mercoledì 30 aprile 2014

Mastro birraio, parte settima: vieni a mangiare in Puglia

Come già avrete capito dal post precedente, era ormai giunta l'ora - per dirla alla veneta - di "sugar su", asciugare l'alcol mangiando qualcosa: e meno male che non mancavano nemmeno gli stand di prodotti enogastronomici. Non vi tedierò con l'excursus, anche perché dopotutto è di birra che parlo in questo blog; ma concedetemi la (consueta, ormai) deviazione fuori tema, quantomeno per le scoperte più interessanti: tra queste lo stand "Puglia e i suoi sapori", che esponeva - come dice il nome stesso - prodotti tipici del tacco d'Italia, dove mi ha accolta il buon Vito Ranaldo insieme al socio Gino Scalise.

Nominate una specialità della zona - per la precisione Marina di Ginosa, in provincia di Taranto -, e fidatevi che c'era: dalle focacce, ai taralli, ai formaggi. Vito ha iniziato illustrandomi le focacce, rigorosamente di farina di grano duro, "che si conserva morbida per diversi giorni": le combinazioni per la farcitura sono innumerevoli, dal pomodorino, alla cipolla, alle olive. Ancor più curiosi i taralli, non solo per i gusti insoliti - come cime di rapa e mandorle -, ma anche per la forma: ho scoperto infatti che non esistono solo quelli rotondi, ma anche quelli a treccia. Guarda te, non si finisce mai di imparare.

Vito mi ha però illustrato soprattutto il capitolo formaggi, altro punto di forza dell'azienda: ottime le ricotte, particolarmente delicate, e i caprini, soprattutto le caciotte; ma il bello è arrivato alla fine, con una mozzarella che - a detta di Vito - "Non ne hai mai assaggiata una così": beh, in effetti aveva ragione lui. Onore al merito perché, pur nella semplicità senza andare a lanciarsi in prodotti troppo ricercati, Vito e Gino fanno davvero un buon lavoro.

A questo punto, mancava solo il dessert: ad incuriosirmi è stata la crepe allo yogurt, opera dell'azienda Yoggy, che grazie ad una lastra di marmo mantenuta alla temperatura di -30 gradi riesce a far solidificare lo yogurt dandovi la forma di un disco da cui ricavare una crepe. Naturalmente, da farcire a piacere: con cioccolato, granella di nocciole, frutti i bosco, e chi più ne ha più ne metta. Indubbiamente un'idea golosa e originale che non conoscevo, ma con un'unica avvertenza da osservare: mangiate piano se non volete che poi la digestione vi chieda il conto di questo vezzo, è davvero gelida....



martedì 29 aprile 2014

Mastro birraio, parte sesta: il profumo delle Alpi

Diciamocelo: ormai, dopo tutti questi assaggi, il mio stomaco (e il mio fegato) cominciavano a chiedere pietà. Per cui mi è davvero dispiaciuto pensare di dover rinunciare quando sono capitata allo stand della Brasseria Alpina, birrificio di San Germano Chisone (Torino), che dal 2010 rende onore al nome nella sua produzione.

Oltre alle birre più "classiche" della linea Bohème - la chiara Saint German Ale, l'ambrata Irish Ale e la Blanche con aggiunta di cumino - dai loro fermentatori escono dei veri e propri pezzi unici, il cui comun denominatore sono le erbe alpine raccolte dai birrai stessi. Per questo, mi ha spiegato il buon Roberto (nella foto), la maggior parte sono stagionali: difficile trovarle sotto metri di neve, come facilmente si può immaginare.

Si va quindi dalla Berla Nera, una scura aromatizzata al polipolio - una piccola radice, ha specificato il mio interlocutore anticipando la mia domanda di fronte al mio sguardo interrogativo - alla felce e alla liquirizia; alla Lingero, una chiara doppio malto con serpillo - timo di montagna, per i non adepti - e scorze d'arancio; alla Pomme de Bière, con succo di mele biologiche fornite direttamente dagli agricoltori del territorio.


