lunedì 30 dicembre 2013

Un buon 2014...di birra "salata"

Ai miei lettori gli auguri di fine anno erano doverosi; e per quanto l'anno nuovo si auguri sempre sereno e pieno di belle sorprese, in questa sede non posso non ricordare che, per gli appassionati di birra e gli operatori del settore, il 2014 non si apre sotto i migliori auspici. In base al Dl 91 dell'8 agosto scorso e al Dl 7 del 30 novembre, infatti, le accise sulla birra aumenteranno da da 2,66 euro hl/grado Plato a 2,70 euro hl/grado Plato dal 1 gennaio, e a 2,77 dal 1 marzo. E si tratta solo della prima tranche, perché dal 2015 sono in arrivo ulteriori aumenti. Tradotto in termini più accessibili, dal 1° gennaio 2014 il peso delle accise passerà dai 28,2 euro per ettolitro prodotto a 32,4 euro di media, per finire a 35,9 euro 1° ottobre 2015. Un incremento di quasi il 15% che, insieme all’aumento dell’Iva dei mesi scorsi, porterà la pressione fiscale sulla birra ad un livello elevatissimo: Assobirra lo quantifica in oltre un terzo del prezzo pagato dal consumatore finale, che con questi incrementi arriverà quasi al 50%. Insomma, sappiate che se pagate una pinta 5 euro, quasi 2,5 andranno in tasse.

Naturalmente gli operatori del settore si sono mobilitati già da tempo: Assobirra ha lanciato la campagna Salva la tua birra, sul cui sito è possibile firmare una petizione per chiedere il ritiro del provvedimento. Al momento le firme sono 54.128 - un po' pochine forse, su 35 milioni di consumatori stimati -, ma è comunque unno strumento di pressione. Peraltro, ricorda Assobirra, "in Italia la birra è l’unica bevanda a bassa gradazione alcolica a pagare le accise, e da noi le tasse sulla birra sono fra le più alte in Europa: tre volte quelle di Francia e Spagna". Un'ingiustizia soprattutto nei confronti del vino, che le accise non le paga affatto. E anche se ci possiamo consolare sapendo che i finlandesi ne pagano 143 euro per ettolitro, gli inglesi 108 e gli svedesi 93, e che la media Ue è di 34,5 (dati della Commissione Ue pubblicati da Assobirra; la media invece l'ho calcolata io, se è sbagliata prendetevela con me), tant'è: a pagare meno di noi sono soprattutto i principali produttori (come appunto tedeschi e belgi), penalizzando i birrai italiani sul mercato internazionale.

Non mi dilungo oltre, ma il sito è comunque una miniera di dati interessanti: per esempio ricorda come "Il settore della birra in Italia comprende oltre 500 produttori tra grandi marchi (14 stabilimenti industriali, 2 impianti produttivi di malto) e microbirrifici artigianali". Un settore "che sta creando concrete opportunità imprenditoriali, soprattutto per i giovani: negli ultimi 5 anni sono nate circa 300 micro aziende birrarie, con imprenditori nella maggior parte dei casi under 35. Tutte insieme queste aziende producono circa 13,5 milioni di ettolitri di birra all’anno (dato 2012), che fanno dell’Italia il decimo produttore in Europa, davanti a Paesi dalla grande tradizione birraria come Austria, Danimarca e Irlanda. Aziende che creano occupazione: 4.700 occupati diretti (+4,4% sull’anno precedente), 18.000 fra diretti e indiretti e 144.000 compreso l’indotto allargato". Per quanto il 70% della produzione sia consumata in patria, poi, "nel 2012 l’export italiano di birra ha toccato i 2 milioni di ettolitri, il doppio rispetto al 2006". E le aziende produttrici "già oggi contribuiscono alle entrate dello Stato per oltre 4 miliardi di euro annui (calcolando Iva, accise, tasse, contributi sociali di aziend e lavoratori e tasse pagate dai settori coinvolti a vario titolo)".

Non sono un'economista né un'esperta di diritto tributario; ma per quanto in linea di principio disincentivare tassandoli i comportamenti non virtuosi - come appunto il consumo di alcolici - possa avere un senso, in questi casi si pone una riflessione in più. Non stiamo infatti parlando di multinazionali del tabacco, ma nella maggior parte dei casi di piccoli birrifici artigianali che devono spesso sottostare alle stesse normative previste per i grandi - con relativi disagi -, e che stanno facendo rinascere un settore in cui è custodito e si sta sviluppando un vero e proprio patrimonio di conoscenze che non esiterei a definire "cultura della birra artigianale". Se la pressione fiscale crescerà a questi livelli, a meno di non ridurre i propri margini di guadagno, i birrai saranno costretti a scaricarla sul consumatore: con relativo rischio che questo rinunci, e conseguente danno per tutta la filiera. E se finora il fatto di rivolgersi ad una sorta di nicchia di appassionati disposti a non tagliare i consumi nonostante la crisi li aveva salvati, questo potrebbe non bastare più. Insomma, la questione è sempre la stessa: le casse dello Stato hanno bisogno di soldi, il problema è dove prenderli. Ma c'è da domandarsi se sia giusto prenderli qui.

