giovedì 30 settembre 2021

Sei birre per due sorelle

Avevo già presentato, per il Giornale della Birra, il birrificio agricolo cuneese Due Sorelle (qui e qui potete leggere gli articoli): una realtà nata nel 2014 da un cascinale acquistato tre anni prima, e in cui le due giovani sorelle Federica ed Elisa Toso hanno preso in mano l'attività insieme al resto della famiglia - già attiva nel settore agricolo e delle bevande. All'epoca - parliamo di alcuni mesi fa - avevo assaggiato le loro birre; e recentemente ho avuto modo di farlo di nuovo, facendomene un'idea più precisa.

Per ragioni di stile ho iniziato dalla Naif, l'unica lager del repertorio, definita come Zwickelbier. Non aspettatevi, però, qualcosa di assimilabile a ciò che assaggereste in Germania sotto questo nome: la rifermentazione in bottiglia (che mi è stato riferito venire effettuata) fa sì che il lievito dia un ulteriore contributo agli aromi tra lo speziato e l'agrumato del luppolo, strizzando quasi l'occhio a certe Session Ale invece che allo stile di riferimento. Rimane comunque fedele alla sua volontà di essere una birra fresca e dissetante, dal corpo snello e ben carbonato, con una nota di pane spalmato di miele e una chiusura che taglia le persistenze dolci grazie ad un'amaricatura sobria. Puristi astenersi, da provare se invece vi intriga l'idea di una lager chiara che si ibrida con altre tradizioni brassicole.

Sono poi passata alla Wahida, una Blanche; ed è proprio la tradizione belga quella a cui si ispira principalmente il birrificio - e che arriva ad influenzare anche le produzioni che fanno riferimento ad altri stili, in particolare per quanto riguarda la tendenza a sfruttare gli esteri del lievito a fini di aromatizzazione. Si tratta di una birra fondamentalmente in stile, dai canonici profumi speziati, agrumati e di coriandolo, e l'acidulo da frumento al palato; ho tuttavia notato un leggero ritorno alcolico caldo a fine bevuta, unica "sbavatura" rispetto ai parametri di riferimento.

Decisamente sui generis la Special, sulla carta una Saison, che alla classica rosa di aromi speziati dati dal lievito - ho colto in particolare il pepe - unisce toni decisamente caldi sul fronte del malto, dal miele di castagno al caramello; che arrivano quasi a coprire i luppoli tedeschi usati in aroma. Finale anche qui caldo, con una nota speziata.

Sempre a questa famiglia stilistica fa capo anche la prima birra brassata dal birrificio, la Sister Ale, definita come una Farmhouse Ale. Al di là delle dispute sulla classificazione dello stile - chi lo vorrebbe come una definizione che tenga sotto di sé Saison, Blanche e Bière de Garde; chi lo vorrebbe come uno stile a sé, più fedele a quelle che dovevano essere le versioni più "selvagge" delle birre brassate nelle fattorie belghe - c'è da dire che anche qui le due sorelle e il birraio hanno voluto una volta di più non focalizzarsi sul nome dello stile ma sul risultato finale che volevano ottenere (una birra fresca e di facile bevuta): e infatti al naso risaltano anche qui per prima cosa i profumi tra lo speziato e il fruttato del lievito belga, con un lieve accenno acidulo solo sullo sfondo - e che comunque amalgama l'agrumato da luppolo con accenno sour vero e proprio; che ritorna poi, altrettanto leggero, a chiudere un corpo incentrato sui sapori di costa di pane. Niente aromi e sapori brettati né "funky", dunque: personalmente la farei rientrare tra le Grisette, che alcuni classificano infatti tra le Farmhouse Ales.

E appunto la Bière de Garde a questo punto non poteva mancare, la Amber Ale (battezzata così, mi è stato riferito, semplicemente perché messa in contrapposizione all'unica altra birra allora prodotta, la Sister Ale, che invece è chiara). Qui ci riavviciniamo allo stile, con un ricco aroma maltato, tra il tostato e il caramello - finanche un tocco di whiskey - incorniciato dagli esteri del lievito. Anche in bocca torna una certa nota liquorosa, con un accenno di legno e frutta sotto spirito; fino ad un finale che rimane dolce e moderatamente persistente.

