domenica 28 febbraio 2016

Sulle colline di...Ippils

No, non è un errore di battitura (d'altronde, per i non friulani come me, scrivere correttamente "Ipplis" potrebbe non essere così scontato); ma il nome della nuova creazione del Grana 40, che dopo la Mar Giallo e la Mar Nero - rispettivamente una blonde ale con monoluppolo sorachi e una black ipa - si è dato alle basse fermentazioni, e pure a una di quelle - almeno così raccontano i birrai - più difficili da fare bene: la pils. Il nome, dopo un sondaggio si Facebook, è stato a furor di popolo "Ippils", ispirandosi al nome del paese di provenienza dei birrai (secondo classificato "Bassa marea", per coerenza con le altre birre); ed ho avuto il piacere di provarla in anteprima insieme a Emanuele e Christian.

Conoscendo i personaggi, c'era da aspettarsi che non facessero le cose "normali": e infatti non aspettatevi una pils classica, per quanto lo stile rimanga riconoscibile. Messi da parte i luppoli tedeschi, i nostri hanno preferito gli sloveni styrian golding e celeia, che mantengono comunque gli aromi delicati e floreali - personalmente ho percepito anche un'ombra di agrumato, insieme alle note di cereale e miele date dal malto - che si addicono allo stile pur distinguendosi dalla norma. Il corpo è ben pieno e ricorda le fragranze del pane, avvicinandosi più alle pils ceche che a quelle tedesche, complice anche la buona presenza del lievito - è decisamente meno attenuata della pils da manuale. Il finale è di un amaro secco, netto e ben persistente, andando a contrastare in forze il corpo giocato sui toni del dolce: a conferma del fatto che a Emanuele e Christian il luppolo fondamentalmente piace, per cui c'è, si deve sentire, ed è il primo oggetto di sperimentazione nella loro filosofia di lavoro.

A conferma di questo c'è il fatto che anche la prima nata Mar Giallo, orgogliosamente monoluppolo sorachi, è stata oggetto di una revisione appunto per quanto riguarda i luppoli: nell'ultima versione è stato aggiunto il dry hopping con il citra, che va a smorzare l'amaro "spigoloso" del sorachi affiancandovi un agrumato più gentile. Personalmente ho apprezzato di più questa seconda versione, che ha peraltro un amaro meno persistente; nel complesso la trovo più equilibrata, come del resto era l'intenzione dei birrai.

Ultima nota va al locale che ci ha ospitati, il Giona's, e non solo per l'abilità di chi ha spillato una birra con una tale schiuma (vedi foto): apprezzatissimo il loro piatto a rotazione stagionale, il "Percorso contadino", che nelle versione di questo periodo propone radicchio rosso in saor, tortino di rape al gorgonzola, polpettone di cavolo e mais, spiedini di broccoletti di bruxelles pastellati e carciofi su ul letto di polenta morbida. Un degno accompagnamento ad una birra - la Ippils - che trovo essere la più pulita ed equilibrata tra quelle del Grana 40 (e di conseguenza versatile negli abbinamenti), e segno di un passo avanti nel percorso professionale dei birrai.

venerdì 26 febbraio 2016

Beer Attraction, parte terza: dalla laguna al Garda

Altra nuova conoscenza fatta a Rimini è stato il Birrificio del Doge di Zerobranco (vabbè, non propriamente in laguna, è in provincia di Treviso...però il nome la richiama) nato nel 2013 dai fratelli Giuman con l'amico birraio Federico Casarin. A vederli dietro al banco sembrerebbero un gruppo di ragazzini in gita, ma attenzione alle apparenze: pare che questi lavorino sodo, perché fanno 1700 hl annui e hanno un panorama di stili decisamente vasto per un'attività giovane. Dalle alte alle basse fermentazioni - blanche, weizen, weizen bock, pale ale, apa, rauch....- ce n'è davvero per tutti i gusti; con in più qualche particolarità come la Morera, una fermentazione spontanea aromatizzata con le bacche di gelso - quella che ho scelto di assaggiare. Così come in Belgio si usa aggiungere zucchero o sciroppi per rendere più "abbordabili" i lambic, allo stesso modo la dolcezza delle bacche - che si fa sentire in maniera generosa - la rende una birra tutto sommato "facile" ed estremamente beverina, grazie all'equilibrio tra la componente dolce e quella più acidula.