Peraltro, Assobirra si è attivata anche per questo: sul sito della campagna è stato lanciato un sondaggio, in base al quale è possibile scegliere tra cinque misure alternative per evitare questo aumento, quantificato in 170 milioni di euro. Per ora, su quasi ottomila votanti, il più gettonato è l'eliminazione dei contributi statali ai partiti e all'editoria politica (43,5%), seguito dal taglio del 6% alle spese per il funzionamento di governo e Parlamento (25,2%) e da quello del 50% ai contributi alle scuole private (18,8%). Proposte certo non nuove: quel che è certo è che si rischia, come sempre in caso di aumento delle tasse sui consumi, che a causa della riduzione di questi ultimi il gettito di fatto diminuisca, come già accaduto sia in Italia che in altri Paesi.

martedì 24 dicembre 2013

Hoppy Christmas

Sì, lo so, è un titolo per soli anglofoni e me ne scuso: ma non ho potuto resistere alla tentazione di "riciclare" il gioco di parole tra "Happy Cristmas" (Felice Natale) e "Hoppy Christmas" ("Luppoloso" Natale), nome di una delle birre natalizie della Brewdog che Matilde mi ha gentilmente fatto assaggiare qualche giorno fa. Ora che so che "è tutta questione di luppoli", tanto di cappello per la mia prima Ipa di Natale: per quanto fossi stata avvertita che "è molto amara, non so se ti piaccia", la rosa di luppoli diversi che si alternano - e che non coprono gli aromi fruttati tipici delle Ipa - fanno sì che questo amaro non risulti "pesante", e che anzi si bilanci bene con le note di frutta. Insomma, promossa.

Ma veniamo a noi. Quella sera ero in Brasserie appunto per la degustazione di tre birre di Natale con relativi abbinamenti gastronomici: la Smokin' hops di Foglie d'erba, la Krampus del Birrificio del Ducato, e la Rudolph di Garlatti Costa. Tre nomi di tutto rispetto, che lasciavano ben presagire.

Siamo appunto partiti dalla Smokin' hops, una Ipa che Ipa non avrei mai detto perché affumicata, come dice il nome stesso. L'aroma è probabilmente il tratto che più mi ha colpito, perché i profumi tipici delle Ipa non vengono comunque del tutto nascosti dall'affumicatura: ne nasce quindi un mix parecchio originale, che apriva bene la strada all'abbinamento con la torta salata con pancetta affumicata.
Ho trovato che il gusto tendesse un po' a "morire in bocca", come si suol dire, perché dopo il primo sorso l'impressione è stata quella che fosse tutto finito lì: in realtà una certa persistenza - non retrogusto - c'è, anche se meno marcato di quanto ci si possa aspettare da un'affumicata.

Insieme alla polenta con funghi porcini è poi arrivata la Krampus, un'ambrata dalla gradazione alcolica notevole - 9 gradi - che prende il nome dai demoni natalizi della tradizione ladina e carnica. Bisogna dire che si tratta di una birra per intenditori, come ha ammesso anche Norberto: il gusto particolarmente complesso, che unisce frutta, spezie, caramello (io ho sentito anche quello), risultando particolarmente dolce (nonostante abbia percepito anche qualche nota più acida), non la rende di facile apprezzabilità. Personalmente mi ha ricordato per certi versi - e qui dico un'eresia - la Coca Cola, lasciandomi un po' perplessa; salvo poi perdere questi sentori qualche minuto dopo, una volta leggermente più calda. L'abbinamento non era del tutto fuori luogo, ma dato che mi era rimasta un po' di Smokin' hops ho fatto la prova anche con quella: e devo dire che polenta e affumicato sono sempre una coppia vincente.

Da ultimo ci siamo dati alla Rudolph di Garlatti Costa, che prende invece il nome dalla leggendaria renna dal naso rosso (chi non la conoscesse, clicchi qui o qui). Trattasi di una belgian strong dark ale ad alta fermentazione che, nonostante le note di malto siano prevalenti al gusto, non fa mancare poi un'ultimo sentore di luppolo che - detto fra noi - la rende di facile bevibilità a scapito dei suoi 10 gradi a rischio e pericolo dell'avventore. Particolarmente apprezzato poi l'abbinamento con il crostino tartufato al gorgonzola piccante, perché la sapidità e il sapore forte del formaggio andavano proprio a braccetto con quello altrettanto deciso della birra.

