sabato 26 novembre 2016

Anche i birrifici vanno in Erasmus

Ieri sera ho presenziato a "Fusti di frontiera", simpatica - perdonate l'aggettivo generico, ma mi sembra nondimeno il più calzante - manifestazione organizzata dal Birrificio Campestre. Quest'anno, con la seconda edizione, il sodalizio tra Campestre e Antica Contea si è allargato a Borderline; e forse il segreto del fatto che anche quest'anno sia stata una manifestazione riuscita - almeno a giudicare dal numero di persone presenti già a inizio serata - è il fatto che, come ha affermato Giulio (il birraio del Campestre, per chi non lo conoscesse) "Ci troviamo qui, portiamo i fusti, e ci divertiamo noi per primi". Il tutto naturalmente senza perdere d'occhio la bontà della materia prima, cosa su cui i tre birrifici in questione si sono a mio avviso sempre ben difesi: il Campestre portava Aurora, Rurale, Dove Canta la Rana e Scur di Lune; il Borderline Ultra Hoppy Golden Ale, American Session Brown Ale e Red Ale; e Antica Contea portava Contessina, Dama Bianca e Superbia.

Era proprio quest'ultima - una best bitter - che mi mancava, e così ho provveduto. Trattasi di una di quelle bitter "intrinsicamente britanniche" che ai ragazzi di Antica Contea tanto piacciono: schiuma ben densa e persistente a grana sottile, luppolatura sobria in aroma - nella fattispecie il luppolo inglese Progress, simile all'East Kent Golding, dall'aroma molto delicato tra il floreale, l'erbaceo e finanche speziato - , e dal corpo che pur esile a garanzia di bevibilità lascia in bocca un intenso nocciolato, prima di un finale di un'amarezza sobria ma netta, secca e pulita. La classica bitter appunto, da bere in quantità - del resto ha poco più di quattro gradi alcolici - e a cui sicuramente verrebbe resa molta più giustizia spillata da cask o a pompa, per rendere meno accentuata la carbonatazione; ma anche alla spina non perde comunque la sua ragion d'essere, nonché il suo "marchio di fabbrica" di Antica Contea in quanto ad amore per le isole britanniche, semplicità e pulizia.

E qui vengo al motivo del titolo, perché tra un sorso e l'altro mi sono fatta raccontare da Costantino (uno dei birrai di Antica Contea, per chi non lo conoscesse) il loro viaggio alla Driftwood Spars Brewery in Cornovaglia, per una cotta della loro Pat at a Tap insieme al birraio Pete. Un viaggio molto istruttivo, a sentire Costantino, "perché ci siamo resi conto di quanti problemi forse inutili ci poniamo noi qui in Italia nel fare la birra": dagli impianti ai metodi, lì è tutto molto più "spontaneo", forse in virtù di una lunga tradizione che ha portato a privilegiare la pratica sulla teoria. Gli amici della Driftwood hanno ora in programma di ricambiare la visita, per cui l'auspicio è quello che si crei un fruttuoso scambio tra Gorizia e la Cornovaglia. Un genere di "Erasmus" da incentivare a livello più ampio soprattutto se può aiutare ad affrontare una delle debolezze spesso citate dei nostri birrifici, ossia la scarsa competitività sul mercato internazionale: penso ad esempio ad accordi per la produzione e distribuzione in loco delle reciproche birre, oltre naturalmente a birre in collaborazione. Un reciproco arricchimento non solo economico ma anche culturale.

venerdì 25 novembre 2016

La lunga saga delle accise

Non sono passati due giorni dalla notizia della riduzione dell'accisa sulle birre, e già si sprecano i commenti tra l'ironico, il cinico e il deluso: ma come, da 3,04 a 3,02 euro per grado plato per ettolitro? In effetti, date le cifre in questione, pare un po' una presa in giro. Tanto che tra i birrai c'è chi si sbizzarrisce a quantificare il risparmio in poche centinaia di euro l'anno, concludendo con un "Che bello, me ne mancano solo 9.700 per arrivare a comprare il fermentatore nuovo". C'è poi chi, con meno ironia ma più realpolitik, punta il dito contro le pressioni esercitate dai grandi dell'industria contro l'applicazione dell'accisa differenziata; che ha fatto sì che si arrivasse ad una misura puramente simbolica, in un gattopardesco cambiare tutto per non cambiare nulla.

Bisogna dire in effetti che le premesse da cui si era partiti più di un anno fa erano di ben altra taratura: la proposta di legge 3344 del 5 ottobre 2015, presentata su iniziativa di quasi una cinquantina di deputati (Pd in questo caso, ma è bene evitare polemiche politiche ricordando che interessamento in questo senso è arrivato anche da altri partiti, M5S in particolare) prevedeva infatti una riduzione del 50% dell'accisa per chi produce fino a 5000 hl l'anno (buona parte dei microbirrifici, insomma), del 40% fino a 10.000 (e già qui si contano sulle dita di una mano quelli che rimarrebbero fuori), del 30% fino a 20.000 ettolitri, e via così, fissando a 50.000 il limite massimo per beneficiare della riduzione dell'accisa. L'impatto della misura era stato valutato in un milione di euro annui, da coprirsi "mediante corrispondente riduzione dello stanziamento del fondo speciale di parte corrente iscritto, ai fini del bilancio triennale 2015-2017, nell'ambito del programma «Fondi di riserva e speciali» della missione «Fondi da ripartire» dello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze per l'anno 2015, allo scopo parzialmente utilizzando l'accantonamento relativo al medesimo Ministero" (e qui vado sulla fiducia in merito al fatto che avessero davvero capito come coprirlo, perché questa dicitura è piuttosto oscura per chiunque non conosca in funzionamento di questi fondi). Inoltre, cosa non secondaria, la proposta di legge prevedeva che la tassazione venisse determinata "dalla birra immessa al consumo esclusivamente sulla base dei dati giornalieri contenuti nel registro di magazzino, nel quale si assumono in carico il prodotto finito in fase di condizionamento, il prodotto andato perduto, nonché i quantitativi estratti giornalmente per l'immissione in consumo diretta ovvero tramite la vendita ad altre imprese": in altri termini, le tasse si sarebbero pagate non più sul mosto uscito dal contalitri e in anticipo, ma sulla birra effettivamente resa disponibile per il consumo una volta arrivata in magazzino. Tenuto conto dei problemi di cassa che l'attuale sistema può creare, un cambiamento di notevole importanza.