Ho poi ritrovato gli amici del Benaco 70 che mi hanno fatto assaggiare la loro nuova creazione, una apa. L'aroma tra il citrico e il fruttato dei luppoli americani è ben evidente, e il corpo, pur rimanendo discretamente esile per lo stile, unisce le note di nocciola e miele del malto a quelle agrumate che preludono al finale. Non una birra volta a stupire, ma semplice e facilmente bevibile, rinfrescante grazie alla luppolatura fresca e all'amaro non troppo pronunciato né persistente.

Naturalmente quelli di cui avete letto sinora non sono tutti i birrifici che ho visitato a Rimini, ma soltanto una selezione basata su quelle che per me sono state le principali novità; ma è stato un piacere trovare o ritrovare nomi come Jeb, Mastino, La Fucina, Malastrana, Elvo, Brasserie de Bastogne e altri ancora. Il Beer Attraction, insomma, presterà pure il fianco alla critica di essere un baraccone un po' confusionario - rischio che del resto corre qualsiasi fiera -, ma rimane un luogo - almeno se lo si vuole - per fare incontri istruttivi e interessanti.

giovedì 25 febbraio 2016

Beer Attraction, parte seconda: dalle Dolomiti...anzi no

Ammetto che, da buona veneta e frequentatrice delle Dolomiti, non ho potuto non pensare che un birrificio con un tale nome - "Aleghe", nome dialettale di Alleghe (BL) - sarebbe stato bene sotto le pareti del Civetta: invece questo si pronuncia "Alèghe", con l'accento sulla e, e si trova a Coazze (To). Al di là della mia personale ironia sul nome, devo dire che la chiacchierata con il mastro birraio Enzo è stata particolarmente interessante per conoscere un birrificio che - caso d'eccezione nel panorama delle artigianali - si cimenta esclusivamente nelle basse fermentazioni: una scelta dettata dall'eccezionale dolcezza dell'acqua - 3 gradi francesi - adatta alle basse fermentazioni, dalla passione di Enzo per la tradizione tedesca, e dalla sua volontà di non utilizzare al'interno dello stesso stabilimento lieviti da alta e da bassa - tanto da aver deciso di tralasciare anche la weizen, "sostituita" da una birra di frumento a bassa fermentazione. Enzo si è formato in Germania, e da lì ha preso - oltre che la passione - anche l'abitudine a lavorare a fermentatori aperti: "perché la fermentazione si controlla anche con la vista e con l'olfatto", ha spiegato, "cosa impossibile con dei fermentatori chiusi".


Coerentemente con quanto detto, le birre di Aleghe fanno la felicità degli amanti della tradizione tedesca e delle birre più "rustiche": è il caso soprattutto della Bionda, in cui Enzo ha voluto ispirarsi alla ricetta originale di Joseph Groll. Il Saaz in monoluppolo, unito agli aromi di cereale dati dal malto, la rendono una birra che al naso risulta particolarmente grezza e pungente per il genere: un profumo proprio "di campagna" - come personalmente immagino avessero le birre di quella zona nei secoli scorsi -, a cui forse oggi siamo poco avvezzi e che ad alcuni può risultare non del tutto gradito, ma coerente con la filosifia che sta alla base di questa birra. Al palato arriva, insieme al cereale, qualche nota di miele, per poi chiudere su un amaro evanescente accompagnata da sentori aciduli - tanto che mi sono trovata a definire il finale "ruvido". Detta così sembrerebbe una birra per pochi: Enzo mi ha invece assicurato che è stata accolta bene e che nei ristoranti è apprezzata per la sua buona bevibilità e la facilità di abbinamento - e devo dire che in effetti le "spigolosità" che ho evidenziato sono più delle "note caratteristiche" che dei reali ostacoli alla bevibilità o dei difetti, almeno in questo stile.