Chiude il quadro scostandosi dal Belgio la Hella Hop, una Ipa: anche qui un connubio sui generis tra la luppolatura americana - dalla frutta tropicale, agli agrumi, alla frutta a pasta gialla - e gli esteri del lievito, confermando la tendenza ad ibridare i vari stili con l'anima belga.

Nel complesso, birre piacevoli a bersi e senza difetti palesi - se non appunto la sbavatura che personalmente ho rilevato nella Blanche; e in cui è ben riconoscibile il marchio di fabbrica della passione per le "lievitazioni alla belga", se così le vogliamo scherzosamente chiamare. Il che, se ad alcuni potrebbe far apparire queste birre un po' monocordi, agli amanti del genere potrebbe risultare un interessante filo conduttore anche verso gli stili che belgi non sono.

lunedì 20 settembre 2021

Un ritorno alla "piccola" Santa Lucia

No, il titolo non è un intento di sminuire la manifestazione; ma un semplice riferimento al titolo dato dagli stessi organizzatori della - almeno per me storica, nel senso che è stata quella in cui ho mosso i primi passi dal punto di vista professionale - fiera, che si è tenuta lo scorso fine settimana. Format sostanzialmente identico al pre Covid - birrifici, gastronomie e musica - ma concentrato su quattro giorni, dal giovedì alla domenica, invece che su tre weekend. Conoscevo già la maggior parte dei birrifici in lizza - diciotto marchi, contando sia i birrifici presenti in prima persona che quelli presenti tramite distributori che ne portavano più d'uno -; ma la mia attenzione si è naturalmente concentrata su quelli che mi erano nuovi.

Novità a mio avviso di rilievo è il Birrificio 17 di Castello di Godego (Treviso), aperto nel 2019 da quattro amici usciti dal diciassettesimo - di qui il nome - corso Dieffe per birrai artigiani. Una volta di più, dunque, l'accademia padovana si conferma fucina di professionisti. Ben corposa la lista delle birre, servite per la maggior parte nel brewpub annesso - spillate direttamente dai tank, e usate anche nelle ricette della casa - e che lasciano intendere un'impostazione "tedesca" nella filosofia di lavoro: non perché ci siano in lista solo stili tedeschi (per quanto ce ne sia una buona rappresentanza), ma perché l'approccio è sempre quello di fare birre pulite, facilmente bevibili e mai sopra le righe. Come da mia consuetudine ho iniziato dalla Helles, il metro di misura per chi intende lavorare così, la "Postumia". Per chi ha familiarità con il BJCP, si vada a vedere la descrizione della Munich Helles e troverà rispondenza pressoché perfetta con questa birra: un esempio da manuale dello stile, insomma, e francamente c'è poco altro da dire. Mi sono poi spostata su un altro stile indicativo sotto questo profilo, la Vienna "Vale" (battezzata in onore della figlia di uno dei quattro soci): anche qui una sostanziale rispondenza ai dettami dello stile, unendo in un delicato bilanciamento gli aromi e sapori biscottato-tostati (mai dolci, in realtà), il corpo snello in cui la complessità della componente maltata non "riempie" il palato pregiudicando la beva, e il finale di un amaro pulito e secco ma non persistente. Ultima la Rauch "S-Monkey": se vi aspettata una Schlenkerla rimarrete interdetti, perché qui siamo su un registro abbastanza diverso - affumicato delicato all'aroma, per lasciare più spazio poi a sapori analoghi in bocca; senza comunque alcuna invadenza, né persistenza troppo lunga. Rispetto ad altre affumicate più possenti ne guadagna però significativamente in armonia complessiva e bevibilità, soprattutto nell'ottica di una certa versatilità negli abbinamenti gastronomici.

