martedì 8 febbraio 2022

La birra sotto attacco del Nutriscore: ma se usassimo il Nutrinform?

È uscito un comunicato di Unionbirrai in cui l'associazione prende dura posizione contro la proposta di Serge Hercberg, creatore del Nutriscore, di bollare con una F nera tutte le bevande alcoliche: un po' come accade per le sigarette, dunque, il consumatore verrebbe così "avvertito" dei potenziali rischi per la salute insiti nel consumo di alcol - in particolare quelli legati al cancro. Non solo: una simile misura potrebbe portare gli Stati membri dell'Ue ad imporre - analogamente per quanto avviene con il tabacco - misure volte a scoraggiare la vendita di questi prodotti. L'intervento di Unionbirrai fa seguito a quello di numerose associazioni di produttori di vino e di diversi politici, che hanno bollato questa proposta come tentativo da parte dei Paesi Nordeuropei di colpire l'export italiano.  



 
Per capire meglio dobbiamo però fare un passo indietro, e capire che cos'è il Nutriscore. Si tratta di un sistema di etichettatura degli alimenti nato in Francia – e proposto all’Ue nell’ambito del processo di armonizzazione delle etichettature a livello europeo – che, in base al contenuto di zuccheri, grassi e sale su 100 grammi di prodotto, assegna ad ogni cibo un colore – dal verde al rosso, come appunto il semaforo, più il nero per l'ultimo gradino – e una lettera (da A a F) in base alla sua “salubrità”. Il concetto di base è che meno un certo cibo contiene queste sostanze, più è salutare: concetto mutuato appunto anche per l'acol. Peccato che la questione sia assai più complessa di così: l’olio d’oliva ad esempio, o il parmigiano, che in virtù del loro alto contenuto di grassi finiscono in zona rossa o arancione, non verrebbero sicuramente definiti insalubri da alcun nutrizionista; anzi, il loro consumo viene consigliato – nelle giuste dosi, beninteso: e sarebbe difficile peraltro superarle semplicemente condendo l'insalata o la pasta – proprio per i loro effetti benefici. Così come viceversa sarebbe opinabile considerare salubre un processatissimo piatto pronto “light”, magari ricco di additivi e conservanti. Sono stati in molti quindi a giudicare questa etichettatura fuorviante per il consumatore; nonché, appunto, un mascherare sotto intenti salutistici la volontà politica di penalizzare le esportazioni del Sud Europa e dell'Italia in particolare.
 
C'è però da ricordare che l’opposizione dell’Italia si è concretizzata in una controproposta assai meno conosciuta, il Nutrinform: un sistema di etichettatura che riporta, non per 100 grammi (e chi mai berrebbe 100g d’olio d’oliva?), ma per porzione consigliata (poniamo un pezzo di Parmigiano da 50g), la percentuale di grassi, zuccheri e sale calcolata su quella che dovrebbe essere l’assunzione giornaliera. Saprò così che con quella porzione di cibo avrò assunto, ad esempio, il 35% della mia dose quotidiana di grassi, il 12% della mia dose di energia, il 25% della mia dose di sale, e via dicendo. La cosa diventa quindi uno sforzo di educazione alimentare, stimolando un approccio consapevole ad una dieta varia che bilancia i vari nutrienti nel corso della giornata. Per quanto sarebbe più difficile ipotizzare di fare la stessa cosa con gli alcolici, dato che non c'è perfetto accordo nel mondo scientifico su quale possa definirsi una dose "sicura" - e che comunque questa varia significativamente in base al peso e al sesso -, si potrebbe per analogia ipotizzare di fare riferimento ad un livello "medio" (come del resto si fa anche per i valori di assunzioni giornaliere degli altri nutrienti) che possa essere definito un consumo "moderato e consapevole" per dare indicazioni analoghe. Certo non avrebbe la stessa efficacia di quella che è l'educazione ad un consumo consapevole a cui Unionbirrai stessa fa riferimento; ma sarebbe comunque meglio di una F che non rende affatto giustizia alla vecchia massima secondo cui "il veleno è la dose", né al fatto che il mangiare e il bere hanno anche una dimensione sociale, culturale e di piacere oltre che salutistica.



A quanto pare, peraltro, Nutrinform sta avendo successo: almeno secondo l’indagine “Le etichette fronte pacco in 7 Paesi: Nutriscore VS Nutrinform”, a cura dell’Osservatorio Waste Watcher International diretto dal professor Andrea Segrè. L’indagine offre uno sguardo internazionale, visto che può contare su un campione statistico di 7000 cittadini di 7 Paesi - Stati Uniti, Russia, Canada, Regno Unito, Germania, Spagna e Italia -; e riferisce che il Nutrinform nei giudizi degli interpellati ha ottenuto 23 punti in più in termini di utilità, 15 in termini di informatività, 13 per completezza e chiarezza e 12 per consapevolezza. Fattore importante dato che ben il 75% degli intervistati dichiara di utilizzare le informazioni in etichetta per decidere quali prodotti acquistare. Tenendo conto che proprio entro lo primo semestre 2022 - peraltro a presidenza francese - la Commissione europea dovrà esprimersi su un'etichettatura nutrizionale armonizzata nei Paesi europei, bene fanno cittadini e associazioni a farsi sentire.

venerdì 4 febbraio 2022

L'affaire Birra del Borgo e affini: un assist comunicativo per la birra artigianale italiana?