Molte di queste, peraltro, sono delle barricate: è il caso della Sottobosco al lampone, per cui vengono utilizzati - almeno così mi ha detto Roberto, crediamogli sulla parola - 50 kg di frutti per ciascuna botte, e della D'Or Dublè 2012, affinata 20 mesi in botti che contenevano uve di Barbaresco di Gaja. Così come della Flora Genepi, una chiara aromatizzata - come dice il nome stesso - all'omonimo fiore; e dato che ormai aveva stuzzicato la mia curiosità oltre ogni più fervida fantasia, il buon Roberto è stato così gentile da offrirmene una bottiglia da portare a casa.

Posto che "chi beve da solo muore da solo", l'ho aperta insieme ad Enrico. Già all'aroma il genepi spicca da sotto la schiuma ben consistente, insieme ad un leggerissimo affumicato; e il corpo ben luppolato, perdonatemi l'eresia, mi ha ricordato molto le Ipa e la loro rosa di luppoli diversi, per quanto Ipa non sia. La sorpresa, però, deve ancora arrivare: dopo una prima persistenza decisamente secca e amara, torna infatti a scoppio ritardato il genepi: insomma, perdonate l'entusiasmo - e giuro che Roberto non mi ha pagata -, ma è davvero una birra fatta con maestria, di facile bevuta senza essere banale. In fondo, data la mia passione per la montagna, l'intesa tra noi (intendo le birre...) era destinata a scattare subito.

Si è poi posta la questione dell'abbinamento: in assenza di seirass, la tipica ricotta piemontese che il sito della Brasseria consiglia, abbiamo pensato di virare su un formaggio a pasta molle oppure sul San Daniele, giusto per rimanere nel locale. Enrico però aveva voglia di cioccolato fondente, e ha messo in tavola gli ultimi resti dell'uovo di Pasqua così, tanto per togliersi lo sfizio. Per quanto non l'avrei mai detto, si è rivelata un'idea indovinata - Roberto, aggiungi alla descrizione nel sito.

Ora sono davvero curiosa di assaggiare la novità che il birraio ha annunciato per il prossimo autunno: una birra senza luppolo, in cui il problema della conservazione - motivo originario dell'uso di questa pianta - viene risolto da una speciale miscela di erbe alpine (mi viene da chiedermi però se potrà ancora essere chiamata "birra", dato che la normativa attualmente in vigore, la 1354/62 e succevssive nmodifiche, ne prevede l'uso: giuristi che leggete, esprimetevi pure).  "Una bella sfida", ha commentato. Da parte mia, non posso che fargli i migliori auguri.

giovedì 24 aprile 2014

Mastro birraio, parte quinta: le sorprese della torba

L'ultima nuova conoscenza che ho fatto a Santa Lucia è stato il birrificio Camerini, di Piazzola sul Brenta (Padova). Lo stabilimento è nato nel 2012, ma la storia, quantomeno del nome, è assai più lunga: arriva infatti dalla ferrovia Camerini, che collegava Padova con la nascente zona industriale di Piazzola, voluta dal conte Paolo Camerini - appunto - nel 1911. A titolo di curiosità, sappiate che è stata la prima ferrovia privata italiana, e che ha funzionato fino al 1958: e dato che oggi ne rimangono pochi resti, i tre birrai - Franco, Giampaolo e Mauro - hanno voluto mantenerne così il ricordo.


Purtroppo non ho avuto il piacere di parlare con nessuno di loro, dato che non erano presenti in quel momento; però il ragazzotto che si è sminuito dicendo "Sono solo uno stagista" ha comunque fatto un egregio lavoro nel descrivermi le birre in questione, senza nulla da invidiare a mastri birrai di più lunga esperienza. I nomi, peraltro, sono abbastanza curiosi: si va dalla Bisbetica, una rossa doppio malto in stile belga (otto gradi però, fate attenzione); alla Birichina, una kolsch chiara assai più "bevibile" (4,5 gradi); alla Seducente, una birra speciale stile American Ale aromatizzata con agrumi.

