi, affermavano di aver mangiato bene: l'unica lamentela ricorrente è stata quella delle porzioni limitate da nouvelle cuisine, problema comunque aggirabile in una manifestazione enogastronomica dove il cibo certo non manca.

Se, come ha affermato Luca, "Il miglior commento da parte del cliente è il piatto vuoto", di commenti positivi in giro ce n'erano parecchi: a partire dal mio, che ho letteralmente spazzolato l'hummus e la crema di melanzane. A coronamento del tutto, la birra artigianale Toz: una bionda ad alta fermentazione, prodotta a Cividale dall'azienda Alturis - la stessa della birra Gjulia -, che essendo fresca e beverina si abbina praticamente a tutto senza cozzare con i sapori. Insomma, perfetta per me che di solito preferisco bere acqua ai pasti appunto per evitare simili conflitti.

«Spero scriverai bene di noi, allora» ha osservato Stefano, vedendomi felice e satolla. «Tranquillo - l'ho rassicurato - anche se qualcosa dovesse andare storto, il modo di dirlo senza sminuire il positivo c'è sempre». E in effetti, qualcosa che è andato storto c'è stato : dello strudel di pere e cioccolato mi è stata servita la parte finale, cosa che non sopporto - e vabbè, non potevano saperlo, direte voi - perché ha poco ripieno e tanta pasta sfoglia. Pasta sfoglia che però, in questo caso, aveva il merito di essere senza burro e aprire le porte di simili prelibatezze anche agli intolleranti come la sottoscritta: è proprio vero che anche negli errori qualcosa di buono - letteralmente - c'è sempre...


domenica 15 settembre 2013

Friulidoc, parte prima: Pan di Sorc e Tazebao


Chi conosce Udine e la sue manifestazioni si sarà forse chiesto come mai non abbia ancora scritto nulla su Friulidoc, il più celebre evento enogastronomico della regione; e in effetti la risposta è molto semplice, ossia che sono stata fin troppo occupata a bazzicare tra i vari stand – per lavoro, cosa credete? - per trovare il modo di scrivere.

Anche se la manifestazione è iniziata giovedì 12, la mia lunga maratona è partita la mattina di venerdì da via Cavour. Tra le tante bancarelle, la prima ad attirare la mia attenzione è stata quella dell'associazione dei produttori del Pan di Sorc: un pane dolce e speziato, tipico del gemonese, prodotto – mi ha spiegato con dovizia la signora dello stand – con farina di frumento, di segale e di mais cinquantino: una varietà coltivata non solo in Friuli, ma anche nel Veneto, fino agli anni Sessanta, e poi abbandonata – complice anche la credenza che provocasse la pellagra. Ora, grazie all'Ecomuseo delle Acque del Gemonese, è partito un progetto di recupero della coltivazione: ed è così possibile gustare di nuovo questa prelibatezza, tradizionalmente prodotta nel periodo natalizio. A dire il vero, è roba per palati e stomaci forti: oltre alle tre farine in questione, la ricetta prevede l'uso di noci, uvetta, semi di finocchio e fichi. Insomma, una bomba. E poi deve piacervi la polenta, perché il retrogusto del mais è abbastanza marcato. Però è roba sana, prodotta interamente con materie prime locali, tra cui le farine macinate da mulini artigianali: meglio questo che una merendina del supermercato, insomma, anche perché – diciamocelo – è davvero buono.

Proseguendo il mio giro, sono passata da via Aquileia: lì ad attirare la mia attenzione è stato il tendone del birrificio artigianale Tazebao, direttamente da Trieste – notoriamente terra nemica per gli udinesi. O meglio: ad attirare l'attenzione è stato il buon Giorgio, un personaggio tale che dargli del vivace è un eufemismo. Ancora prima che avessi finito di presentarmi, mi aveva messo in mano un bicchiere di ambrata ad alta fermentazione: e che ambrata. Nulla da invidiare a quelle belghe, con un retrogusto acidulo ma parecchio rinfrescante. Prova migliore della produzione artigianale è stato il fatto che la sera, quando sono tornata a farla provare a Enrico, la stessa birra aveva un gusto diverso: cosa che, parecchi mastri birrai mi hanno confermato, capita spesso con le birre non industriali, essendoci differenze anche rilevanti da cotta a cotta o addirittura da fusto a fusto. Unico neo, è parecchio beverina nonostante il tenore alcolico non indifferente: e tenendo conto che erano le undici del mattino ed ero a stomaco vuoto, meno male che mi è venuta in soccorso la pagnottina di pan di sorc – devo ammettere che l'abbinamento, dopotutto, non era malvagio - che avevo in borsa per tamponare l'alcol e mantenere la lucidità. Anche perché ero attesa alla Cucina Carducci per un servizio: rimanete sintonizzati per sapere com'è andata...

mercoledì 11 settembre 2013

A Freewheelin' anniversary

Perdonate il titolo in inglese, ma ci voleva; e se avrete la pazienza di leggere questo post, capirete il perché. Per quanto non sia molto professionale scendere nel personale, il 9 settembre io e Enrico abbiamo festeggiato il nostro primo anniversario di matrimonio; e così il giorno dopo, visto che la Brasserie riapriva dopo la settimana di chiusura, ne abbiamo approfittato per andare a farci fare gli auguri da Matilde e Norberto. I quali, ovviamente, ci hanno accolti a braccia aperte; tanto più che un anno prima esatto eravamo comunque lì, a portar loro i confetti.