Sì, il titolo vuol essere provocatorio e finanche fuori luogo; ma, dopo aver letto in questi giorni di tutto di più su quanto accaduto a Birra del Borgo - l'annunciato licenziamento di una quarantina di dipendenti, la chiusura dei locali, e la cessione da parte di AbInbev del birrificio di Collerosso - devo ammettere che, da giornalista, il primo pensiero che ho fatto e quello che più mi rimane è comunque questo.


 

Se infatti osserviamo la questione dal punto di vista puramente mediatico, dalla sconosciuta (al grande pubblico, beninteso) testata MarsicaLive la notizia si è rapidamente diffusa su quelle nazionali, fino ai due quotidiani di punta del Paese - La Repubblica e il Corriere della Sera: l'acquisizione di Birra del Borgo da parte di AbInbev non aveva, viceversa, avuto la stessa risonanza. Chiunque abbia mai lavorato come ufficio stampa sa quanto può essere difficile farsi dare retta dai quotidiani nazionali, per cui è un bel risultato. Ora un pubblico nettamente più vasto conosce la vicenda, e di conseguenza a grandi linee - sempre che si sia preso la briga di leggere con attenzione, cosa ahimé sempre più rara - le dinamiche sottese al comparto birrario artigianale italiano e a quello industriale. Probabilmente molte persone hanno sentito parlare per la prima volta di questa dicotomia, di birre crafty, e di acquisizioni di marchi ex artigianali; con, si auspica, maggiore consapevolezza come consumatori. Al di là di qualsiasi valutazione nel merito di quanto è accaduto, dunque, il dato di fatto è che "il pasticciaccio brutto di Birra del Borgo" ha quantomeno fatto un favore alla causa della comunicazione in questo settore. E per quanto personalmente trovi odiosissima la massima "nel bene o nel male, purché se ne parli", ci sono casi in cui è dannatamente vera.

 

Accosterei poi questa osservazione ad un'altra che hanno fatto in tanti: ossia che il consumo di birra artigianale è oggi significativamente cambiato rispetto all'epoca in cui sono avvenute le incursioni dell'industria nel mondo artigianale italiano (non solo quindi Birra del Borgo, ma anche Birrificio del Ducato, Birradamare e Hibu). Se infatti all'epoca il profilo di chi frequentava i pub spaziava tra gli estremi di chi beveva artigianale per pura moda - erano gli anni in cui era diventato tangibile il boom partito dopo il 2010 -, e i grandi intenditori - finanche nerd e saccenti, mi si passi i termini -, adesso la moda è passata, come ogni moda che si rispetti, e complice anche il Covid è cambiato il profilo di chi è rimasto. Al di là dei grandi intenditori - che devo dire sono pure meno saccenti, forse controparte della "semplificazione degli stili" che è seguita allo sgonfiarsi della moda e del "famola strana" (la birra) - vedo tanti che non sono necessariamente adepti o consumatori abituali, ma persone che hanno trovato un genuino interesse nel farsi anche solo ogni tanto una buona pinta artigianale semplicemente perché negli anni passati hanno avuto modo di provarla e di apprezzare l'unicità di un certo produttore. E anche se per il resto bevono birra presa al supermercato, è comunque positivo che abbiano colto il messaggio della diversità tra le due tipologie. Ad un pubblico di questo tipo, dunque, è essenziale che passi anche l'altra parte del messaggio: ossia quella inerente la diversità delle strategie tra birrifici artigianali e industriali, e che cosa significhi di conseguenza supportare con i propri acquisti gli uni piuttosto che gli altri; o che cosa significhi (come del resto per ogni altro prodotto) essere informati sulla proprietà di ciascun marchio e sulle sue politiche.


Insomma, a dare un assist di rilievo alla sempre discussa comunicazione nell'ambito della birra artigianale potrebbe essere - strana ironia - proprio una multinazionale, contribuendo ad attirare l'attenzione sul settore. Certo questa attenzione deve essere ben indirizzata: se in questo caso a fare chiasso è stato fondamentalmente l'aspetto occupazionale, è chiaro che non ci si può limitare alla logora retorica della multinazionale brutta e cattiva che arriva, compra e licenzia (anche perché la situazione di fatto non è questa). Se gli artigiani sapranno sfruttare l'attenzione creata per comunicare invece le loro peculiarità - dall'unicità delle ricette e in alcuni casi delle materie prime, al legame con il territorio e con gli itinerari turistici connessi - si sarà davvero sfruttato questo assist.