 Su consiglio dello stagista però, per quanto fosse forse stata quest'ultima ad incuriosirmi di più, ho provato la Selvaggia: una oatmeal stout dal colore nero che più nero non si può e dalla schiuma ben cremosa. Dopo il primo sorso, in cui ritornavano nettamente le note di caffè ben evidenti all'aroma, ho percepito un'insolita persistenza di un'affumicato acre, quasi di bruciato, che non avevo mai trovato in nessun'altra birra: ohibò, e questo come lo definisco? "Hai sentito che note di torba?", mi ha chiesto prontamente lo stagista. Ah, ecco. Ammetto di non aver mai assaggiato la torba, ma indubbiamente se penso all'odore che ha mi ci ritrovo. E bravo il ragazzo, che ha saputo darmi una dritta. Una birra certamente interessante all'interno del panorama delle stout, non solo per questo motivo, ma anche per il corpo più deciso della media.

A questo punto, mi sa che dovrò organizzare una gita a Piazzola: sia per conoscere i birrai, che per togliermi la curiosità quantomeno della Seducente...

mercoledì 23 aprile 2014

Mastro birraio, parte quarta: arrivano i Sanniti

Al Rhex di Rimini, parlando del Saint John's Beer in questo post, avevo commentato come non mi fosse mai capitato di conoscere birrifici del Sud Italia. Ebbene, a Santa Lucia ho fatto il bis con il Birra Pentra di Cusano Mutri (Benevento), nato nel 2012 dalla passione per la birra dei due amici Daniele Pascale e Pasquale Petrillo. E proprio Pasquale mi ha guidata alla scoperta non solo delle loro birre, ma anche dell'osco, l'antica lingua dei Sanniti pentri - una delle quattro tribù che componevano questo popolo -, e della loro cultura.


Eh già, perché i nomi delle loro birre - nonché del birrificio, "Pentra", dalla radice celtica "Pen" che significa "sommità" - vengono tutti quanti da questa storia ormai millenaria. Se nomi come "Alfu" (bianco) e "Rufu" (rosso) è facile indovinare, una volta tradotti, che stiamo ad indicare rispettivamente la blanche  e la bruna, più curiose sono la "Zurr", "caprone", che ha dato battesimo alla bock in quanto animale simbolo delle birre di questo genere, o la "Fluusai", dal nome della dea dei germogli venerata dai Sanniti, che ha invece finito per essere associata ad un'ambrata in stile American Amber Ale. Ma non manca nemmeno il dialetto sannita odierno, con la "Castagn'", prodotta con una miscela di malti e - indovinate un po'? - castagne, e al "Vern'Ale", una stagionale speziata brassata in inverno, appunto "Vern" in dialetto sannita.

La più curiosa però è, sia per il nome che per la birra in quanto tale, la "Patanai Piistiai", "La dea della vinificazione e dell'apertura delle spighe - ha spiegato Pasquale -: a quanto ne so, i Sanniti erano l'unico popolo ad avere una divinità del genere". Perfetta quindi come nume - e nome - tutelare per una birra chiara ad alta fermentazione con mosto d'uva falanghina - tipica della zona -, aggiunta in fase di fermentazione. Lo ammetto: per quanto quella di "incrociare" birra e vitigni sia una strada sempre più battuta, personalmente i risultati non mi hanno mai entusiasmata: sarà perché non sono un'appassionata enologa, sarà perché se voglio bere una birra mi lascia perplessa il fatto di ritorvarmi in bocca sentori di vino, quando Pasquale me ne ha offerto un assaggio ero a dir poco scettica. Questa volta, però, non sono rimasta delusa. Se il mosto è infatti parecchio evidente all'aroma, nel corpo riesce ad equilibrarsi bene con la miscela di malti, senza andare a sovrastarli. Certo rimane una birra molto dolce e liquorosa anche alla persistenza, per cui se siete dei cultori del luppolo magari non fa per voi; però, se siete tra quelli che normalmente non apprezzano le birre con l'aggiunta di mosto, questa volta vi consiglierei di fare una prova. In fondo, tutti meritano un'altra possibilità. Anche le birre...