Nel frattempo sono poi successe altre cose, su tutte l'approvazione della definizione legislativa di birra (e birrificio) artigianale; che non aveva però appunto toccato la questione accise, pur essendo stata presentata come primo passo per arrivare a questo traguardo. Un emendamento al bilancio era arrivato anche un paio di settimane fa, a firma di Giuditta Pini (Pd) insieme ad esponenti di Lega, Ap e Fi, che proponeva un'accisa di 2,86 euro per grado plato per ettolitro; e un'altro sempre degli stessi firmatari proponeva una riduzione del 30% per i microbirrifici. Si è poi arrivati alla fine a questa riduzione del tutto simbolica, che il sottosegretario Baretta ha però ricondotto alla volontà di "mandare un segnale al settore" e assicurando - come sempre si fa in questi casi, verrebbe da dire - la disponibilità a riconsiderare al più presto le esigenze dei produttori, "possibilmente già in seconda lettura al Senato".

Ora, per carità: chiaro che anche poche centinaia di euro all'anno riasparmiati possono fare comodo, ma una giusta via di mezzo tra il "benaltrismo" (secondo il quale qualsiasi misura è inutile perché "ci vorrebbe ben altro") e l'accettare qualunque cosa si può pure trovare, se non altro per portare l'attenzione sulle questioni che davvero possono fare la differenza: nella fattispecie - come molti hanno notato - la possibilità di pagare le accise sulla birra immessa alla vendita e non sul mosto, le agevolazioni che consentano di assumere più facilmente dipendenti sia sotto il profilo burocratico che sotto quello fiscale, e semplificazioni tali da consentire di non perdere quantità ingenti di tempo e denaro tra scartoffie e uffici vari (c'è qualche birraio che mi ha riferito di autentiche vie crucis tra Agenzia delle Dogane, Camere di Commercio e affini).

Senza dimenticare la questione della mancata accisa sul vino, che è bene venga posta non come mera ritorsione come richiesta di equità: basti dire che ad esempio la Francia, Paese vinicolo tanto e più di noi, applica - come verificabile sul sito delle dogane del governo francese - una tassazione di 3,77 euro per ettolitro al vino tranquillo e di 9,33 per quello frizzante. Se Oltralpe siano le famigerate "lobby del vino" ad essere meno potenti, o la volontà politica ad essere più forte, non so dirlo; fatto sta che ad una qualche forma di partecipazione al carico fiscale, pur minima, si è arrivati, anche in un Paese in cui il settore vinicolo è considerato cruciale. C'è da dire, per completezza d'informazione, che la Francia applica alla birra una tassazione di 7,41 euro per grado alcolico per ettolitro alle birre che superano i 2,8 gradi alcolici (sostanzialmente tutte insomma): ponendo pertanto il classico caso di una birra di 5 gradi otteniamo 37,05 euro a ettolitro, che potremmo mettere a confronto con un altrettanto classico (per quanto ottimistico) 12 plato che pagherebbe 36,24 euro. Cifre non direttamente confrontabili, ma stiamo in ogni caso parlando di una tassazione non significativamente diversa.

Smontato quindi anche il mito del "pagare tutti per pagare di meno"? Semplicistico dirlo, perché è un ragionamento che dovrebbe essere fatto nel quadro della fisclità generale - dato che non sono solo vino e birra a contribuire alle casse dell'erario. Però tutta la vicenda pone alcune serie questioni di riflessione: dato che un anno (e più, dato che questione non era nuova) di discussione ha portato ad una misura che appare essere simbolica, che si vuol fare affinché non sia stato tempo perso? E la "potenza" della fantomatiche "lobby" (industria birraria o produttori vinicoli che siano) fino a che punto è lo specchietto per le allodole di una mancata volontà politica di intervenire, visto che altrove lo si è fatto?

venerdì 18 novembre 2016

Tra birra artigianale e Prosecco

Da ragazza - o donna, fate voi...tanto la mia età la sapete - cresciuta tra le colline del Prosecco, non ho potuto non seguire con interesse la polemica seguita all'ultima puntata di Report in merito all'utilizzo dei pesticidi nei vigneti. Intendiamoci: una storia che sento fin da quando ero bambina, che pone un problema reale, ma concordo con chi dice che il servizio non ha reso giustizia ai passi avanti che sono stati compiuti e agli sforzi di quei viticoltori che già da tempo si sono presi a cuore la questione - finendo per dare un quadro falsato della realtà.