Come spesso accade ci siamo affidati a Matilde, che per brindare al primo anno insieme ci ha stappato una bottiglia di A Freewheelin' I.P.A. del birrificio Foglie d'Erba. Veramente, quando ho visto sull'etichetta che avrei dovuto affrontare 8 gradi, qualche perplessità m'è venuta; ma in fin dei conti ho dovuto ammettere a me stessa che il buon birraio Gino, come da sua filosofia, fa solo birre che "puoi bere senza pensarci" - parole sue - perché nonostante il grado alcolico non danno alla testa grazie - dice lui - al fatto di non usare troppo zucchero.

Così mi sono fidata, e ho avvicinato il naso allo spesso strato di schiuma: devo dire che l'aroma, fruttato con note di agrumi, era davvero unico. Totalmente diverso peraltro dal gusto, che non lascia assolutamente presagire: dopo un primo sorso fresco e dissetante, l'amaro del retrogusto è piuttosto netto. Nel complesso, comunque, una birra davvero unica, imperdibile per chi apprezza le Ipa angloamericane e le luppolature forti.

Data l'occasione, Matilde non ci ha poi fatto mancare il dolce. A onor del vero avrebbe voluto offrirci il suo Mc Chouffe Café, caffè con liquore alla birra, panna montata e scaglie di cioccolato: in mancanza del liquore ha dovuto usare il Bayles, ma è stato comunque apprezzatissimo, tanto che ci siamo litigati gli ultimi rimasugli di crema in fondo al bicchiere. Ma si sa, l'amore non è bello se non è litigarello...

lunedì 9 settembre 2013

Un angolo d'America

Chi ben conosce il Friuli Venezia Giulia, avrà già capito a che parte di mondo mi sto riferendo: Aviano, in provincia di Pordenone, celebre per la sua base aerea americana. Un paese di poco più di 9 mila abitanti, che ospita attualmente circa 6 mila militari Usa (di cui molti con le famiglie), ma ne ha ospitati in passato più del doppio: facile capire come, una volta arrivati lì, sembri di essere sbarcati oltreoceano. Molti avvisi in strada sono bilingui, così come le insegne di diversi negozi; e anche i nomi dei locali sono molto evocativi, rimandando ai saloon, al Texas, agli hamburger e ai barbecue.

Ed è infatti in uno di questi che sono capitata, il California Beer Parlor: un pub birreria dove non solo gli aviatori della base, ma anche gli appassionati delle stelle e strisce possono sentirsi a proprio agio sia per gli arredi, sia per il biliardo, sia per il listino. Detto tra noi, era dai bei tempi dell'università a Berkeley che non mangiavo un'enchilada (sorta di piadina ripiena di pollo, riso, cipolle e peperoni) fatta a quel modo, con una serie di salsine dal sapore indefinibile che qui non saprei assolutamente dove trovare: il fegato ringrazia, ma con che soddisfazione. Manco a dirlo, il menù offre una serie di burritos, chili, nachos, hamburger e cheeseburger di ogni genere, che mi hanno fatto scendere la lacrimuccia di nostalgia (per la California, non per il cibo, intendiamoci: però si sa che odori e sapori sono la molla più potente del ricordo).


Top della serata è stato però l'incontro con il proprietario, Johnny: un tatuatore senza tatuaggi, piercier senza piercing e birraio che non beve birra, "Perché se consumassi quello che vendo sarei rovinato". Come se non bastasse, s'è pure lanciato nella produzione cinematografica, e il prossimo febbraio uscirà il primo film prodotto da lui - rimanete sintonizzati, come si suol dire: mi ha promesso di tenermi aggiornata. Il suo è stato il primo locale in regione ad adottare il sistema di spinatura senza anidride carbonica ideato dalla Carlsberg, ed applicato poi anche ad altri marchi dello stesso gruppo: semplificando, la birra è immagazzinata in un fusto in Pet, che poi viene compresso per farla uscire. In questo modo, ci ha spiegato Johnny accompagnandoci a vedere di persona come funziona, non è necessario aggiungere CO2, la birra non si ossida, e si mantiene fresca anche per oltre un mese una volta aperto il fusto; senza contare i benifici ambientali in termine di riduzione delle emissioni e facilità di riciclo.

A quel punto, non è rimasto che provare: la scelta andava dalla Carlsberg, alla Poretti chiara o rossa, alla Grimbergen blanche. Tenendo conto che la Grimbergen e la Poretti rossa già le conoscevo, ho puntato sulla chiara: per quanto l'abbia trovata indubbiamente dissetante, bisogna ammettere che non può competere con il retrogusto amaro della rossa, che rende giustizia ai sei luppoli per cui è celebre. Insomma, mi tocca dare ragione a Enrico: la prima idea è sempre la migliore...