Nel panorama che ho avuto occasione di provare c'è poi la Pils, premiata da Slow Food come birra quotidiana, dalla luppolatura più delicata sia in aroma che in amaro - Magnum, Hallertau e Tettnang -, dalla maltatura armoniosa e dal finale ben secco; la Doppio - che Enzo ha definito "la sua chicca" -, una bock con monoluppolo Hallertau dal corpo ben robusto e pronunciato con toni di caramello che mantiene comunque una buona secchezza in chiusura con un amaro netto ma bilanciato; e la Brusatà, birra alle castagne nata "per gioco", volendo unire la tradizione tedesca delle rauch con un prodotto locale come le castagne arrostite - ottenendo un'affumicatura più morbida, e sapori variabili a seconda dell'annata. Al di là della tradizione non manca quindi la fantasia e la sperimentazione, dato che il repertorio di Aleghe conta anche la pils estiva alle foglie di menta, la birra al miele, e la dunkel con fave di cacao del Madagascar fatta in collaborazione con il mastro cioccolatiere Guido Castagna. Nel complesso, una tappa che ho apprezzato nonostante i miei gusti siano più vicini ad altri stili.

mercoledì 24 febbraio 2016

Beer Attraction parte prima: la birra è donna

Parto da qui per rendere conto dei numerosi birrifici trovati e ritrovati al Beer Attraction di Rimini in ossequio a quella che pare essere ormai una tendenza consolidata nel panorama birrario italiano, ossia una sempre maggiore e sempre più riconosciuta presenza femminile: ha fatto notizia quest'anno la vittoria di Luana Meola con la Fabbrica della Birra di Perugia, che alla kermesse riminese si è aggiudicata il titolo di birrificio dell'anno. Non a caso ad avere un proprio stand era anche un'associazione volta a promuovere questa presenza, Le Donne della Birra; e una delle socie è Giovanna Merloni, titolare di una delle nuove conoscenze fatte a Rimini - il birrificio I Beer di Fabriano (nella foto mi vedete con Giovanna a destra e la presidente dell'associazione Elvira Ackermann al centro).

Il birrificio è nato nel 2015 all'interno di un'azienda agricola, che fornisce le materie prime non solo in quanto all'orzo, ma anche in quanto ad una serie di altre aggiunte che la fantasia della birraia suggerisce - per le aromatizzazioni, o per esaltare alcune note particolari nell'aroma o nel sapore delle sue creazioni. Ho assaggiato per prima la Octobeer, una saison alla zucca - il nome è un omaggio all'Oktoberfest, dato che la zucca matura in ottobre. All'aroma risalta il mix di spezie tipico del genere, a cui si uniscono i toni fruttati del luppolo australiano, senza evidenziare il dolce della zucca; che si fa invece sentire al palato, prima di chiudere con un lieve tocco di pepe. In seconda battuta ho provato la imperial stout Special One: qui già iniziano le curiosità, perché Giovanna per conferire i toni amari che accompagnano quelli di cioccolata, vaniglia e cacao usa la buccia delle melanzane essiccate della sua azienda, finendo l'opera con dei sigari cubani in dry hopping. Ammetto di non aver colto molto la parte di tabacco, percependo di più la liquirizia sul finale; ad ogni modo, è degna di nota la volontà di recuperare l'uso di erbe od altri vegetali diversi dal luppolo così come si faceva prima dell'introduzione di questa pianta - nei progetti di Giovanna c'è una linea di "birre veggie", ossia ciascuna con uno o più erbe o ortaggi nella ricetta.

Da ultima la Lady Acid, una ale a cui l'aggiunta di purea di barbabietola conferisce non solo un caratteristico colore rosa, ma anche toni acidi simili a quelli delle fermentazioni spontanee. Al naso risulta infatti quasi acetica - ad Elvira, da brava tedesca, ha ricordato i cetriolini sott'aceto -, e personalmente ho colto degli aromi che ho associato ai petali di rosa; e mentre al palato si fa sentire in maniera distinta ma non soverchiante la barbabietola, il finale è una sorpresa con un piccante deciso dato dal peperoncino abruzzese in dry hopping. Da persona non particolarmente amante del piccante né della barbabietola, l'ho trovata una birra per stomaci forti, e inevitabilmente nel berla ne sono stata influenzata; a Giovanna va comunque riconosciuto il merito non solo della fantasia, ma anche di aver saputo trovare la giusta morbidezza per quanto riguarda la componente acida data dalla barbabietola.