Detto ciò però, mi ha dato da pensare la risposta data da Desiderio Bortolin (nella foto) - titolare delle Cantine Angelo Bortolin - in una lettera aperta su Facebook indirizzata a Milena Gabanelli. Dopo aver ripercorso la storia dell'azienda, e rilevato alcune criticità nel servizio in merito al fatto di aver "messo nel mucchio" produttori di doc e docg - che devono sottostare ad un disciplinare più stretto e lavorare le vigne a mano data la conformazione delle colline - Bortolin scrive: "Il “fenomeno Prosecco” non appartiene a Valdobbiadene, ma è qualcosa che a noi coltivatori di Valdobbiadene fa rabbrividire, che noi stessi contrastiamo puntando sulla qualità dei nostri prodotti e non sul numero di bottiglie [...] E’ da tempo che sostengo la necessità per noi viticoltori di Valdobbiadene di sdoganarci dal nome “Prosecco” che è ormai sfruttato da tanti come opportunità di business internazionale, data la richiesta del mercato. E il mercato, soprattutto quello internazionale, non ha ancora capito la differenza né è in grado di apprezzare il valore della nostra viticoltura eroica, della nostra storia [...] E’ forse davvero arrivato il momento, come io affermo da tempo, di dire basta al nome “Prosecco” e di chiamare i nostri vini esclusivamente “Conegliano-Valdobbiadene”".

E cosa c'entra con la birra, direte voi, a meno di non volerci fare una Iga col Prosecco (arrivate tardi, l'hanno già fatta)? Beh, diciamo che a molti il discorso non sarà suonato del tutto nuovo: un "fenomeno" (Prosecco o birra artigianale che sia) legato ad un "nome" (Prosecco o birra artigianale che sia, e ricordo che anche quest'ultima ha ottenuto, seppure sotto forma diversa, una qualche tutela normativa) che però finisce per essere "sfruttato da tanti come opportunità di business" e ritorcersi contro chi lavora bene, tanto da far invocare l'abbandono del nome stesso. Vi dice nulla tutta ciò? Anche senza scomodare Teo Musso, che già da qualche anno preferisce parlare di "birra viva", tanti dei birrai con cui mi sono confrontata hanno espresso serie perplessità in proposito - come avevo scritto anche in questo post. Due casi molto diversi, certo, ma accomunati dal fattore "effetto nome".


"What's in a name?", "Che cosa c'è in un nome?", si chiedeva la shakespeariana Giulietta al balcone: tutto e nulla, sembrerebbe, se prima il nome pare essere il fautore di un successo e poi improvvisamente qualcosa da cui si può - e anzi è meglio - fare a meno "purché ci sia la qualità" - e si trovi il modo di far arrivare ugualmente il messaggio al consumatore, beninteso. Mi ha dato da pensare la necessità diffusa in sempre più settori, dopo anni da "sbornia da certificazioni" - ricordiamo che l'Italia è il Paese europeo con il maggior numero di prodotti agroalimentari certificati, oltre 800, dal dop, al doc, all'igp - di "ritornare alle origini" e non "aggrapparsi" ad un nome nel momento in cui questo ha perso il significato per il quale era stato inteso. Se sia per la birra che per il Prosecco ci avvieremo su questa strada, forse è presto per dirlo; ma, come mi è stato scritto in un commento privato ad un mio post, "Gli appassionati non si fanno fregare dalla dicitura "birra artigianale", che, diciamocelo francamente, non significa nulla. Non oggi". Forse continueremo a definire "artigianali" i birrifici che per dimensione e metodo di produzione rientrano in certi parametri; ma "birra artigianale", per quanto sia a rigor di logica la birra fatta da loro, non sarà più il vessillo da sbandierare.

martedì 15 novembre 2016

Sono finiti i tempi del mercante in fiera?

In pressoché tutti gli ultimi eventi a cui ho partecipato - intendendo per "ultimi" quelli degli ultimi sei mesi - ho notato un "filo rosso" costante nelle mie chiacchiere con i birrai. Molti mi hanno infatti riferito di aver visto - con poche, lodevoli eccezioni - un notevole calo di affluenza per quanto riguarda fiere, feste ed eventi; che, sempre pressoché all'unanimità, sono diventati troppi, arrivando a "stancare" gli acquirenti. Anche il binomio birra/cibo, per quanto offra risultati migliori, non pare più garantire il successo. Il tutto a fronte di una produzione che però aumenta o quantomeno non cala, tanto che diversi birrifici stanno investendo per crescere: se la matematica non è un'opinione, quindi, l'interesse per il prodotto birra artigianale rimane, ma viene venduta attraverso altri canali. La maniera con cui la si propone al pubblico è quindi da rivedere perché ha fatto il suo tempo? Anche questa è un'opinione diffusa, ma queste strade alternative non paiono ancora ben chiare: le proposte davvero "diverse" sono poche, né si è ben capito quali possano essere (se non in casi specifici e molto "mirati", di cui è classico esempio l'Arrogant Sour Festival - nella foto - o altri eventi dalla fisionomia e destinatari ben delineati). Dopo l'ennesima osservazione di questo tipo, ho quindi deciso che era giunto il momento di fare un'indagine al largo tra i birrai: tutti concordano su questo ragionamento? Il proliferare di feste e di nuovi birrifici pone come strada obbligata quella della vendita diretta a livello locale, dove è più facile ricavarsi il proprio "zoccolo duro", o all'altro estremo di varcare i confini per andare oltre un mercato italiano inflazionato? A conferma del fatto che il tema è molto sentito non solo sono stati in molti a rispondermi, ma tutti l'hanno fatto in maniera molto articolata; per cui chiedo scusa se dovrò riassumere i riscontri ricevuti.

Da un lato, il fatto che la birra artigianale sia, come molti avevano auspicato, uscita dalla nicchia di appassionati e diffusa su scala più ampia, secondo alcuni ha paradossalmente tolto parte del senso a queste manifestazioni. "Se adesso molti ristoranti e bar hanno una loro carta delle birre di tutto rispetto, perché devo pagare per entrare ad una manifestazione delle birre artigianali? - si chiede Carlo Antonio Venier, di Villa Chazil (in questa simpatica foto che ho ritrovato in archivio....fidatevi sulla parola che è lui, anche se la faccia non si vede) -. Personalmente vedo uno sviluppo futuro di un mercato molto legato al territorio con pochissime manifestazioni specifiche per chi vuole provare birre che è difficile trovare altrimenti".