In definitiva tre birre di tutto rispetto, al di là dei gusti personali: la prima per l'originalità della combinazione, la seconda per la complessità, e la terza - diciamocelo - per la pura e semplice gradevolezza, ed ogni tanto ci vuole pure quella, senza andare troppo in cerca di cose complicate.

Detto ciò, non mi resta che aggiungere gli auguri di Natale: i più cari pensieri a tutti i lettori, perché questa giornata porti, a chi crede e a chi no, una ventata di speranza e fiducia nel futuro! Buon Natale!

giovedì 19 dicembre 2013

Non chiamatelo retrogusto

C'è da dire che Udine, per gli amanti della birra, è una città che offre parecchio: non solo perché l'università è stata una delle prime in Italia a brassare ed avviare corsi in merito alla facoltà di agraria, o perché è sede del Bire, uno dei più antichi brewpub friulani; ma anche perché le associazioni di categoria si impegnano su questo fronte, per promuovere i numerosi birrifici artigianali locali. Così la Confartigianato ha organizzato due degustazioni guidate, condotte da Walter Filiputti insieme ad alcuni mastri birrai. Chiaramente l'occasione era ghiotta e non ho potuto mancarla, per quanto si trattasse di due birrifici che già conoscevo bene: il Villa Chazil, di cui avevo parlato in questo post, e il Valscura, sul quale è suprfluo aggiungere qualcosa (ma chi non lo conoscesse, clicchi qui).

La serata si è aperta con una dotta e interessante dissertazione di Antonio, il proprietario di Villa Chazil: un'occasione per scoprire tante cose che non conoscevo sulla produzione della birra, tanto più nel caso di un agribirrificio che fa da sé sia l'orzo che il luppolo. Ad esempio, non avevo idea del fatto che i maltifici italiani non garantiscano la tracciabilità del prodotto: ossia, voi consegnate l'orzo perché venga maltato (come vedete nella foto), ma poi non potete sapere se il malto che vi viene restituito è davvero il vostro, perché viene sostanzialmente messo tutto insieme per lavorarlo abbattendo i costi. Il che, chiaramente, non ha alcun senso nel caso di un agribirrificio, il cui punto di forza è appunto quello di produrre la birra esclusivamente con le proprie coltivazioni: così Villa Chazil porta il suo orzo a maltare in Austria - come Zahre -, data la vicinanza al confine. Oppure ho scoperto che il luppolo va messo "a crudo", alla fine, perché conservi gli aromi: se viene cotto, infatti, perde tutto quel bouquet di profumi che caratterizzano le birre ben luppolate. Insomma, una scoperta dopo l'altra.

Detto ciò, si è passati alla degustazione. Avevo sinora assaggiato solo una delle loro birre, la lager, che se devo essere sincera non mi aveva entusiasmata: non perché non l'abbia gradita, semplicemente perché non ci avevo visto quel tocco di originalità che in genere tanto apprezzo nelle produzioni artigianali. Alla degustazione c'era però oltre a quella anche la Pale Ale, e in questo caso devo dire che Villa Chazil ha fatto centro: senz'altro molto più corposa, dall'aroma fruttato e da un bel color rame, che una volta in bocca fa sentire in pieno la rosa di sapori del luppolo di cui sopra lasciando un amaro che, se all'inizio mi è parso quasi troppo forte, si è poi smorzato nel retrogusto.

E qui ho avuto la pessima idea di domandare al mastro birraio che guidava la degustazione come si faccia a "controllare" il retrogusto. Non l'avessi mai fatto: dopo avermi gentilmente spiegato che è una questione di luppoli, di quali tipi vengono usati, come vengono dosati e quando vengono aggiunti, mi ha infatti puntualizzato che "non si chiama retrogusto, si chiama persistenza: se parliamo di retrogusto vuol dire che non è una birra di qualità, perché questo sta a indicare che ha lasciato in bocca una sorta di saporaccio". Insomma, come sempre bisogna imparare ad usare bene le parole: e mi sono quasi vergognata di tutte le volte in cui in questo blog ho parlato di retrogusto, per quanto sia un termine comunemente usato, senza sapere di aver inconsciamente denigrato le birre che avevo bevuto.