Un'ultima nota meritano i formaggi e i salumi dell'azienda agricola, con cui abbiamo accompagnato le birre: un viaggio a tutto tondo nei campi di Fabriano, da quello che sta nel bicchiere a quello che sta nel piatto.

domenica 21 febbraio 2016

Dalla Valtellina con furore

Altra nuova conoscenza del Cucinare è stato il Birrificio Legnone, in diretta da Dubino  (Sondrio). Proprio nuova in realtà non era, nel senso che già lo avevo incontrato al Beer Attraction, ma senza avere l'occasione di fare due parole e degustare con calma - possibilità che invece questa volta ho avuto, essendo il Legnone stato il protagonista della prima serata di degustazione insieme al già citato Tarì. Data la zona di provenienza, il Legnone fa dell'acqua di montagna il suo punto di orgoglio; nonché della fantasia del birraio David che, dalle idee per le ricette a quelle per i nomi e la grafica, sa senz'altro farsi notare.

La prima birra che ho provato è stata la Spiga di Legno, una golden ale che definirei semplice e lineare, dall'aroma delicato sui toni del floreale con una punta di miele e un corpo non accessivamente robusto e senza particolari indugi sul dolce del malto. Corentemente con la volontà di fare una birra facilmente bevibile anche il finale è discretamente secco per il genere, con un amaro appena accennato in quanto ad intensità ma comunque ben percepibile.
Sicuramente colpisce di più la seconda birra portata in degustazione, la amber ale Milf Passion, che è infatti considerata la portabandiera del birrificio. Se all'aroma risaltano i toni caramellati del malto, con delle note anche di frutta sotto spirito (almeno così l'ho percepita io), in bocca risulta sorprendentemente secca con un finale nettamente amaro, generando quasi un ibrido tra la tradizione inglese e quella belga. Qui l'abilità del birraio sta nel gestire il passaggio tra i due estremi senza che questo risulti troppo brusco, cosa che definirei riuscita.

Al di fuori della degustazione ho invece provato la blanche, la Birra del Conte. Anche qui, niente eccessi: il coriandolo e le spezie d'ordinanza all'aroma sono appena percepibili, anche il caratteristico acidulo del frumento rimane molto delicato, e anche la chiusura tende all'evanescente. Personalmente ho trovato il corpo - e forse anche l'insieme - fin troppo scarico, ma del resto era dichiaratamente nelle intenzioni del birraio, per cui la considero una semplice annotazione relativa ai miei gusti.
Nel complesso, definirei il Legnone - almeno per le tre birre che ho assaggiato - un birrificio dalla filosofia "semplice e pulito" , che anche quando vuole osare e sperimentare lo fa comunque senza indulgere negli eccessi.

Novità nella Galassia

Il Birra Galassia era già una mia vecchia conoscenza; ma prima della degustazione del martedì al Cucinare - in cui sono state presentate le già note Nova e Galassia - ho avuto modo di provare la nuova nata della costellazione, la special bitter Colony, che ha fatto il suo debutto proprio in questa occasione. Il nome deriva dal fatto che la ricetta prevede l'utilizzo di luppoli provenienti dalla madrepatria inglese e dalle ex colonie - Australia, Nuova Zelanda e Stati Uniti -, uniti ad una base di malti in linea con la tradizione delle bitter britanniche. Ho trovato l'aroma tendente ai toni terrosi e resinosi più che di frutta esotica come da descrizione - che è comunque presente, per quanto meno forte -; e il corpo rimane relativamente leggero nonostante i sapori "importanti" - con le note maltate che spaziano dalla nocciola, al caramello al miele - per chiudere con una buona sferzata di amaro non troppo persistente come in ogni bitter che si rispetti. A differenza di Galassia e Nova, quindi, in questo caso stiamo parlando di una birra meno "sperimentale" e più attinente allo stile, per quanto i nostri ragazzi non abbiano rinunciato all'originalità soprattutto sul fronte della luppolatura.