Anche Alessandro Giuman (sulla sinistra), del Birrificio del Doge, traccia un quadro simile: "In quanto a feste e fiere siamo al picco storico - sostiene -, probabilmente ci sarà un taglio degli eventi nei prossimi anni. Da parte di noi birrifici ci sarà un minor interesse di partecipazione, continueranno con interesse i beer firm e i piccoli birrifici per farsi conoscere. Ma siamo sicuri ci sia guadagno? Chi ti acquista con regolarità è il locale, il pubblican, è lui che ti propone e ti da costanza. Per il 2017 la mia scelta l’ho presa: solo eventi di qualità, di importanza o che ho già frequentato e che ritengo validi. Una decina in un anno, mentre quest’anno gli inviti sono stati più di 50. E poi abbiamo come obiettivo sviluppare l'export, avendo già coperto tutto il territorio nazionale".

Più "moderati", ma sostanzialmente sula stessa linea, i ragazzi del Birrificio Conense, che parlano sia di eventi ben riusciti che di altri in cui si è battuto la fiacca: "La partecipazione ad un evento ha un rischio intrinseco che bisogna accettare - ammettono - così come bisogna saper ragionare sullo stand e su come ci si presenta per avree un buon riscontro. Non crediamo sia solo un problema di promozione, o di accostare alla birra il cibo e l'intrattenimento che pure va benissimo: se la gente manca perché non c'è più interesse per il format, è molto meglio per noi partecipare ad una sagra o ad una manifestazione locale dove c'è sicuramente gente e magari a vendere birra sei l'unico o hai poca concorrenza. Non sapremmo cosa si potrebbe "cambiare". Certamente la birra artigianale ora è più capillare e gli eventi sono di più, ne consegue che è più difficile smuovere molte persone. Per l'export, invece, troviamo sia difficile essere competitivi".

"Condividiamo appieno: l'interesse per il prodotto birra artigianale rimane, ma la maniera con cui la si propone al pubblico è da rivedere perché sembra aver fatto il suo tempo - mi scrivono da St. John's Bier - Ormai il mercato è saturo di fiere, feste ed eventi, e per noi è impossibile fare quantomeno una cernita e decidere a quali eventualmente aderire... perchè spesso questi eventi si trasformano in sagrette da "tarallucci e vino", pardon... birra! Sicuramente bisognerebbe puntare su 2 o 3 eventi l'anno ben strutturati e con proposte diverse da solito stand adibito alla vendita, altrimenti davvero ci si riduce alla vendita diretta a livello locale o alla ricerca di un mercato estero. I birrifici sono tanti, moltissime le beer firm, ma anche il pubblico è ormai vasto il problema rimane davvero come farsi conoscere e riconoscere".

Una linea simile a quella espressa da Andrea Marchi (qui sulla sinistrainsieme al socio Costantino e al publican del Mastro Birraio di Trieste, Daniele Stepancich) di Antica Contea: "Abbiamo deciso di fare alcuni eventi importanti, poi tutte cose piccole - scrive -, sia per poter far fronte alla produzione, sia perché tante fiere chiedono quote di partecipazione importanti. Quindi abbiamo deciso di fare eventi generalisti che permettono di "prendere" una clientela non esperta. L'anno prossimo con l'aumento della produzione aumenteremo anche gli eventi, ma scegliendo con attenzione e privilegiando quelli su invito".

Da Federica e Felice del Birrificio Cittavecchia, che arrivano dal settore vinicolo, giunge una visione che si allarga proprio a questo: "Quello che si sta prospettando per la birra è esattamente ciò che è accaduto col vino. La disaffezione del pubblico verso gli eventi non è mancato interesse, ma appunto frutto del proliferare degli eventi che diluisce le persone interessate in una miriade di occasioni, tanto da far perdere di valore anche quelle manifestazioni che meriterebbero più di altre. In molti eventi nati per promuovere il vino si stanno creando degli spazi dove proporre la birra artigianale: questo la dice lunga su un presunto calo di interesse o disaffezione. Ma effettivamente ci vuole novità, ogni evento dovrebbe caratterizzarsi in modo diverso dall’altro e periodicamente aggiornarsi nella proposta. Consideriamo anche il fattore copia-incolla: un’agenzia crea un evento, un birrificio inventa un modo di proporsi, e subito dopo ne nascono dei cloni. Col rischio di vanificare anche il progetto originale". La via, secondo loro, "resta quella del ritorno alle origini, ovvero concentrarsi sulla qualità e catturare il cliente per la costanza del prodotto o della proposta di valore (reale e percepito). Gli eventi si dovranno caratterizzare anche per i nomi, non solo per i numeri. E non solo quelli che conviene avere perché sono dei nomi importanti, ma anche quelli che è bello avere perché hanno una qualità sopra la media. Forse un evento ben fatto è quello che cerca tra i piccoli, a livello locale, aiutando le piccole realtà ad emergere, garantendo fiches di ingresso a misura di piccola impresa e selezionando chi aderisce". Da ultimo, le ampie prospettive: "A livello locale ognuno certo può lavorare, ma nel mondo della globalizzazione è impensabile restare ancorati al proprio orticello. Puoi essere molto presente localmente e fare il possibile affinché la fama locale abbia eco altrove, ma laddove il mercato è piccolo anche solo un concorrente in più ti farebbe le scarpe. Quindi è importante sviluppare quella capacità commerciale di tipo imprenditoriale che porta l’azienda a confrontarsi con mercati più ampi, essere presenti in posti ed eventi diversi, non necessariamente legati al tuo settore o creare occasioni per fidelizzare nuovi clienti".