 

Ho conosciuto poi Podere 676, birrificio agricolo di Fiumicino (Roma) che porta avanti un progetto di coltivazione in loco sia dei cereali che del luppolo - un altro tassello, dunque, ad una strada intrapresa da sempre più aziende. Ho assaggiato la loro Pils: non ho rilevato difetti macroscopici,ma l'ho trovata più simile ad una Helles, con una delicata luppolatura floreale e un'amaricatura finale capace sì di tagliare le persistenze dolci, ma non di risaltare. A perseguire una filosofia di produzione locale (o quantomeno italiana, a seconda delle materie prime necessarie per ciascuno stile) è anche l'altra nuova realtà che ho conosciuto, l'agribirrificio Fria di Loreggia (Padova), socio Cobi. Tra le sei birre in produzione mi è stata consigliata quella più "sui generis", LaTino, una Belgian Strong Ale al miele di castagno brassata interamente con materie prime provenenti da una distanza massima di 5km dalla sede. La definirei in toto come Honey Ale, in quanto il miele la fa da padrone sia all'olfatto che al palato, arrivando ad imporsi sulla caratterizzazione belga di base - pressoché non coglibili lo speziato da lievito e la tipica pienezza maltata del corpo, almeno finché la birra non si scalda anche al di sopra della temperatura di servizio consigliata di 7-9 gradi; e risulta, come da intenzioni, scorrevole nonostante i 9 gradi alcolici grazie alla secchezza e al tocco amarognolo in chiusura dato dal miele - giustamente assenti le note alcoliche.


Tra le birre nuove, ma di birrifici che già conoscevo, segnalo invece la Finnegan di La Ru: una Irish Red Ale leggermente torbata, dall'aroma maltato in cui si coglie una delicata nota erbacea e speziata (e sotto il profilo della luppolatura il birraio è rimasto quanto più sul classico possibile, con Fuggle e East Kent Golding); in bocca il caramello del Crystal avvolge il palato, senza tuttavia pregiudicare la scorrevolezza, chiusura in cui il taglio amaro arriva come da manuale a chiudere la bevuta. Peccato non avere avuto la possibilità di una spillatura a pompa perché una diversa gestione della carbonatazione avrebbe reso maggior giustizia a questa birra, ma rimane comunque un esemplare interessante dello stile.

mercoledì 15 settembre 2021

Birra artigianale e crafty, o delle colpe della mancata comunicazione

Attraverso questo post di Giovanni Puglisi mi è giunta eco della disputa relativa a quella che lui chiama "faccenda Martucci-Birra del Borgo" (in altri termini, la presenza e promozione di una birra un tempo artigianale ed ora di AB-InBev) in una pizzeria d'alto livello).

Riassumendo, Puglisi identifica "colpe" su diversi fronti; e mi soffermo sui due che mi riguardano più da vicino, ossia il settore birrario artigianale nel suo insieme - incapace di proporsi e promuoversi in maniera unitaria ed efficace - e i giornalisti, che anziché fare il proprio mestiere si limitano a trascrivere comunicati stampa di cui mediamente non capiscono nulla - e prendendo di conseguenza enormi cantonate.


Inizio dai giornalisti, dato che appunto giornalista sono. Sì, è vero che i giornalisti spesso fanno copia incolla. E sì, è vero che lo fanno perché nella maggior parte dei casi sono dei freelance pagati pochi euro a pezzo, che per mettere il pane in tavola devono scrivere settordici pezzi al giorno, e di conseguenza sono impossibilitati a fare molto di più di Ctrl+C Ctrl+V. Però è anche vero che questa storia ha francamente stufato, e continuare a ripeterla a mo' di giustificazione non darà alcun contributo a rompere questo circolo vizioso. Non lo darà finché il mercato giornalistico sarà drogato da gente disposta a scrivere gratis (anche non giornalisti) per amor di visibilità, finché pubblico e forza lavoro non si dirigeranno verso quei giornali (e sembra incredibile, ma ci sono) che pagano il giusto e danno il giusto tempo per approfondire le cose, finché si pretenderà di leggere articoli gratis solo perché "è su internet", finché i giornalisti stessi si illuderanno di poter fare i tuttologi solo in virtù di una rapida ricerca su Google (male assai diffuso nella nostra società, quest'ultimo).