E a proposito di Nova, spendo due righe per la nuova ricetta. Rispetto a quella che ho provato qualche mese fa, sono più evidenti le componenti agrumate della luppolatura, con un finale acidulo da malto a fare il paio. Una versione meno "sperimentale" e più equilibrata rispetto alla precedente, che - per quanto personalmente abbia apprezzato i profumi più intensi della precedente - denota comunque un ulteriore passo dei ragazzi di Galassia verso la ricerca di un risultato più "maturo" e pulito.

martedì 16 febbraio 2016

A Modica non c'è solo cioccolato

Nel rendere conto delle nuove conoscenze fatte al Cucinare inizio dai più lontani, i siciliani di Birra Tarì, birrificio nato a Modica nel 2010. Territori non associati, almeno tradizionalmente, con l'arte brassicola; ma che stanno conoscendo - mi si perdoni il luogo comune - un certo fermento, anche grazie al contributo di chi, come Tarì, sta cercando di fare delle specificità dell'isola una nota distintiva della propria produzione.


Farsi raccontare da Luca e Fabio - che mi hanno accolta allo stand, insieme al loro collaboratore Federico - come sono nate le loro birre e gli aneddoti curiosi che stanno dietro ad alcuni dei nomi è già di per sé un piccolo show. La più curiosa sotto tutti i punti di vista - genere di birra, storia della ricetta e storia del nome - è indubbiamente la Qirat, una stout alla carruba. Luca, durante la degustazione che ho condotto, ha così raccontato di come siano andati a scovare da un'arzilla signora novantenne la tecnica giusta per raccogliere, essiccare ed utilizzare un prodotto tipico della loro terra come la carruba - il cui seme in arabo si chiama appunto Qirat, come ha suggerito un loro amico (nome che, curiosamente, è "Tarì" al contrario se si eccettua la q - vabbè, non si può avere tutto). Altro aneddoto curioso sta dietro al nome della Apa For Sale, birra brassata per il decimo anniversario de Il Sale Arte Cafè di Catania, inizialmente battezzata "X Sale" (dove X sta per il 10 in numero romano); di lì il salto all'espressione inglese "for sale", in vendita, è stata breve. Il Tarì ha poi colaborato anche con la Bonajuto, la più antica fabbrica di cioccolato di Sicilia, per l'omonima birra alle fave di cacao brassata in occasione dei 150 anni della cioccolateria e dell'unità d'Italia; nonché con alcuni viticoltori locali per la Giacché, una Iga - ebbene sì, adesso lo si può dire - con mosto d'uva giacché. Il legame con la terra d'origine costituisce quindi un filo rosso nell'attività del Tarì.

Ho avuto occasione di assaggiare per prima la Oro, una pilsner semplice e pulita, che ad una luppolatura fresca e delicata abbina un finale discretamente secco per il genere; a colpirmi di più è stata però la Trisca ("la versione buona della tresca, nel senso di gruppo di amici" nella definizione di Luca), una wit che sia all'aroma che al palato amalgama in maniera encomiabile coriandolo, zenzero e basilico in maniera tale che nessuno dei tre sovrasti sugli altri ma si uniscano in un unico sapore fresco con un finale acidulo e dissetante. Il trucco, a detta dei birrai, è la scorza di limone: e si sa che la Sicilia, in quanto ad agrumi, non ha nulla da invidiare a nessuno.

Da ultima la Qirat, di fatto quella che mi incuriosiva di più. All'aroma si impone nettamente la dolcezza della carruba, tanto da coprire quasi il tostato tipico delle stout; che però ritorna in forze non appena il primo sorso arriva in bocca, per virare verso il caffè sul finale. Mi sono trovata a commentare che, se altre stout che mi è capitato di assaggiare sono il caffè amaro, questo è il caffè zuccherato: solo che - a differenza del caffè zuccherato - è il dolce a dominare all'inizio, per poi svanire a vantaggio di una persistenza tostata abbastanza lunga ma non aggressiva. Una birra che, come da noi proposto nella degustazione, si abbina bene al cioccolato fondente forte, così da andare ad accompagnare ulteriormente il passaggio dal dolce all'amaro.

Nel complesso, il Tarì mi ha dato l'impressione - almeno a questo primo acchito - di essere un birrificio che sa giocare bene anche con toni forti e con birre più sperimentali, riuscendo a mantenere un equilibrio anche laddove si rischierebbe di strafare; senza prestare il fianco alla critica di "farlo strano" per nascondere i difetti, dato che hanno dato buona prova anche con una birra semplice come la Oro. Insomma, chi l'avrebbe mai detto che a Modica di buono non c'è solo il cioccolato.