Insomma, le idee consolidate paiono essere: poche manifestazioni ma di qualità, che sappiano innovarsi e rinnovarsi per quanto non sia ancora ben chiaro il come; e soprattutto che consentano di coordinarsi con altre vie di promozione, come la presenza nei locali e l'export.

Ringrazio tutti i birrai che mi hanno dato la loro opinione, comprese le impressioni datemi a voce da Erica e Riccardo del Benaco 70 - tra quelli, peraltro, che si stanno affacciando all'export e che proprio in quanto a fiere sono sbarcati nei Paesi Bassi - e da Davide Perrinella, collaboratore del Birrificio Della Granda - sostenitore del fatto che il problema non è economico, perché chi entra ad un evento è anche disposto a spendere, ma far entrare la gente all'evento: e qui ci ricolleghiamo alla questione precedente dell'interesse che va calando.

lunedì 14 novembre 2016

All'assalto delle spine di Borderline

Ok, pessima traduzione - per quanto ironica - di "Borderline tap takeover": che era il titolo della serata organizzata al Monsieur D. di Spilimbergo sabato scorso, quando sono state messe alla spina sette birre del birrificio Borderline di Buttrio. In rappresentanza del birrificio c'era Marco che, dopo l'accoglienza come sempre calorosa da parte di Paola e Cristiano, mi ha illustrato le creazioni prescelte.

Siamo partiti con la Golden Ale (sulla destra, naturalmente), brassata con il malto dell'orzo coltivato a Villa Chazil: luppolatura morbida e delicata su toni floreali, corpo apparentemente scarico ma che rivela in un secondo momento sapori di cereale e di miele millefiori, prima di chiudere con un amaro appena percettibile e poco persistente. Quai "inusuale" per un birrificio come Borderline, avvezzo a giocare ben più duro sopprattutto sul fronte dei luppoli, ma personalmente ho apprezzato la sobrietà e l'armonia di questa birra. Ben più riconoscibile come "figlia" di questo birrificio è invece la Pale Ale, dalla classica luppolatura americana intensa - in cui, tra l'agrumato, il resinoso e la frutta tropicale, ho sentito spiccare soprattutto il mango - e che al corpo scarico fa seguire un amaro citrico abbastanza deciso sul finale. Non è comunque una birra che "stroppia", per cui rimane gradevole ed accessibile anche per chi è un po' allergico alle luppolature sopra le righe - sia in aroma che in amaro.

In terza battuta è arrivata la Ginger Ale (sulla destra), una golden ale con zenzero e lime: sia l'agrume che la spezia sono delicati ma ben riconoscibili all'aroma, e si amalgamano piacevolmente con i toni fruttati del luppolo Eldorado; e dopo il corpo esile rimane la nota finale di zenzero, sempre tenue per coerenza. Una birra di cui ho apprezzato l'equilibrio tra le tre polarità dell'agrume, della spezia e del luppolo. Di tutt'altro genere la Ipa successiva, alla quale faccio tanto di cappello (letteralmente) per la schiuma persistente come poche: luppolatura di un agrumato intensissimo (simcoe, citra e equinox i luppoli utilizzati) in cui si notano bene però anche i profumi tra il tostato e la frutta secca del malto; e dopo un corpo che appare più scarico di quanto non sia data l'intensità degli aromi che l'hanno preceduto, arriva al retorogusto una sferzata di amaro di quelle per gli amanti dei toni forti. Personalmente l'ho trovata un po' squilibrata su quest'ultimo fronte, ma la pongo come un'opinione personale dato che nello stile e nell'insieme un finale del genere non può essere definito tout court fuori luogo.

Quinta birra è stata la American Session Brown Ale (sulla sinistra), anche questa in "stile Borderline" con la generosa luppolatura di centennial, simcoe e mosaic, ma con allo stesso tempo evidenti note di cereale già all'olfatto - tra la frutta secca e il pane tostato, che permangono anche nel corpo leggero ma non evanescente. Anche la chiusura è di un amaro morbido, non troppo netto, che contrasta sì ma non sovrasta i sapori che l'hanno preceduto. "Pezzo da novanta" invece la Cream Peated Stout, una stout dalle intense note torbate già all'olfatto, che nel corpo ben robusto e pastoso si sposano con l'orzo arrostito per una birra degna dei palati forti: soprattutto perché rimane molto ben peristente, e sia in bocca che al retrolfatto. Da riconoscere c'è il fatto che per quanto intensa non appare "spigolosa", ma mantiene una certa rotondità nonostante sapori così forti.

Da ultimo la Red Ale, che già avevo provato la sera prima allo Yardie in una versione diversa: questa infatti era passata da una botte di whisky del 2000. Per amor d'onestà, devo dire che avevo apprezzato di più quella della sera prima: nella seconda ho infatti percepito aromi meno intensi - anche se con il salire della temperatura qualcosa in più è arrivato, soprattutto in quanto a profumi torbati e di legno, oltre al caramello - e di conseguenza ho trovato che anche il corpo beneficiasse di meno della rosa di profumi per guadagnare in vigore. C'è da dire però che forse non l'ho degustata nella migliore delle condizioni, avendola bevuta dopo una birra dai sapori forti come la torbata ed essendo ormai la settima - c'è chi dice che dalla quinta in poi hanno tutte lo stesso sapore. E no, lo giuro, non ero ubriaca, chi c'era m'è testimone.