Però va anche detto la colpa non va riversata tutta sull'ultimo anello della catena alimentare, ossia il giornalista che scrive l'articolo finale. Mi è capitato più volte di confrontarmi con birrifici che avevano di che lamentarsi perché su un qualche giornale era uscito un articolo che non rendeva loro giustizia, accusando il giornalista di aver fatto male il suo lavoro. Va però detto che spesso alla base non c'era un comunicato stampa propriamente detto, ma al massimo un post su un social, o una mail inviata ai giornali locali e scritta in un linguaggio magari adatto a rapportarsi con clienti e fornitori, ma non con i media. Detta in altri termini: così come se voglio bere birra buona la compro, perché so che farmela da sola col kit per risparmiare si tradurrebbe in birra pessima, allo stesso modo funziona per l'informazione e la comunicazione. Un servizio professionale va fatto da un professionista, e pagato di conseguenza. Fortunatamente, sempre più birrifici artigianali se ne stanno rendendo conto e si rivolgono a persone con le necessarie competenze, ma c'è ancora molta strada da fare nel capire che se voglio avere speranza che ciò che scrivo sia efficace deve essere scritto in maniera tale da poter andare su un giornale così come sta (e non è questione di tirare l'acqua al mio mulino, ma di far notare una cosa che i birrifici industriali hanno capito benissimo da tempo). E qui sì che il copia incolla fa il suo lavoro in favore della birra artigianale.

E poi, però, c'è il fronte della formazione dei giornalisti. Nessuno può fare il tuttologo, certo; e qui si pongono serie questioni nell'organizzazione interna delle redazioni, e nell'assegnazione degli articoli ai vari collaboratori. Però è anche vero che il comparto birrario pecca su questo fronte molto di più rispetto al resto del settore enogastronomico, e che sia l'Ordine dei Giornalisti che i vari portatori di interesse del in ambito brassicolo non brillano per impegno in questo senso. Io stessa, insieme ad un collega, avevo proposto all'Odg un corso di formazione (e ricordo che i giornalisti hanno la formazione obbligatoria per un certo numero di crediti annui) in tema giornalismo birrario, presentando anche un progetto didattico: la risposta che abbiamo ricevuto è stata il più classico dei "vi faremo sapere", seguito da un silenzio tombale. Il che naturalmente non preclude la possibilità di proporre lo stesso corso tramite altri canali, ma è significativo dello scarso interesse. Il giorno in cui giornalisti, birrai, editori e ristoratori si renderanno conto che la birra ha la stessa dignità di qualunque altro settore dell'enogastronomia di avere una formazione a sé, la smetteremo di vedere pregiatissimi e competentissimi giornalisti enogastronomici scrivere pezzi di dubbio valore quando si inoltrano in terra brassicola.


lunedì 13 settembre 2021

Un giro ad Acido Acida

Con un certo ritardo dovuto ad alcune incombenze familiari (e chi ha figli mi capirà), arrivo a fare un resoconto del festival Acido Acida, a cui ho partecipato a Ferrara lo scorso fine settimana.

Rispondo ad un primo interrogativo, che sicuramente sorgerà in chi leggerà questo post: no, non è che Acido Acida non sia più un "British Beer Festival". Lo è, la maggior parte delle birre presenti erano britanniche. Quella di dirigermi su quelle italiane è stata semplicemente una scelta mia, nella misura in cui avevo uno specifico interesse a degustare quelle. Va peraltro ammesso che le difficoltà di produzione in patria (qualcuno ricorderà che nelle edizioni passate avevo dato voce ai birrai inglesi che lamentavano difficoltà nel reperimento delle materie prime in seguito alla Brexit, figuriamoci in una pandemia), di esportazione (visto che i puri e semplici problemi doganali hanno limitato la quantità di birre effettivamente disponibili), e di spostamento di persone hanno pesato appunto sulla componente inglese del festival; ma hanno anche dato un'accelerazione a ciò che Acido Acida per la sua componente italiana già stava diventando, ossia un piccolo laboratorio di sperimentazioni di indubbio interesse realizzate da alcuni nostri microbirrifici. L'auspicio quindi non può che essere quello che la pandemia lasci in eredità questo significativo progresso, potendo poi al tempo stesso superare le difficoltà di approvvigionamento sul fronte del Regno Unito; dando quindi una risposta anche a quella sorta di "crisi di identità" che i problemi da oltremanica hanno posto al festival, e ai quali gli organizzatori hanno comunque reagito in maniera propositiva.