La seconda parte della degustazione era appunto dedicata alle birre Valscura, nella fattispecie la Blanche de Sarone e la Nadal, la birra di Natale. E qui il buon Gabriele dovrà assumersi la responsabilità di avermi ripresa perché "Non devi solo scrivere le cose che ti sono piaciute nelle birre, devi anche dire quelle che non vanno": perché se la Blanche mi ha lasciata - letteralmente - a bocca aperta per la particolarità sia dell'aroma che del gusto, date le note di frutta che giudicherei uniche, la Nadal devo ammettere che mi ha un po' delusa. Intendiamoci, non che sia male: le spezie e gli aromi caldi tipici delle birre di questo genere si fanno sentire, ma ho trovato il gusto troppo liquoroso, quasi dolciastro. Gusti personali, per carità; e a onor di Valscura c'è da dire che è la prima volta che una loro birra mi lascia non del tutto soddisfatta - e dire che ne ho provate parecchie. Insomma, che dire? Toccherà farsi la bocca buona assaggiandone un'altra...

martedì 17 dicembre 2013

Mercatini di Natale reloaded

Vabbè, se non l'avete ancora capito, sono una fanatica: dove ci sono mercatini di Natale, lì trovate anche me. Così ne ho approfittato di una gita a casa dei miei per andare a quelli di Cison di Valmarino, pittoresco paesino ai piedi delle Prealpi Venete. Ai più è noto per la fama di Castelbrando, castello medievale caduto quasi in rovina e riportato agli antichi splendori dall'imprenditore Colomban; ma il centro storico è un vero gioiellino, avendo conservato case e viuzze d'altri tempi. Una cornice perfetta, appunto, per i mercatini, se non fosse per l'umidità che in questa stagione penetra fino alle ossa.


Il paesello era comunque frequentatissimo, tanto che io e mia madre abbiamo dovuto farci strada a forza tra le bancarelle: dai prodotti artigianali in legno, alle decorazioni natalizie in feltro, allo stand di un caseificio lombardo che esibiva una crema al gorgonzola da leccarsi i baffi, davvero ce n'era per tutti i gusti e per tutte le tipologie di regalo - per sé o per altri - che si possa cercare. Naturalmente non mancavano i birrifici, tra cui la nostra vecchia conoscenza Baracca Beer, e il San Gabriel di Ponte di Piave.

In realtà anche questo era una mia vecchia conoscenza, perché  avevo già avuto modo di assaggiare le loro birre sempre a Cison in occasione di Artigianato Vivo. Se avevo trovato la Nera di Tarzo, una nera - appunto - al fico, un po' troppo sbilanciata nel gusto verso l'aromatizzazione, così non è stato per l'Ambra Rossa: qui entra in gioco nella giusta dose il radicchio di Treviso, creando un connubio interessante tra l'amaro spiccato dell'ortaggio simbolo di quelle zone e il caramello dato dal malto.

E proprio l'Ambra Rossa è l'ingrediente principe di quella che per me è stata una novità, presentata alla bancarella del San Gabriel: un formaggio stagionato nella birra, in cui i sentori dell'Ambra rossa sono davvero molto decisi. Devo dire che l'abbinamento è indovinato, nel senso che il formaggio in questione si sposa molto bene con questa birra; più che altro il problema si pone in quanto al cosa berci insieme, perché metterci un boccale di Ambra Rossa sarebbe quantomeno ripetitivo. Ho così chiesto consiglio al ragazzo alla bancarella, il quale ha però dovuto ammettere che lo trovavo impreparato: posto dunque che a questo  punto bisogna andare per contrasto, o quantomeno su qualcosa di abbastanza neutro, potrei pensare alla classica Bionda, oppure alla Birra dell'Apostolo aromatizzata al miele - che, almeno per quanto mi riguarda, con i formaggi va sempre e comunque a nozze, checché ne dicano i veri intenditori di formaggi. Si accettano comunque suggerimenti...

giovedì 12 dicembre 2013

Se sull'arca non ci sono solo animali

Mi permetto di sviare un'altra volta dalla questione birra, ma sempre per una buona ragione: ossia il Terra Madre Day 2013, che Slow Food celebra ogni anno. Gli incontri organizzati dai seguaci di Petrini mi incuriosiscono sempre parecchio, e non tanto - anche se, diciamocelo, fa piacere - perché spesso e volentieri si concludono con brindisi e degustazioni; ma soprattutto perché ogni volta finisco per scoprire qualcosa di nuovo, vuoi in campo agricolo, vuoi in campo enogastronomico. Così, dato che uno degli eventi organizzati per la giornata si teneva al cinema Visionario qui a Udine, non ho mancato di partecipare.