Chiudo rinnovando il ringraziamento a Mauro, Paola e Cristiano, sia per l'accoglienza che per la professionalità nel servizio.

sabato 12 novembre 2016

Una serata allo Yardie, parte seconda

Ieri sera si è tenuta alla Yardie di Pradamano la seconda edizione della Festa della birra artigianale e locale, a cui con piacere avevo partecipato lo scorso luglio (chi non se la ricordasse, clicchi qui); e con piacere sono tornata, mossa dalla curiosità di provare alcune novità che erano state preannunciate.

Nel corso di una piacevole chiacchierata con Antonio, mastro birraio di Villa Chazil, ho assaggiato la loro nuova blonde ale alla canapa (coltivata a Pantianicco, a conferma della volontà di usare prodotti locali in quanto agribirrificio) battezzata Code Buie - "Coda buia" in friulano, nome con cui si indica la tromba d'aria. In primo luogo c'è da dire che fare una birra alla canapa è stata in qualche misura una scelta coraggiosa, perché in Friuli quando dici canapa dici Zahre: e andare a confrontarsi con una delle "pietre miliari" in Regione, che da più di quindici anni fa questa birra con successo, chiaramente presentava una buona dose di rischio. E in questo senso ha fatto onore ad Antonio e collaboratori il fatto di non aver voluto fare un'imitazione, anzi: la Code Buie, detta senza mezzi termini, della Canapa di Zhare non è manco parente, rendendo riconoscibile il tocco di Villa Chazil. Innanzitutto stiamo parlando di una ale, mentre l'altra è una lager: partiamo quindi da due basi diverse, che rendono difficile nonché improprio fare confronti - ma a me è comunque venuto spontaneo farli, e mi perdoneranno i birrai. Se nella birra di Zahre la canapa è più delicata, tanto da apparire a livello di aroma un complemento della luppolatura, nella Code Buie è molto più intensa tanto da costituire da sé la caratterizzazione portante; e la fa da padrona anche nel corpo scarico e dolce, con note tra l'erbaceo, il miele e il sambuco (sì, a me ha ricordato quello). La chiusura è leggera e quasi evanescente, quasi assente l'amaro: e questo è stato infatti l'appunto che ho fatto ad Antonio, e su cui lui ha concordato - annunciando per le cotte future una maggior dose di luppolo in amaro. Sono anche altre le novità che si preannunciano a Villa Chazil: è infatti in arrivo la birra con il loro luppolo fresco, che attendo con ansia di assaggiare, nonché la macchina per la raccolta del luppolo.

Ho poi provato l'ultima nata di casa Galassia, la belgian stout Maan ("Luna" in fiammigo, proseguendo la tradizione di dare nomi di astri alle loro birre). La definizione "belgian stout" viene dall'utilizzo di lievito belga; ma, al di là di questo, la si direbbe la classica "imperial stout bella tosta", con intensissimi aromi liquorosi di liquirizia e caffè; che proseguono nel corpo ben robusto, in cui spiccano anche le fave di cacao prima di una chiusura inusualmente amara secca per lo stile. E qui Davide mi ha spiegato dove sta il trucco, che è appunto l'utilizzo del lievito belga: che a suo dire attenua il 20% in più di quelli usati generalmente per le stout, consentendo di andarci con mano più pesante sul corpo per avere una birra ancor più ricca in quanto ad aromi e sapori senza ottenere quello che lui ha definito "un budino". Per gli amanti del genere la annovererei tra le birre da provare almeno una volta, pur con parsimonia dati i quasi 10 gradi alcolici.

Da ultimo ho assaggiato la Red Ale di Borderline, nella versione barricata in botti di whisky dell'87. Trattasi di una ale di 5,6 gradi, rimasta in botte poco meno di tre mesi; ma risaltano comunque bene al naso i profumi di legno e di whisky, con una lieve nota torbata e di uvetta, in un insieme morbido e armonico. Il corpo, pur essendo relativamente scarico (personalmente, dopo un aroma di quel genere, me lo sarei aspettato più robusto) data anche la bassa gradazione, appare comunque più alcolico di quanto non sia date le note liquorose e di frutta sotto spirito; e va poi a chiudere in maniera tenue, senza le note alcoliche finali che caratterizzano altre barricate di questa impronta. Per chi ama tutti gli stili che bene o male abbiano a che fare col whisky e con le botti - dai barley wine in giù -, ma vorrebbe tanto poterne bere in quantità più generosa senza trovarsi la gola riarsa (e la patente ritirata all'uscita dal locale).

Una menzione, infine, anche per gli altri birrifici presenti - Antica Contea, Pighi Craft Beer, Campestre, The Lure, Zanna Beer, Foglie d'Erba e Garlatti Costa, in ordine rigorosamente casuale); e per il locale, che anche questa volta ha saputo organizzare una piacevole serata.