mercoledì 16 aprile 2014

Mastro Birraio, parte terza: quanto sei bella Roma

Una delle conoscenze che ho fatto a Mastro Birraio, in realtà, non era del tutto nuova: quando vivevo a Roma avevo infatti già avuto modo di assaggiare " 'Na biretta", del birrificio Birradamare di Fiumicino. Anche questo, come il Villa Chazil di cui ho già parlato, un birrificio agricolo: si occupa cioè di tutta la produzione, dalla coltivazione delle materie prime all'imbottigliamento. Diciamocelo, peraltro, era passato un po' di tempo da quando l'avevo assaggiata: per cui si imponeva un'ulteriore indagine.

Anche qui il birraio, come tipico dei romani, mi ha accolta a braccia aperte: e ci è pure voluto del tempo per descrivere con dovizia la lunga serie di birre che brassano. La fantasia di sicuro non manca: si va dalla Raaf, con malti affumicati al fuoco di torba; alla Wild Yeast, con lieviti brettanomyces (generalmente usato per i vini, mentre per le birre è limitato alle lambic e alle gueuze); alla La Zia Ale (ok, potete ridere) che usa unicamente cereali provenienti dalla filiera agricola della regione. Senza tralasciare la Bifuel con aggiunta di uva vermentina dell'azienda agricola Torre in Pietra, la Nat rifermentata al miele, il barley wine, e la 'na Bio con farro biologico non maltato. Insomma, c'è di che confondersi.

Soprattutto se, come nel mio caso, il birraio insiste per fartene assaggiare un buon numero. Se la chiara pils, la Roma Ambrata e la Onda Bionda - una hell bock di bevuta assai facile nonostante i sette gradi - non mi sono sembrate distinguersi notevolmente da altre dello stesso genere, già la nera fa sentire la sua peculiarità, con delle note tostate all'aroma che arrivano quasi a ricordare le braci vere e proprie nella persistenza. Secondo il birraio, però, il fatto che le prime non avessero troppo carattere non è una pecca: "Così ce stanno co' tutto - ha sentenziato -, con l'amatriciana e anche con la carbonara". In effetti, risultavano tutte abbastanza "universali".

Più particolare è invece l'ultima che ho provato, la Kuasapa: una American Pale Ale con luppoli sia americani che europei, in cui l'amaro ben deciso della luppolatura non nasconde affatto gli oltre sei gradi alcolici. Anche qui non ci discostiamo troppo dal genere: però bisogna riconoscere che risulta comunque ben equilibrata nonostante l'amaro di cui parlavo, per cui non è dispiaciuta nemmeno a me che di solito non amo le persistenze di questo genere.

Insomma, un birrificio bello perché è vario, un po' come la capitale: di sicuro, tra tutte queste, qualcosa di vostro gradimento lo troverete...

martedì 15 aprile 2014

Mastro birraio, parte seconda: quanto è bello il terzo tempo

La mia seconda tappa è stato Argo, un birrificio che nono conoscevo anche per ragioni "anagrafiche": è nato infatti da soli quattro mesi, in quel di Lemignano di Collecchio, in provincia di Parma. Le idee però sono ben chiare - e non solo per via dello slogan che non lascia spazio ad equivoci, "We want beer" -: il mastro birraio Stefano Di Stefano, infatti, vanta un'esperienza in realtà di tutto rispetto, in cui spicca un anno al Birrificio Italiano, sette al Birrificio di Lambrate e due stage negli Usa. Insomma, in realtà non è proprio gente nata ieri.