Alla fine di questa lunga digressione, veniamo alle birre. In realtà ho iniziato da un birrificio francese, il Gallia, così da riuscire a "raccogliere le briciole" (o meglio, le gocce) di quello che era stato il tap takeover della sera prima. Si tratta di un birrificio parigino che afferma di produrre delle "vières", da vin+bière: ossia delle creazioni che uniscano vino e birra. Chi credesse però di trovarsi davanti a qualcosa di quantomeno simile alle Iga "di casa nostra", prenderebbe una cantonata: il risultato finale è infatti qualcosa di profondamente diverso, sia per le uve utilizzate (francesi, ovviamente) che per la filosofia produttiva di cui sopra che sta alla base. Ho iniziato con la "Sylvaner Stallone", brassata con aggiunta di 4 quintali d’uva Sylvaner d'Alsace, lasciata macerare per 28 giorni: e il fatto di aver aggiunto direttamente l'uva (e non il mosto) ha senz'altro un effetto peculiare, dato che sia al naso che in bocca - almeno al primo sorso, a birra più fredda - è questa a risaltare su tutto. Man mano che si scalda i toni fruttati si armonizzano meglio con il cereale e diventano più morbidi; però appunto, non arriva mai a diventare una "bière" (come è il caso delle Iga), rimanendo una "vière". Discorso simile, ma su toni molto più forti e finanche sgraziati nella loro forza, per la "Extrawurst" - con aggiunta di mosto d’uva Gewurztraminer dell’Alsazia, lasciato macerare per 30 giorni: qui è il mosto il protagonista, lungo tutta la bevuta, fino ad un finale di una certa astringenza. Insomma: due "vières" che ammetto essere lontane dai miei gusti personali, ma che di fatto hanno rispettato quella che è la loro identità dichiarata e testimoniato la personalità del birraio.

Venendo alla parte italiana, ho avuto il piacere di fare conoscenza con Antonio De Feo e Liberato Manna di Cask-Irpinia Barrel: una realtà nata da poco - sostanzialmente durante il lockdown del 2020 - ma che già ha avuto modo di farsi apprezzare tra gli estimatori. Trattasi nello specifico non di un birrificio, dato che i due non possiedono un impianto, ma di una cantina di affinamento: e peraltro parecchio originale, dato che si tratta di un locale scavato nella roccia ai primi del '900 ben 5 metri sotto terra e 22 dentro la montagna, con umidità costantemente oltre il 90% e temperatura tra i 12 e i 15 gradi. Ancor più che affinare la birra, insomma, la sfida è riuscire a portare dentro le botti. Qui invecchiano le birre prodotte, appunto, in collaborazione con altri birrifici - perlopiù locali, per ovvie ragioni, ma non solo; affrontando tra l'altro il farraginoso sistema fiscal-burocratico italiano che rende sostanzialmente impossibile trasportare mosto o birra che non siano già confezionati. Le botti utilizzate sono per la pressoché totalità di rovere, non rigenerate, che abbiano già fatto due cicli di quattro anni per la maturazione del vino Aglianico.

Ho iniziato la degustazione dalla Hoppy Sour Ale, realizzata in collaborazione con Birra Carrù, affinata per 8 mesi con aggiunta di bucce di limone di Tramonti. Già l'aroma fa cogliere la complessità del progetto di base; e riesce nell'intento di armonizzare i 5 luppoli utilizzati, l'agrume, la componente di acidità data dai lactobacilli e il brett. Al palato risalta invece di più il limone, che fa guadagnare in bevibilità, prima di una chiusura nuovamente sui toni lattici e brettati non particolarmente persistente. Delicata nel complesso, abbordabile anche a chi è ai primi approcci con le sour; così come la seconda che ho assaggiato, una sour ale con ibisco su base weiss con lactobacilli e un mese di botte, in cui il fiore ingentilisce notevolmente l'acidità creando un gioco morbido ed equilibrato tra queste due componenti.