domenica 6 novembre 2016

Mastro Birraio a Pordenone, secondo weekend: le altre novità

Il mio secondo fine settimana in Fiera è iniziato con una visita dai ragazzi di Chianti Brew Fighters, birrificio - come dice il nome stesso - della zona del Chianti, aperto da quattro mesi. Quattro come le birre che hanno portato - insieme ad una ventata di simpatia, bisogna riconoscerlo - e che, nella loro volontà di "mettere la toscanità" anche nelle loro birre, hanno stampato una citazione dalla Divina Commedia su tutte le etichette: basti dire che la loro stout, e quindi "oscura", è stata battezzata Selva. Ho iniziato dalla Serpe, una California Common, stile non molto battuto dai microbirrifici - che ha la particolarità di utilizzare un lievito da bassa fermentazione a temperature elevate: profumo di mou in cui è ben percepibile anche il lievito - forse un po' troppo per i miei gusti in realtà, ma non a livelli esagerati - , corpo pieno sempre su questi toni, seguito da un finale più secco di quanto ci si sarebbe potuti aspettare. E infatti la buona attenuazione per amor di bevibilità - oltre che la carbonatazione sobria - è uno dei capisaldi dei Chianti Brew Fighters: anche nel caso della Bestemmia, una belgian strong ale da otto gradi a cui se ne darebbero sì e no la metà, con profumi tra la crosta di pane, il fruttato e lo speziato da lievito come d'ordinanza, per un corpo in cui i toni dolci di caramello e frutta secca rimangono comunque moderati prima di un finale secco e pulito per lo stile. A colpirmi è stata però più di tutto la Selva, una stout che - mi avevano avvisato - "non è per niente dolce, abbiamo voluto farla così": nonostante il corpo non eccessivamente robusto, in un secondo momento arrivano in bocca intensissime note tostate tra il caffè, la liquirizia e i semi di cacao "puri", che già all'aroma si erano fatti sentire, ma solo verso la chiusura - e nella buona persistenza, nonché al retrolfatto - esprimono tutta la loro forza pur mantenendo l'equilibrio. Amanti del caffè rigorosamente senza zucchero e del cioccolato rigorosamente fondente nero, fatevi avanti. Scherzi a parte, i ragazzi del Chianti mi hanno dato l'impressione di essere sì ai primi passi ma di aver posto buone basi per una futura crescita, anche perché - eccezione forse per la California Common - hanno saputo lavorare su stili sì classici e consolidati, ma dando la loro interpretazione senza pasticciarla: dote non sempre scontata in chi ha appunto iniziato da poco. Nei loro progetti per il futuro, venendo da una terra di vino "a cui però vogliamo proporre anche la birra", manco a dirlo c'è una Grape Ale: che a questo punto attendo con fiducia.

Sono poi passata da Della Granda, per il quale non basterebbero tre post dato che il parco birre che mi ha tirato fuori il buon Luca era di quelli da far impallidire. Mi limito quindi a citarne un paio, nella fattispecie la Lips - una gose semplice e delicata (stile originario di Lipsia, da cui il nome), accessibile anche a chi si accosta a questo genere per la prima volta, e che si è aggiudicata il titolo di miglior gose italiana ai World Beer Awards - e la Alchemy, una Grape Ale con Moscato: man mano che si scalda emergono sempre più evidenti e intensi i profumi caldi e dolci del vino, ma al palato i sapori dati dal mosto fanno più da sfondo e accompagnamento al vigoroso corpo maltato che da protagonisti: insomma, rimane una birra, in un equilibrio tra le due componenti - malto e mosto - che personalmente ho apprezzato; così come è apprezzabile l'attenuazione relativamente buona per una birra di questo genere, tanto che i nove gradi non si sentono affatto. Luca ha anche preannunciato un'altra novità barricata, per cui non resta che attendere con ansia.

Sosta successiva è stata al Santjago dove ho provato la nuova Doré Royal, una red ale aromatizzata al coriandolo: personalmente ho trovato che, sia all'aroma che poi in particolare nel retrogusto e retrolfatto, la spezia fosse un po' troppo intensa tanto da arrivare a cozzare - mentre al palato, nella parte centrale della bevuta, tende più ad amalgamarsi con la dolcezza caramellata del malto; opinione che, naturalmente, potrebbe non essere condivisa dagli amanti del coriandolo. Da Barbanera ho invece trovato la Ora d'Ora, una apa dagli aromi delicati tra il fruttato e l'agrumato come da manuale, e dal corpo più scarico e finale più evanescente rispetto ad altre dello stile: caratteristica che mi è stata presentata come voluta, nell'intento di garantire maggior bevibilità - anche se personalmente avrei gradito magari un po' più di vigore, giocando su altri fattori per "pulire" la chiusura. Comunque fresca e dissetante, su questo non c'è dubbio.



Da ultimo - ma non per importanza - Rattabrew, dove mi sono lanciata in una curiosa degustazione all'incontrario: perché - complici le chiacchiere con Chiara, che ringrazio - tutto è iniziato volendo assaggiare la birra natalizia e quindi la più forte, ma poi le novità erano anche altre e quindi "come non approfittarne". La DeNadae, infatti, è ciò che in maniera un po' triviale si potrebbe definire "tanta roba": una base di dark ale con miele di acacia e millefiori, maturata in botti di whisky del 73. E all'aroma infatti escono in tutta la loro forza le note liquorose e di legno, con una lieve ossidazione di fondo; mentre in bocca arrivano i toni dolci di whisky e quasi di vaniglia, complice il miele, prima di un finale liquoroso e ben persistente. Per palati forti, ma che può dare grandi soddisfazioni agli amanti del genere. A seguire c'è stata la Imperatrice, una una Imperial Ipa equilibrata e secca, che sotto i profumi agrumati e resinosi cela un corpo beverino che maschera bene i suoi 8 gradi; e infine - eresia! - la nuova versione della Jesse White, una Belgian Wheat con pepe rosa macinato, in cui la spezia non risulta invasiva grazie all'armonizzazione con la scorza d'arancia e il coriandolo.