Al banco c'era però Veronica, l'altra metà del birrificio, che pur occupandosi essenzialmente della parte amministrativa di birra comunque ne sa. E' stata infatti lei a raccontarmi la storia della Terzo Tempo, così chiamata ispirandosi al "terzo tempo" del rugby, in cui i giocatori vanno a seppellire l'ascia di guerra dopo la partita davanti ad una buona pinta. Trattasi di un'American Cream Ale, uno stile - ha spiegato - creato negli Usa ai tempi del proibizionismo dagli immigrati tedeschi, che hanno "reinventato" la loro cara vecchia pils usando gli ingredienti locali, tra cui il mais.

Ce n'era a sufficienza per incuriosirmi, e così mi sono lanciata. Già all'aroma in effetti si percepiscono le note dolci del mais, che risaltano ancora più nettamente nel corpo. Veronica mi aveva avvertita che è molto beverina, e infatti, complici anche gli appena 4 gradi alcolici, è scesa allegramente nonostante fosse dolce: i luppoli infatti "puliscono" la bocca al retrogusto quel tanto che basta per invitare ad un altro sorso. Per carità, se non vi piacciono le birre dolci probabilmente non fa per voi; però indubbiamente vale la pena provare qualcosa di diverso, anche perché di fatto è ben bilanciata.

Altra creazione dell'Argo è la Aran, una Irish Stout che si mantiene sul classico del genere pur accentuando le note di caffè; a colpirmi però è stata soprattutto la Milva, una Imperial Red Ale, che vanta la bellezza di sei luppoli - tra americani, sloveni e neozelandesi. Se pensate che le rosse ben maltate non rendano giustizia ai luppoli, potrebbe essere l'occasione per ricredervi: già all'aroma si fa sentire la rosa di profumi che va dal resinoso, all'erbaceo, all'agrumato, e al gusto la dolcezza iniziale dei malti viene subito accompagnata da un amaro che fa il paio alla rosa di cui sopra. Insomma, onore al merito di una rossa non qualunque.

Argo, quindi, sarà pur nato da poco; ma, complice il fatto che, come ha detto Veronica, stanno cercando di farsi conoscere, credo proprio che avrò ancora il piacere di incontrarlo...

lunedì 14 aprile 2014

Mastro Birraio, parte prima: il sapore delle spezie

A Mastro Birraio, la fiera della birra di Santa Lucia di Piave, sono tornata volentieri: si tratta di rievocare un bel ricordo, dato che è la prima a cui ho partecipato due anni fa insieme ad Enrico. Questa volta ero da sola, ma è stata l'occasione per ritrovare dei vecchi amici - dall'Acelum, al Bradipongo, all'Estense, al Bad Guy - e per conoscerne di nuovi.

Tra questi il Croce di Malto, birrificio di Trecate (Novara), che brassa 5 birre fisse più un'altra decina di stagionali a rotazione: per la maggior parte di impronta belga, ma non mancano nemmeno le weizen in stile tedesco - come la Triticum - e quelle di stile inglese - come la Acerbus.


Eh già, la fantasia nei nomi ai ragazzi del Croce di Malto non manca: tra quelle a rotazione c'è infatti la simpaticissima Piedi Neri, una stout con castagne e riso venere - a testimoniare il legame con in territorio - e la Birra Jazz, prodotta per il festival jazz di Novara. Significativa poi la denominazione della Due Mondi, così chiamata perché prodotta in collaborazione con il Birrificio Italiano.

Sì lo so, fin qui questo post suona un po' come uno sbadiglio: della serie, se era per sciorinarci solo una serie di nomi di birre, oggi potevi occupare il tuo tempo in maniera più utile. E allora veniamo al dunque, cioè alle birre che ho assaggiato e sulle quali posso quindi dire qualcosa.