 A leggere l'invito, in realtà, almeno la prima parte della serata poteva apparire piuttosto "accademica": era infatti previsto l'intervento di un agronomo, Costantino Cattivello, sul tema della biodiversità. Che in sé è interessante, per carità, ma il timore di una sorta di lezione universitaria poteva dirsi legittimo. Invece la cosa è stata del tutto abbordabile anche ai non addetti ai lavori, con tante notizie e curiosità magari apparentemente banali, ma estremamente esemplificative della questione: lo sapevate, ad esempio, che un centinaio d'anni fa si coltivavano sette varietà di asparagi, mentre ora se ne contano solo due? O che vicino a Trieste c'è una famiglia di agricoltori che da un secolo fa un lavoro di selezione delle sementi di lattuga agostana, per cui questa non viene attaccata da un fungo che generalmente attacca le altre lattughe - alla faccia degli antiparassitari? Beh, io no. Né avevo mai pensato, per quanto possa essere intuitivo, che la creazione di biodiversità è un processo naturale che consente di conservare la specie - variando il genoma, cioè, si riduce la possibilità che questo venga attaccato -; o che, come ha fatto notare il buon Gregorio Lenarduzzi, produttore di cipolla della Val Cosa, andando a comprare le sementi pronte si perde l'antico sapere del contadino, che ad ogni stagione selezionava con cura le piante che avrebbero garantito la semina per l'anno successivo. Insomma, d'ora in poi quando metterò la verdura nel piatto mi porrò un sacco di problemi, ma probabilmente non è un male.

Poi si è passati alla parte, diciamo così, più godibile: la presentazione delle prelibatezze tipiche inserite o da inserire nell'Arca del gusto - una lista prodotti che Slow Food si impegna a promuovere - dalla viva voce dei coltivatori. Ho così scoperto l'esistenza del broccolo friulano, resistente alle gelate e coltivato soltanto in poche zone del Friuli; l'aglio di Resia, salvato dall'oblìo da pochi orti domestici, ma che grazie ad un paziente lavoro di tutela e recupero anche in collaborazione con le università ora tocca il 25 per cento della produzione regionale; e la cipolla di Cavasso e della Val Cosa, la cui coltivazione è stata recuperata grazie al ritorno nelle zone d'origine di alcuni emigranti che ne avevano conservato la memoria. Ma la storia più curiosa è forse quella del mais cinquantino, ingrediente base del Pan di sorc (già noto ai lettori di questo blog), del cui metodo di produzione erano rimasti solo due anziani testimoni e che si credeva scomparso; senza dimenticare quella dell'asparago di Nogaredo, anche questo dato per perduto ed ora recuperato, la cui pianta arriva a vivere anche trent'anni. E la lista potrebbe proseguire con la pitina, il crafùt, e molto altro ancora: ma non sto a tediarvi, né a farvi venire fame - e se siete curiosi, san Google verrà in aiuto.

Fame che a noi nel frattempo era venuta, per cui ci siamo spostati al bar del cinema per assaggiare i crostini di polenta con la scuete frante - una crema di ricotta - e gli strucchi lessi, tipici dolci delle valli del Natisone: una sorta di gnocchi di pasta di farina e patate, ripieni di uvetta, noci, pinoli, burro, pangrattato e zucchero, lessati in acqua bollente e conditi - come se non bastasse - con burro fuso, zucchero e cannella. In effetti, l'artefice degli strucchi che abbiamo assaggiato ha ammesso che "Molti me li chiedono conditi solo con lo zucchero"; ma al grido di "Barbari!", e in nome della tradizione, quelli serviti per l'occasione erano rigorosamente imburrati. Ok, se ci mettono il burro un motivo ci sarà, perché in effetti ci stava proprio.

A racchiudere il senso della serata però, ancor più che il brindisi, penso sia stata la chiacchierata con il vicepresidente di Slow Food Fvg, Giorgio Dri: con il quale ci siamo detti che questi incontri non sono solo un'occasione godereccia, altrimenti basterebbe infilarsi in una qualche osteria, ma prima di tutto di conoscenza. E in effetti, posso dire di essere tornata a casa avendo notevolmente ampliato il mio bagaglio sia culturale che umano.

mercoledì 11 dicembre 2013

Sauris, dove i mercatini sono solo una scusa

Quella di andare ai mercatini natalizi a Sauris, sperduto paesello della Carnia, era per me e Enrico una questione di principio: due anni fa infatti, leggendo sulla locandina che sarebbero stati aperti in data "6-8 dicembre", con buone speranze ci siamo andati il 7. E invece no, erano aperti proprio il 6 e l'8, senza il 7 di mezzo: per carità, gita piacevole, ma niente bancarelle. Quest'anno non c'erano possibilità di errore, essendo aperti in data 7-8 dicembre: così siamo saliti in macchina con la certezza di andare a colpo sicuro.