Accademia sotto attacco

Chiedo scusa a chi si aspettava oggi un post su una delle nuove conoscenze brassicole fatte al Cucinare, ma non posso esimermi - seppur con ritardo, dato che è accaduto ieri pomeriggio - dallo "stare sul pezzo": ossia rendere brevemente conto dell'attacco hacker subito dal gruppo Facebook di Accademia delle Birre, di cui avevo già ieri dato notizia sulla mia pagina non appena gli amministratori mi avevano contattato



I membri del gruppo si sono trovati ieri a ricevere una raffica di notifiche - tanto è vero che molti le hanno disattivate - concernenti, invece che la cultura brassicola che Accademia intende promuovere, insulti a piede libero e oscenità varie. Autore dell'attacco è il gruppo Shitstorm, che è riuscito ad estromettere gli amministratori - ed ha attaccato in particolare il fondatore del gruppo Paolo Erne, che ha visto compromettere anche il suo profilo personale. Per quanto la via da intraprendere pare sia ormai quella della creazione di un nuovo gruppo, gli amministratori stanno avviando tutte le iniziative opportune: trattandosi di un vero e proprio atto di pirateria informatica, ci sarebbero tutti gli estremi per un'azione legale.

La domanda però rimane: perché attaccare Accademia delle Birre? Gli amministratori per ora non si sbilanciano, non essendo i motivi del tutto chiari: pare infatti semplicistico che un'azione di tale portata possa essere giustificata da un semplice atto di esibizionismo informatico o da un'antipatia personale. Per quanto mi riguarda, anche in qualità di accademica, non posso che auspicare che venga presto fatta chiarezza, e che il gruppo possa presto tornare alla sua attività di divulgazione culturale.

lunedì 15 febbraio 2016

Novità in quel di Cavasso

Come già saprà chi segue questo blog, ho avuto il piacere di condurre le degustazioni della fiera "Cucinare" Pordenone; senz'altro una buona occasione non solo per conoscere nuovi birrifici - ai quali riserverò un post a parte per garantire maggiore dovizia di particolari - ma anche per riscoprire quelli già noti. Inizio, semplicemente per diritto d'anzianità - nel senso che è quello che conosco da più tempo - da La Birra di Meni, che nella persona del caro Giovanni mi ha presentato una birra nuova in senso assoluto e una nuova per me - non avendo mai avuto occasione di assaggiarla. 

Quella nuova "in toto" si inserisce a pieno titolo nell'eclettismo che ha di fatto sempre caratterizzato il lavoro di Meni, che spazia dalle alte alle basse fermentazioni, dalla tradizione tedesca a quella britannica con qualche incursione in quella belga, fino alle birre aromatizzate e alla frutta. Al panorama mancava forse qualcosa sul fronte del "genuinamente tedesco", lacuna colmata con la Keller Pils che Giovanni mi ha fatto provare. Mi sono trovata a commentare, quasi scherzosamente, "di questa birra non so nemmeno che dire": perché è la pils tedesca da manuale, limpida, con la sua luppolatura floreale discreta e la sua "punta di dms" (per i non adepti: dimetilsolfuro, simile all'odore del mais cotto) che - sempre da manuale - è caratteristico in questo tipo di birre, un corpo dalla maltatura leggermente dolce e non troppo robusta, un finale ben attenuato dall'amaro netto ed elegante. Vabbè, mi sono almeno sforzata di trovare aggettivi diversi da quelli della guida Bjcp perché al copia - incolla sono sempre stata contraria, però il senso spero sia chiaro: una birra semplice e pulita, che lungi dal perdere punti per una sorta di scarsa originalità, prova invece la maestria nel cimentarsi con quegli stili che, proprio perché semplici, sono i più difficili da realizzare senza sbavature.