Quando ho visto che tra le amenità a disposizione alla spina c'era una triplo malto in stile belga, la Triplexxx, nonostante il grado un po' inappropriato per l'ora mattutina - quasi 8 gradi - non ho potuto tirarmi indietro: d'altronde il buon birraio mi aveva pure magnificato questa miscela di orzo, avena e frumento (di qui le 3 X) con tre luppoli e tre spezie, giusto per coerenza. L'aroma è assai fruttato, e farebbe presagire una birra parecchio dolce: in realtà, pur risultando quasi mielosa al primo sorso - facendo ben sentire tutta la gradazione alcolica, peraltro - in realtà è ben bilanciata, perché i luppoli subentrano prontamente. Insomma, la definirei una birra che ha il merito di bilanciare sapientemente una maltatura che altrimenti rischierebbe di essere eccessiva, risultando assai meno dolce sia al corpo che alla persistenza rispetto ad altre dello stesso genere. Non per niente si è aggiudicata la medaglia di platino al Mondial Beer di Strasburgo...

Però, a dire il vero, io quelle tre spezie di cui parlava la scheda di degustazione non le avevo sentite: per cui mi sono arrischiata a fare un'altra prova con la Temporis, una saison aromatizzata con due tipi di pepe cinese del Sichuan e coriandolo. Almeno qui, mi sono detta, le spezie le sentirò. E l'aroma infatti era tutto un programma: il pepe si sentiva in maniera ben decisa, creando un mix di profumi che mi ha indubbiamente incuriosita. Al gusto, però, la speziatura tendeva a sparire per lasciare il posto ad un amaro tendente all'erbaceo; salvo ricomparire leggermente alla persistenza, dando un tocco dissetante in unione con i luppoli. A questo punto stavo per chiedere delucidazioni, ma il birraio mi ha prevenuta: "Se mi dici che non senti le spezie, mi stai facendo un complimento". Ohibò, come mai? "La birra deve essere birra, il sapore non deve essere coperto dalla speziatura". Ok, ho conosciuto un'altra scuola di pensiero, oltre ad una birra decisamente peculiare. Sempre detto che non si finisce mai di imparare...

giovedì 3 aprile 2014

Il cielo d'Irlanda

 Si beh, più che il cielo d'Irlanda sarebbe meglio dire il cibo (e il bere) d'Irlanda: sto naturalmente parlando della consueta degustazione del mercoledì alla Brasserie, che questa volta ha portato a Udine un po' di Cork con le birre dell'Eight Degrees Brewing e relativi abbinamenti. Ammetto che non ero proprio entusiasta, perché le birre irlandesi che apprezzo si contano sulle dita di una mano, pollice opponibile escluso; però partecipare a queste serate è comunque istruttivo perché si scopre sempre qualcosa di nuovo, per cui non mi sono tirata indietro (ci mancherebbe).

La prima birra che Matilde ci ha messo davanti è stata la Howling Gale Ale, dall'aroma ben agrumato e dalla convivenza piuttosto insolita tra un corpo discretamente dolce ed una luppolatura ben decisa (tre diversi luppoli, American Chinook, Amarillo e Centennial per la precisione) che mi ha ricordato quella delle Ipa, anche se Ipa non è. Per quanto abbia apprezzato da subito l'accostamento con il crostino alla crema di merluzzo, date le note di agrumi che ci andavano a pennello, ci ho messo decisamente di più ad apprezzare la birra in sé, che all'inizio mi ha lasciato - appunto - l'amaro in bocca, dato il contrasto marcato con quel "sottofondo" di dolce. In realtà poi, sorso dopo sorso, ho iniziato a lodarne le virtù, fino a concludere che era decisamente degna di nota. Mai come in questo caso, direi, la mia opinione su una birra è cambiata così tanto in corso d'opera.

In seconda battuta è arrivata la Sunburnt Irish Red, una rossa come dice il nome stesso. Abbastanza "classica" nel suo genere direi, dagli aromi dolci e corpo caramellato, pur bilanciato nel finale da una luppolatura non troppo pronunciata. Indovinato anche in questo caso l'abbinamento con il Dublin Coddle, un crostino di salsiccia, carote e patate, dato che carni rosse e birra di questo tipo si riciamano l'un l'altra; birra che però, per quanto apprezzata, non mi ha impressionata.