Oltretutto, di certezza ne avevamo un'altra: ossia la possibilità - dato che avevamo preso preventivaente contatto - di una visita guidata al birrificio Zahre, nostra vecchia conoscenza. Climaticamente parlando la giornata non era delle migliori, perché nonostante il sole faceva - passatemi il termine - un freddo becco: così rifugiarsi tra tank e fermentatori, nonostante il capannone non fosse riscaldato, è comunque stato un sollievo, mentre ascoltavamo la moglie di uno dei titolari raccontarci la storia del birrificio e le tecniche di produzione.

Storia curiosa, quella di Zahre: un birrificio nato 14 anni fa, quando le realtà di questo genere erano ancora poche, dalla falegnameria di due fratelli che durante i lunghi mesi invernali avanzavano tempo per brassare. Inizialmente "alla buona", tanto che i nomi delle birre sono stati dati quasi con ingenuità: la chiara Pilsen perché è fatta con malti pils, anche se pils non è; la rossa Vienna perché è fatta - indovinate un po'? - con malti Vienna; l'affumicata perché ha il 30 per cento di "rauchmalt", un malto affumicato sopra braci di legno; e la canapa perché viene agguinta appunto la canapa. Una produzione che è rimasta invariata nel corso degli anni, e c'è da dire che hanno avuto modo di affinarla: Zahre ormai è un nome conosciuto nel panorama birrario, soprattutto in abbinamento agli altri prodotti tipici del paese - speck in primo luogo.

Devo dire che ho scoperto un sacco di cose nuove sulla produzione della Zahre, non da ultimo il perché vada assolutamente tenuta in frigo: essendo una birra a bassa fermentazione, infatti, c'è il rischio che questa riparta in bottiglia. "Ma tranquilli, non vi fa male - ha assicurato la nostra guida - al massimo diventa acida e vi fa andare in bagno un paio di volte in più". Beh, meglio comunque non rischiare. Proprio per non interrompere la catena del freddo, la Zahre non viene commercializzata se non su brevi distanze: "Il trasporto in celle frigo è costosissimo - ci è stato spiegato - e in più dobbiamo essere sicuri che, una volta arrivata a destinazione, venga subito trasferita in un'altra cella frigorifera". Motivo per cui Zahre non ha distributori, che non sarebbero in grado di garantire i 4 gradi centigradi costanti.

La visita al birrificio era pubblicizzata come "Birra a km 0": titolo forse un po' fuorviante, perché malti e luppoli non vengono certo coltivati a Sauris. La Zahre ha acquistato dei campi nella bassa fiulana per far crescere l'orzo, che viene poi mandato a maltare a Vienna: paradossalmente più vicina che altre malterie in Italia, data la vicinanza al confine austriaco. A km zero è comunque la brassatura, che avviene tutta entro quei pochi metri quadrati in cui - per ammissione della stessa moglie - i titolari a volte addirittura dormono durante i periodi di pieno lavoro.

Lavoro che, fortunatamente per loro, non manca: sono infatti in arrivo due nuovi tank da 25 mila litri perché la produzione è diventata insufficiente alle richieste, nonché due nuovi tipi di birra meno sensibili alla catena del freddo. Che dire, speriamo si mantengano comuque fedeli all'operato di questi 14 anni: il bicchiere di affumicata che ci hanno offerto alla fine del tour, infatti, era sempre buono come una volta...

giovedì 5 dicembre 2013

Una serata senza zucchero

Da tempo avevo in programma una visita ad uno dei pub che mi erano stati descritti da più parti come da non perdere, il King's Arm di Pordenone: e dopo diverse sollecitazioni e buoni propositi andati a vuoto, a darmi finalmente l'occasione di andare è stato il buon Francesco, peraltro frequentatore abituale - tranquilli, non è un alcolista; anzi, alle ragazze single mi permetto pure di suggerirlo come buon partito, se volete il numero di telefono fatemi sapere - di suddetto pub.

Il posto è arredato in maniera senz'altro consona ad una birreria: le pareti sono letteralmente tappezzate di poster, foto, bandierine e chi più ne ha più ne metta dei marchi più o meno conosciuti. Il pezzo forte è però il listino: non a caso il simpatico proprietario ci ha detto "Vi lascio un elenco telefonico", ad indicarne lo spessore. E in effetti siamo rimasti parecchio disorientati, tanto che la povera cameriera è dovuta tornare più volte a prendere l'ordine: tra birre alla spina e in bottiglia se ne contano infatti più di 150 tipi, per cui la scelta è stata piuttosto laboriosa.