A salire ho trovato una "Unconventional Gose", su base a bassa fermentazione con coriandolo pugliese e sale rosa. Può essere considerata la classica birra che si ama o si odia, nella misura in cui i puristi dello stile faticherebbero ad accettare gli aromi - appunto - di coriandolo, e i toni mielati quasi da Helles dati dal cereale (tenuto conto anche della bassa fermentazione); mentre può risultare molto gradevole a chi apprezza il suo strizzare l'occhio alle Blanche in quanto a speziatura, mantenendo l'acidità lattica a livelli contenuti e una notevole freschezza. Più "per intenditori" invece la Belgian Brett, Belgian Strong Ale brettata con un anno di barrique alle spalle - in cui c'era prima stato vino passato in anfora. Qui la brettatura è predominante al naso, pur non soverchiando del tutto il caramello e il biscotto speculoos (non si può dire di essere stati in Belgio senza averne provato uno...) che invece la fanno da padrone in bocca, prima di un nuovo ritorno del Brett dalla lunga persistenza. Per amanti del genere, in quanto mantiene sì un'armonia complessiva ma giocandola su toni medio-alti.

Sempre tra gli italiani ho ritrovato Monpier de Gherdeina, di cui ho provato una Berliner Weisse con more e lamponi - con la frutta ben amalgamata alla componente acida così da ingentilirla, pur senza alcuna concessione al dolce - e una Wild Gose maturata 8 mesi in botte di ex spumante dopo la fermentazione con lievito madre in vasca aperta e con aggiunta di sale. Acidità notevole al naso, su toni "selvaggi", che si smorza però in bocca dove vira verso quella più gentile che ricorda il vino; prima di lasciare, alla fine, una traccia del sale aggiunto. Per amanti del genere, in quanto non mira, come la precedente, ad un'armonia complessiva, ma piuttosto ad un gioco di note forti che trovino un loro "incastro" lungo la bevuta.
 
Dopo tanto tempo ho ritrovato anche i Blond Brothers, che hanno avuto nel frattempo modo di farsi conoscere per le loro produzioni sour. Nella fattispecie ho provato la Sglera, Iga brettata fermentata 6 mesi in barrique di ex Amarone e maturata altri 6 mesi in acciaio con aggiunta di uva Glera e Gocce d'Oro. Ben coglibile la nota dolce della frutta, che ora fa da contrappunto e ora si armonizza (a seconda della temperatura) ai toni aciduli del vino e a quelli "selvatici" del Brett, lungo tutta la bevuta.

Da segnalare anche l'incursione in terra canadese in compagnia di Simone Nicoletto con le birre di Collective Arts Brewing, in particolare la Jam up the mash - una DDH sour con Victoria Secret, Mosaic e Citra. All'aroma non la si direbbe nemmeno una sour, tanto i luppoli sono esuberanti (tra la frutta tropicale, l'agrumato e il resinoso); ma l'acidità si rivela poi in maniera sorprendentemente dissetante in bocca, prima di amalgamarsi con l'amaricatura citrica e resinosa in chiusura.

E qui chiudo anche io con un grazie a tutti i birrai o loro collaboratori che mi hanno presentato le birre, nonché all'organizzatore Davide Franchini; a cui non posso che fare anche un in bocca al lupo per l'edizione 2022, già programmata dall'1 al 4 settembre.