In seconda battuta ho provato la birra alle castagne, la Pitruc. Ammetto di essere irrimediabilmente di parte quando si tratta di birra alle castagne, perché per me è stato amore al primo sorso con la Mortisa de Il Birrone - che, a mio parere, ha sempre costituito l'apice nell'equilibrio tra i profumi e sapori forti delle castagne arrostite e le altre componenti sensoriali -; ma anche la Pitruc si difende bene, e non solo per il posto sul podio ottenuto due volte a Birra dell'anno. L'aroma delle caldarroste è molto delicato, quasi vellutato, per lasciare poi posto al palato a dei toni che mi hanno ricordato quelli della farina di castagne. Una dolcezza moderata che poi - e qui sta forse l'aspetto più degno di nota della Pitruc - non indugia sino a diventare stucchevole o a lasciare la bocca "impastata" (perdonate l'espressione poco professionale, ma trovo sia il termine che meglio descrive la sensazione che lasciano in bocca le castagne) ma viene contrastata da una luppolatura decisa e pulita. Meno "estrema" della Mortisa, se proprio volessimo fare un paragone - sì, lo so, confrontare le birre non è elegante perché si va a giudicare in maniera comparativa il lavoro dei birrai, però a volte aiuta a capire (purché lo si faccia con l'intento di spiegare, non di giudicare) - , ma che proprio di questa maggior sobrietà fa la sua nota distintiva, andando incontro anche ai gusti di chi preferisce birre meno "sperimentali".

A risentirci per il seguito del Cucinare, con le altre novità!

sabato 13 febbraio 2016

Fatta la legge...non danniamoci sugli inganni

Ieri me ne sono stata zitta zitta, mentre infuriava in rete la discussione sulla definizione di birra artigianale e di "piccolo birrificio indipendente" - perché è questo il termine usato nel testo, in conformità con la direttiva CE 83 del 1992 - approvata in Commissione Agricoltura alla Camera: diciamo che ho preferito attendere che si calmassero le acque, e rifletterci meglio. L'oggetto di tanto contendere è questo: "Si definisce birra artigianale la birra prodotta da piccoli birrifici indipendenti e non sottoposta, durante la fase di produzione, a processi di pastorizzazione e microfiltrazione. Ai fini del presente comma si intende per piccolo birrificio indipendente un birrificio che sia legalmente ed economicamente indipendente da qualsiasi altro birrificio, che utilizzi impianti fisicamente distinti da quelli di qualsiasi altro birrificio, che non operi sotto licenza e la cui produzione annua non superi i 200.000 ettolitri, includendo in questo quantitativo le quantità di prodotto per conto terzi".

Tralasciamo la diatriba sull'utilità o meno di spaccare il capello in quattro rispetto alla definizione di birra artigianale - c'è chi commenta "a me non interessa che sia artigianale o no, interessa la qualità di quello che bevo", e del resto è difficile biasimarlo -; o se sia questo il termine più felice da usare di fronte alla sua "mercificazione"; manteniamoci più attinenti al testo.

Innanzitutto mi è balzato all'occhio il fatto che non si fa riferimento alle imprese artigiane, categoria sinora usata - in assenza d'altro - quando si "tentava" di spiegare che cos'è un birrificio artigianale: non si pongono quindi i limiti dimensionali previsti dalla legge quadro 443/85, come quello di 18 dipendenti. Il che, in una prospettiva di crescita (cosa sottintesa al limite posto che è notevolmente più alto della capacità attuale del birrifici artigianali italiani), può tornare utile (personalmente fatico ad immaginare un birrificio che fa poco meno di 200.000 ettolitri che lavori con meno di 18 dipendenti, amministrazione compresa. Però non ho un birrificio che fa 199.999 ettolitri e quindi magari mi sbaglio). Interessante poi la questione dell'indipendenza specie a fronte delle "campagne acquisti" di tanti colossi, purché non si inneschino giochi di scatole cinesi per cui il birrificio è controllato da un'altra società che birrificio non è (come un distributore), ma che "maschera" magari una multinazionale (qui però non vorrei rischiare di addentrarmi nella fantafinanza).

Non mi addentro nelle polemiche sollevate dai termini "pastorizzazione" e "microfiltrazione" (quanto micro? E chi controlla?), ritenendo più utile (si spera) attendere gli italici regolamenti attuativi; né mi straccerei troppo le vesti sulla questione beerfim, dato che mi sembra abbastanza lineare il fatto che potranno far produrre e vendere birra ma non chiamarsi birrificio, e la birra che venderanno sarà - ai sensi di questa legge - birra artigianale in quanto prodotta da un "piccolo birrificio indipendente" per conto terzi.