Meno male che ci è venuto in soccorso appunto il titolare, che con fare esperto ci ha consigliati.Veramente io una mezza idea ce l'avevo già: per colpa o merito dell'amico Gino di Foglie d'erba mi sono appassionata alle birre con poco zucchero, più facilmente "assimilabili" e dal gusto che trovo più "genuino" perché permette di apprezzare meglio i sapori - qualunque essi siano. Così, quando il mio sguardo è caduto sulle Caulier - una casa belga che pubblicizza birre "senza zucchero per natura" -, non ho potuto reisstere alla curiosità. Rimaneva solo da scegliere quale: giusto per andare sul sicuro rispetto alle mie preferenze consolidate ho optato per la bruna, nonostante i 6,8 gradi a stomaco vuoto mi lasciassero un po' perplessa. Devo dire che è valsa la pena aver osato: non ho ricordi di aver provato birre dal malto così intenso - prevedibile, direte voi -, con tutta la rosa dal caramello al tostato in sequenza. Curioso come tenda, partendo dal dolce, a virare in una seire di sfumature verso l'amaro, fino a lasciare un retrogusto che di zuccherino non ha proprio nulla: per palati forti, ma da provare.

Francesco a dire il vero mi aveva consigliato piuttosto la Caulier 28, la sua preferita: una bionda, decisamente più leggera (5 gradi) e anche in questo caso senza zucchero. Naturalmente, dato che lui ha ordinato quella, sarebbe stato un peccato non assaggiare una birra che mi era stata magnificata così tanto: compito a cui ho prontamente adempiuto, barattando la cosa con un sorso di bruna. Anche in questo caso il tocco della casa si sente: le note di agrumi sono ben bilanciate con quelle di tostato del malto, esaltate appunto dall'assenza di zucchero a differenza che in altre bionde.

Chiaramente, a quel punto urgeva tamponare l'alcol prima di rimettersi alla guida: così ci siamo dati alla lista di toast, panini e piadine che in quanto a lunghezza non ha molto da invidiare a quella delle birre - altra particolarità del King's Arm, nel caso in cui siate appassionati di questi sfizi e soprattutto delle innumerevoli salse di ogni genere di cui sono guarniti. Il migliore ricordo della serata rimane comunque la dotta dissertazione birraria del titolare: come sempre, apprezzi di più se sai cosa bevi, e se lo fai in buona compagnia...

giovedì 28 novembre 2013

Tre colibrì...di carattere

Data la giornata avuta al lavoro, ancor prima di arrivare in Brasserie per una degustazione di tre birre in formato colibrì - ossia da 15 cl - avevo commentato che, più che di tre colibrì, per tirarmi su avrei avuto bisogno di tre pinte; ma mi sono anche detta che forse era meglio calmare gli animi, dato che le tre birre in questione erano pubblicizzate come birre "di carattere". Almeno così diceva il sito del birrificio Toccalmatto, una mia nuova conoscenza di Fidenza (Parma...e scusate la rima) a cui la degustazione era dedicata. Sono quindi arrivata da Matilde e Norberto con buone speranze, dato che la serata prometteva bene sia sotto il profilo birraio che gastronomico.

La prima creazione di Toccalmatto, abbinata ad un timballino di riso con crema di taleggio e noci, aveva un nome forse più adatto a stare per ultima: "Zona Cesarini", espressione con cui vengono indicati gli ultimi minuti di una partita di calcio. Trattasi di una Ipa particolarmente luppolata, che tuttavia non lascia troppo la sensazione di amaro al retrogusto dati i sentori decisi di agrumi: un mix decisamente particolare tra questi sapori, che non ho trovato in altre birre dello stesso genere. Unico punto di domanda, onestamente non mi è chiaro il senso dell'abbinamento con il timballino: per quanto apprezzatissimi entrambi, non mi è sembrato che i sapori si sposassero alla perfezione.

Abbinamento invece del tutto chiaro nel caso del crostino al pecorino con polpettine al sughino... - pardon, al sugo - , accompagnato dalla Rude Boy: una Ipa rossa che Ipa forse non sembra, dal gusto ben pieno e quasi liquoroso che fa un tutt'uno con la carne. Aspettate un po' prima di inghiottirne un altro boccone, però: l'amaro che, a onor del nome, definirei rude, fa capolino a scoppio ritardato.

Il meglio, giustamente, è però arrivato alla fine: non solo perché gli occhi di Enrico si sono illuminati davanti a uno dei suoi sfizi preferiti, il medaglione di polenta con il gorgonzola fuso, ma soprattutto perché si sono illuminati i miei dopo il primo sorso di Grand Cru. Trattasi di una belgian strong ale chiara, che nasconde i suoi nove gradi sotto un gusto che ho trovato in fin dei conti equilibrato al di là di quella che il mastro birraio definisce "una forte personalizzazione data dal lievito" (mi perdoni per il fruttato intenso, che onestamente non ho sentito). Discretamente dissentante peraltro, nonostante la gradazione, e la definirei decisamente la chicca della serata.