venerdì 3 settembre 2021

La novità del Cibus

Come anticipato, ho fatto visita alla sezione dedicata ai birrifici indipendenti artigianali all'interno di Cibus, alla fiera di Parma. Ammetto che non ero partita con aspettative altissime: diversi birrai, infatti, mi avevano parlato delle loro perplessità che li avevano portati a scegliere di non partecipare - periodo dell'anno che per molti è ancora piena "stagione", dubbi sull'effettiva affluenza in fiera causa Covid, cautela verso la novità (ricordiamo che fino al 2020 il punto di riferimento era invece il Beer Attraction a Rimini: più che scetticismo, ho visto un "vediamo come va quest'anno e poi decido"), volontà di concentrarsi sulla ripartenza a livello produttivo (che per molti fortunatamente c'è stata, ed è percepita chiaramente come più urgente rispetto alle manifestazioni fieristiche). Aggiungiamo pure che il costo del biglietto - 80 euro - e il fatto che fosse una fiera esclusivamente B2B senza vendita diretta avrebbe evidentemente tagliato fuori tutti quegli avventori che non hanno un interesse professionale (e questo potrebbe anche non essere un male, direte voi, ma è inutile negare che almeno per la birra artigianale la componente di semplici appassionati sia sempre stata presente anche alle fiere: prova ne sia il fatto che a Beer Attraction fosse possibile bere in loco tramite gettoni come ad un qualsiasi festival). Lecito ipotizzare dunque che a questo punto sarà un altro evento (la stessa Beer Attraction, che la Fiera di Rimini ha mantenuto? Birraio dell'Anno?) a rafforzare il suo ruolo di "manifestazione di popolo nazionale", mentre Cibus consoliderà quello di B2B.

Di fatto, ho trovato sostanziale corrispondenza con quanto mi aveva prospettato il presidente di Unionbirrai, Vittorio Ferraris, in un'intervista che gli avevo fatto per il giornale Venezie Post alcuni giorni prima: ossia che chi aveva comunque scelto di esserci (un centinaio di birrifici, quando pre pandemia si erano contati anche 300 espositori - compresi però i distributori e affini - al Beer Attraction) era perfettamente consapevole delle difficoltà di cui sopra, e non si aspettava certo miracoli; ma aveva in ogni caso fiducia nelle opportunità insite in un evento che raduna persone dell'intero settore ho.re.ca., raggiungendo un pubblico che non sarebbe andato ad una fiera dedicata esclusivamente al settore birrario e dei comparti della ristorazione gli sono immediatamente collegati. 

Più in generale, l'estate - che per molti birrifici è stata di frenetica attività - ho trovato abbia dato una grande iniezione di fiducia, che ha sicuramente giocato un ruolo chiave. Certo, il pubblico non era quello che ci si sarebbe potuti aspettare pre-Covid: ma è altrettanto vero che i dati (per ora parziali) dicono che il Cibus ha retto il colpo della pandemia meglio di altre manifestazioni. Bisognerà naturalmente poi vedere quanto questo si tradurrà in un effettivo vantaggio a livello commerciale per i birrifici partecipanti, ma questo è un discorso su cui al momento è ovviamente prematuro inoltrarsi: è vero che la loro collocazione in fiera non era in un luogo "di passaggio" (in altri termini: chi voleva vedere gli stand dei birrifici doveva andare lì apposta, non ci sarebbe passato per caso), ma il fatto che venisse indicata come "sezione speciale" potrebbe allo stesso tempo aver suscitato la curiosità e motivato a visitarla.

Al di là di queste considerazioni, i birrifici presenti erano in massima parte nomi meritevoli; e, al di là delle birre premiate a Birra dell'Anno (i cui trofei campeggiavano su numerosi stand, a testimoniare successi distribuiti in maniera abbastanza vasta tra i presenti), per quel che ho potuto assaggiare hanno esibito produzioni diverse interessanti - sia a livello di birra in sé, che di idee e progetti che ci stanno dietro.

Tra queste segnalo la Shirin Persia, wheat ale allo zafferano del Birrificio 5+ che prende il nome dal progetto nato nel 2019 dall'iraniana Ala Azadkia - e che ha portato a costituire la prima rete transnazionale di questo tipo per il commercio dello zafferano, legata al circuito dell'Equosolidale. Si tratta di una wheat che rimane ben riconoscibile nel suo stile, e a cui lo zafferano dà un tocco discreto di personalità senza andare ad intaccare l'equilibrio generale. Cruciale il servizio alla temperatura giusta (direi 5-6 gradi), pena il fatto di perdere questo equilibrio e snaturare totalmente la birra.

Del birrificio Diciottozerouno ho apprezzato in particolare la double Ipa Ansya: otto gradi e non sentirli, per una birra che nonostante i toni forti evita il "pugno di luppolo al naso" ben riequilibrato dal corpo tostato - decisamente snello a dispetto della robustezza - e dal taglio amaro finale su toni erbacei.