A colpirmi è stata però la sovrapposizione che si è generata nel dibattito tra il concetto di birrificio e quello di birra artigianale. Ai fini di un eventuale regime fiscale - o normativo più in generale - differenziato tra grandi e piccoli produttori, come da tempo richiesto da Unionbirrai e buona parte del settore, ciò che conta è la definizione di "birrificio artigianale" (o indipendente, o micro, o come preferite), ben più che quello di birra artigianale, sul quale chissà se mai si finirà di discutere. Che infatti, come ha sottolineato lo stesso presidente di Unionbirrai Simone Monetti in risposta ad un post del beerwriter Stefano Ricci, non era nemmeno contenuta nella proposta di legge di Unionbirrai. Leggere di gente che si scaglia contro la mancata precisazione di quali ingredienti siano consentiti e quali no, quali filtri siano consentiti e quali no, è indicativo di questa sovrapposizione: generata peraltro dal fatto che il testo definisce la "birra artigianale" ancor prima del birrificio. Curioso che a definire la birra artigianale - cosa che non sono ancora riusciti a fare in maniera univoca nemmeno gli operatori del settore - ci siano arrivati i deputati. Naturalmente si dirà che per definire il birrificio artigianale bisogna anche definire il suo prodotto, insieme alle sue dimensioni: semplicemente mi chiedo se sia davvero questo il punto su cui concentrarsi, dato che non pare aiutare in alcun modo il fine originario dell'iniziativa - ossia un regime differenziato di accise, per ora non all'ordine del giorno. E qui riporto le parole di Andrea Turco su Cronachedibirra: "Siamo quindi arrivati al paradosso per cui la definizione di birra artigianale da mezzo è diventato il fine del dibattito politico. Ed è qualcosa che riesco ad accettare di malavoglia, perché in questo modo il movimento ne perde totalmente il controllo, lasciandolo nelle mani della politica e senza neanche ottenere giusti riconoscimenti. Negli Stati Uniti la definizione di craft beer non è inclusa in una legge nazionale, ma nello statuto della Brewers Association. Da noi non è mai stato così, ma la cosa più importante è che non potrà mai esserlo in futuro. Dovremo sempre sperare che la politica sia in grado di ascoltare le esigenze e le necessità di un settore in veloce evoluzione, intervenendo per fare il bene dell’intero movimento". In altri termini, non confondiamo il mezzo - la definizione - con il fine - la normativa .

Mi ha invece meravigliata che nessuno abbia sollevato un'altra questione: significa allora che la dicitura "birra artigianale" potrà comparire in etichetta? Questione magari di lana caprina per gli intenditori  (a cui magari questo aggettivo manco piace), ma di ben altra rilevanza ai fini del marketing. Anche su questo, quindi, attendo - e attendiamo - lumi.

giovedì 4 febbraio 2016

In una Galassia lontana lontana...

Perdonate sia il lungo silenzio che il titolo (che però i fan di Star Wars sicuramente apprezzeranno); ma non ho potuto non fare questo collegamento pensando alla birra che ho stappato ieri sera. Si trattava infatti della Galassia dell'omonima beer firm - almeno per ora - pordenonese, una "saison ipa" - come definita dagli stessi birrai - di cui avevo già parlato in questo post. La bottiglia in questione si può dire che provenisse appunto da una "galassia lontana lontana" in quanto era una di quelle che Davide mi aveva lasciato a fine settembre per "testarne l'evoluzione" - sull'esempio di quanto già fatto all'epoca, come avevo raccontato.

Rileggendo il post, direi che ho infatti trovato una versione "intermedia" tra le due Galassia bevute allora, l'una "appena pronta", l'altra di un anno. Il colore, come la foto testimonia, è più simile a quella invecchiata, tendendo all'oro carico; l'aroma però mi ha ricordato decisamente la frutta tropicale, avvicinandosi quindi alla versione più giovane. In bocca la si percepisce come ben attenuata, più di quanto ricordassi, a testimoniare un'ulteriore evoluzione; e vira in maniera quasi improvvisa verso un finale netto e secco, di un amaro discreto per quanto deciso, unito ad una punta di pepe. Unico neo, la carbonatazione che ho trovato troppo robusta: ma per il resto si è confermata una birra originale e sorprendentemente facile a bersi nonostante gli otto gradi alcolici.