E qui mi fermo, almeno per ora: da Pordenone mi è infatti rimasta "in eredità" qualche bottiglia da provare...per cui rimanete sintonizzati!

sabato 5 novembre 2016

Mastro Birraio a Pordenone, secondo weekend: le prime novità

Data la grande mole di novità presenti - almeno per me - in questo secondo weekend di Mastro Birraio a Pordenone, già da ora inizio a fare il mio resoconto. La serata di ieri è infatti iniziata con una nuova conoscenza, la Brasseria della Fonte di Pienza, che ha aperto lo scorso giugno con birrificio, negozio e tap room. Samuele mi ha guidata in una panoramica sulle sue birre: alle fisse di linea più classica - una apa, una ale rossa, una porter e una scotch ale - si aggiungono altrettante stagionali. Quella disponibile ora è la Freshoops, una ipa brassata con i luppoli provenienti dal luppoleto della casa - 430 piante - e messi già nel mash, come mi ha spiegato Samuele, perché rilascino le loro resine a temperatura più bassa rispetto alla bollitura. Il risultato è una birra leggera, delicata e fresca, in cui la luppolatura "importante" ma morbida dai toni tra il resinoso e il fruttato viene supportata, man mano che la temperatura sale, dal cereale biscottato (nella ricetta c'è anche malto Vienna) nel corpo. Il finale è di un amaro secco e non invasivo, ma ben persistente, che lascia la bocca ben pulita. Un birrificio giovane, insomma, ma di buone promesse.

Altra nuova conoscenza è stato il birrificio Campi Flegrei, della zona di Napoli, aperto nel 2015. Un birrificio che tiene al legame col territorio sia perché usa malti italiani (provenienti da una coltivazione in provincia di Piacenza), sia perché nelle birre mette prodotti locali: come il miele di agrumi di un apicultore della zona nella ale rossa Rame 15, e i limoni del giardino del birraio nella apa Oro 15. Ho assaggiato appunto quest'ultima: a cui va riconosciuto il merito di amalgamare con eleganza l'agrumato dei luppoli a quello del limone, così che il secondo non sovrasta ma accompagna il primo.

Tra le nuove aperture di quest'anno c'è poi il Forgotten Beer di Salgareda, beerfirm che si appoggia a Sognandobirra: e che proprio con Sognandobirra ha elaborato alcune ricette in collaborazione. Raffaele me ne ha però presentata una di "totalmente" sua, la apa Coboldo: alla luppolatura all'americana d'ordinanza, delicata come si conviene ad una apa, fa da contrappunto una dolcezza abbastanza spiccata, quasi mielosa, nel corpo: forse un po' eccessiva, a mio modo di vedere, per quanto non sgradevole né stucchevole - rimane infatti una birra fresca e facile a bersi.

Da tempo aspettavo poi di assaggiare la nuova nata di casa Jeb, la apa Never Say Never: perché Chiara aveva detto che una apa non l'avrebbe mai fatta, ma mai dire mai. Si tratta di una apa in stile, "da manuale", semplice e pulita: però devo dire, come in effetti ho confidato anche a Chiara, che qui non riconosco - probabilmente perché si tratta di uno stile non del tutto nelle sue corde, e quindi ha preferito evitare di lanciarsi in magari improbabili personalizzazioni - la sua mano. Il che non va a sminuire la qualità della birra, anzi: meglio una birra fatta bene senza volerci mettere del proprio, che una personalizzata ma pasticciata perché ci si è mossi su un terreno con cui non si ha la giusta sintonia e confidenza. Una semplice constatazione dunque, che pongo come tale.

Ho poi ritrovato gli amici di Baracca Beer, che portavano due novità: la Pumpkin Ale con zucca violino, cannella, chiodi di garofano e noce moscata e la Glerale, una Iga con uva Glera. Nella prima la dolcezza della zucca risulta equilibrata anche perché bilanciata dalla speziatura importante, a cui si aggiungono i sentori pepati del lievito: amanti della cannella e della noce moscata fatevi avanti, perché qui c'è materiale per voi. Della Glerale è interessante sopratttto osservare l'evoluzione con la temperatura: se all'inizio è emerso soprattutto il profumo del lievito belga, man mano arrivano anche il fruttato dell'uva e le note di miele, sia all'olfatto che all'interno di un corpo ben robusto. Da segnalare anche i cioccolatini alla strong ale Extasy, opera della Bottega del Dolce - che già si è cimentata con successo in ricette analoghe con la Winternest di Luckybrews.

Si sapeva poi che in quanto ad ipa la fantasia si sbizzarrisce, ma la "High Temperature Ipa" mi mancava: lacuna che ho colmato con la TropikAle di Legnone, fatta fermentare a temperatura particolarmente elevata e infustata in isobarica, che si distingue - come il nome stesso fa intuire - per i profumi di frutta tropicale particolarmente intensi sottolineati (così mi ha spiegato Giulio) da questo particolare metodo di lavorazione - e complice anche il luppolo Mosaic in dry hopping. Pericolosamente beverina, dato che il corpo - pur carico il giusto, per sostenere una luppolatura così importante - tende ad apparire più esile di quello che è, e il finale agrumato pulisce bene la bocca.

Ho ritrovato infine gli amici di Calibro22, che mi hanno presentato la loro nuova West Coast Ipa One Shot e la Scottish Ale. La prima è una ipa in stile, senza particolari fronzoli, e dal corpo parecchio scarico nonostante i 6,5 gradi alcolici; la seconda è assai peculiare all'interno del genere posto che, come il biraio stesso ha riconosciuto in risposta alle mie osservazioni, ai classici toni caramellati e di whisky dello stile si accompagna un corpo scarico e un finale ben secco e attenuato: che sicuramente incoraggia a berla, ma risulta forse eccessivo per una Scottish Ale.

Ultima nota per un birrificio che certo non ha bisogno di presentazioni, il Birrificio Italiano: ho infatti particolarmente apprezzato la loro weizen scura VuDù, che ai caratteristici aromi di banana amalgama in maniera soprendentemente armoniosa quelli tostati e di toffee.

Stasera si ricomincia, rimanete sintonizzati...