Spostandoci da Basei, mi sono diretta sulle nuove creazioni: anche qui una double Ipa, la Franko, con dry hopping di citra e mosaic. Questa è viceversa una birra assai vivace all'aroma, in cui la luppolatura di cui sopra emerge in piena forza; e che nonostante il notevole grado alcolico - anche qui siamo sopra i sette gradi - rimane estremamente bevibile grazie alla notevole attenuazione e secchezza.

Con piacere ho poi ritrovato il birrificio Sothis, anch'esso con nuove creazioni in lista. Segnalo in particolare la Scotch Ale Callanish, con malto affumicato che riempie bene le note aromatiche; e che non risulta viceversa invasivo in bocca, dove prevalgono i sapori dolci di caramello con una consistenza mielosa, elegantemente riequilibrata dalla luppolatura finale che chiude alle persistenze dolciastre e apre al sorso successivo.

Novità anche in casa Retorto, dove ho apprezzato in particolare la Summer Porridge - una collaborazione con il Birrificio Svevo: un nome ispirato dal mix di cereali che sta alla base di questa saison - orzo, frumento, farro e segale - che esibisce al naso una speziatura unicamente da lievito particolarmente robusta e che si armonizza però poi con delicatezza nel resto della bevuta - piuttosto multisfaccettata al palato vista la varietà degli ingredienti, ma comunque rotonda e scorrevole come deve essere una saison.

E parlando di creazioni originali, non si può non citare la "2011-2021 Design" (quest'ultima parola in assonanza con il bresciano per "dieci anni") brassata dal Birrificio Curtense per il suo decennale: sulla carta una Berliner Weisse, di fatto una sui generis dato che è stata creata in collaborazione con 20 birrifici diversi (sia italiani che esteri, tra cui spicca il nome di Cantillon) ognuno dei quali ha proposto un ingrediente. Detto così sembrerebbe un minestrone, invece diversi cervelli all'opera sono anche riusciti a dare una coerenza al tutto: per cui, dopo una rosa di aromi del tutto peculiare e variegata (dalla scorza di limone, ai fiori d'ibisco, al sambuco) ma ben amalgamata, al palato rimane riconoscibile nella sua base di birra di frumento (più un'aggiunta di farro) con chiusura acidula, come del resto deve avere una Berliner Weisse. Non la considererei una "entry level" per chi non ha mai provato nulla del genere, ma nemmeno una birra solo per intenditori: l'elevata complessità rimane infatti ben armonizzata nell'insieme, garantendo una birra comunque fresca e piacevole a bersi. Insomma, non è un Frankestein birrario, ma una cosa che ha un senso - e pure apprezzabile - nel suo insieme.

Interessante poi anche il passaggio da Legnone, dove ho fatto conoscenza con il nuovo giovane birraio Tommaso - formatosi a Perugia e in birrificio praticamente dall'inizio della pandemia, per cui non avevo mai avuto modo di provare la nuova gestione. Per quanto Tommaso nel presentare ogni birra si premuri sempre di precisare che "Ho iniziato da poco, c'è ancora margine di miglioramento", bisogna dire che il debutto è stato del tutto onorevole (e non solo perché una delle birre di Legnone, la Kanuf alla canapa, si è aggiudicata il terzo posto a Birra dell'Anno): ho trovato particolarmente significativa in questo senso la Marzen, stile poco battuto in Italia, che necessità di grande pulizia nel risultato finale. Da segnalare anche la Cangurina, una Pacific Ipa dalla peculiare luppolatura con Topaz, Enigma e Galaxy - che gioca tra i profumi di uva spina, resina e frutta tropicale.

Questo, appunto, è solo una breve panoramica, limitato alle birre più rilevanti nell'economia di questo post; e ringrazio, oltre ai birrifici già citati, anche Birra dell'Eremo, Antikorpo, Beha e Beer In - che mi hanno accolto ai rispettivi stand e per i quali non posso che confermare il giudizio già espresso dai giudici di Birra dell'Anno in quanto a qualità delle birre, trattandosi di tutti birrifici premiati - e l'Associazione Le Donne della Birra, anch'essa presente con un suo stand.