Dulcis in fundo, in tutti i sensi, ci siamo dati alla Knockmealdown Porter (un nome, un programma, si direbbe, dato che significa letteralmente "Porter abbatti pasto", quindi si presume ottima come digestivo) insieme alla Porter cake. Perdonatemi se mi soffermo prima su quest'ultimo, piccolo grande capolavoro di Matilde: una torta al cioccolato e porter con una crema di formaggio dolce, che oserei definire libidine pura. Generalmente gli abbinamenti per accostamento mi lasciano un po' perplessa, preferisco di gran lunga quelli per contrasto, meno "ripetitivi" anche se più difficili da fare; però questa volta devo ammettere che le note di caffè - che definirei la particolarità di questa porter, che per il resto, checché ne dica la descrizione che la vuole come un'evoluzione delle stout inglesi di epoca vittoriana, non mi è sembrata differenziarsi molto dalle altre del suo genere - erano il degno coronamento del cioccolato della torta, "sgrassando" peraltro ben bene.

Dovendo, ma proprio proprio dovendo, azzardare una valutazione finale, direi che la Gale Ale vince come birra in sé e per sé, e la porter con relativa torta come abbinamento. Ma, si sa, sono scelte difficili: per cui meglio non farle, ed assaggiare un po' di tutto...

martedì 1 aprile 2014

Cucinare, parte quinta: La patrie dal Friûl

Naturalmente, al Cucinare non c'erano soltanto birrifici: in fondo, bisogna pure "asciugare" in qualche modo, per cui anche le varie specialità enogastronomiche ci stavano. Date le mie radici nordiche e la famiglia da cui porvengo, non poteva che attirare la mia attenzione uno stand che esponeva il "Dolce dell'alpino": ohibò, mi sono chiesta, che sarà mai?


Ho così fatto la conoscenza di Tipico Friulano, azienda di Gemona  che - come dice il nome stesso - propone una serie di amenità locali, dalle grappe, ai vini, ai dolci. Nel caso di specie, un'autentica bomba - perdonatemi l'ironia - pensata per la commemorazione del centenario e l'adunata degli alpini il programma a Pordenone il prossimo maggio: un dolce al caffè, cioccolato e una dose di grappa da far impallidire la gubana. Caffè e cioccolata insieme è un classico, grappa al caffè (o caffè corretto...) e grappa e cioccolato pure, ma tutti e tre insieme non li avevo mai provati: abbinamento indovinato, direi, e sono pronta a scommettere che un banchetto che vende le fette già pronte nelle vie di Pordenone durante l'adunata avrebbe il suo successo. Tanto più che gli alpini per la grappa di qualità hanno fiuto, e qui di certo non manca.

Lo stand, comunque, non esponeva solo questo: per gli appassionati delle torte c'era il dolce friulano, con pezzi di mela , gocce di cioccolato e cannella, e il dolce di Gemona (nella foto), fatto con una miscela di ben quattro farine (di gtrano tenero, di grano duro, di mandorle e di nocciole), gocce di cioccolato e cannella. Il tutto, assicuravano i baldi uomini allo stand, prodotto artigianalmente e rigorosamente con ingredienti locali, tra cui le farine macinate dai mulini che ancora lavorano in zona. In effetti, al di là dei gusti personali, bisogna ammettere che si tratta di ricette uniche, che non si trovano altrimenti.

Immancabili naturalmente i vini, dal Ramandolo alla Ribolla - sui quali ho però preferito soprassedere, date le birre già bevute in precedenza -, i biscotti, le confetture, prodotti da forno ed altre sfiziosità, tra cui uno snack proprio tipicamente friulano: i mini-frico, sorta di "sostituto" di patatine o nachos, fatti però con una crosticina croccante ottenuta dal mix di formaggi Montasio usata per preparare il celebre piatto che ha spadroneggiato anche a New York grazie allo chef di Aviano Luca Manfè.In quanto a questi ultimi in particolare, però, mi sento di specificare che hanno una controindicazione: attenti, danno una forte dipendenza....