Volendo quindi azzardare un podio, direi che giusto per un soffio la Grand Cru conquista l'oro, per quanto la Zona Cesarini possa ben vantarsi del premio originalità pur fermandosi all'argento. Bronzo alla Rude Boy, non perché non mi sia piaciuta, ma perché, mi spiace dirlo al mastro birraio, ha fatto un lavoro troppo di fino con le altre due...

venerdì 15 novembre 2013

Una degustazione con la storia

Ci voleva un'altra serata alla Brasserie per riportarmi su queste pagine dopo un periodo di silenzio; nella fattispecie quella di mercoledì scorso, che prevedeva una cena con degustazione delle creazioni del Birrificio Un Terzo di Biella. La cosa era diventata per me quasi una questione d'onore, perché, nonostante già da qualche tempo Matilde tenga in frigo le loro bottiglie, per un motivo o per l'altro non ne avevo mai assaggiata una: per cui questa volta non avevo scuse.

In quanto al menù, come di consueto Matilde e Norberto si sono attenuti rigorosamente alla stagione. Ad aprire la cena sono state le lasagne alla zucca, abbinate alla 365° anniversario - lanciata, come il nome lascia intuire, a 365 giorni dall'apertura del birrificio: un'ambrata ad alta fermentazione parecchio speziata che, per quanto tecnicamente non lo sia, mi ha in qualche modo ricordato le Ipa per i sentori agrumati (si riconosce bene l'arancia), quasi floreali, e l'amaro dissetante in chiusura. Utilissimo a "ripulire" per contrasto il dolce della zucca, per cui l'abbinamento era davvero indovinato.

Il secondo - pollo al malto e castagne con piselli e pancetta: detto così pare impegnativo, ma ne vale la pena - era accompagnato dalla Duca d'O, una rossa ad alta fermentazione in stile American Pale Ale, dedicata al Duca d'Orleans che nel 1575 salì al trono di Francia col nome di Enrico III (se mai vedrò i birrai, devo chiedere come mai proprio a lui; però ammazza, questi hanno studiato). Per quanto ad un primo impatto non mi avesse impressionato, la nota distintiva di questa birra che mi ha poi lasciata sorpresa è la velocità con cui il dolce iniziale del malto lascia il posto all'amaro netto del luppolo ancor prima del retrogusto, che è in genere il momento in cui ci si attende un cambiamento simile. C'è da dire che, a differenza della 365° anniversario, è tutt'altro che dissetante: si tratta di una birra piuttosto corposa e "impegnativa" nonostante i 6 gradi mezzo, dato che tutti i giusti presenti - dal caramello del malto all'amaro del luppolo...chiedo perdono ai birrai, ma il pompelmo rosa non l'ho proprio sentito - sono parecchio forti.

Volendo dare una valutazione generale, dunque, direi che per quanto entrambe le birre non mi abbiano lasciata a bocca aperta per l'originalità - eh già, ero impegnata a deglutire...ok, lo so, era pessima - se ne riconosce comunque la qualità; a questo punto sarei assai curiosa dei assaggiare la Natalis - una birra di stagione, ovviamente - la cui descrizione recita "Birra bruna artigianale, colore nocciola scuro. Al naso è complessa, con predominanza di spezie, frutta secca e sentori di cacao e caffè". A Natale, si sa, sono tutti più buoni. Anche le birre...

mercoledì 6 novembre 2013

E chi l'ha detto che il riso si fa solo alla milanese

Soddisfatta la curiosità di conoscere l'agribirrificio, rimaneva da colmare la lacuna dell'unico che non avevo ancora provato tra quelli presenti al Good: il birrificio Abbà di Livorno Ferraris, in provincia di Vercelli. Una realtà di esperienza abbastanza lunga rispetto ad altri birrifici artigianali - una decina d'anni -, sviluppata in un vecchio cascinale ristrutturato circondato dalle risaie - così almeno mi ha detto il buon mastro birraio, accompagnato dalla figlia che evidentemente cresce bene.

Manco a dirlo, come quasi tutti i birrifici artigianali, anche l'Abbà di fregia di produrre solo birre crude, per preservarne meglio la qualità; oltretutto, ha puntualizzato il birraio, "Sono tutte spillate senza l'aggiunta di anidride carbonica: buone fino all'ultimo bicchiere", grazie alla tecnica Key Keg diffusa dalla Carlsberg.

Giusto per vedere se diceva la verità, non rimaneva che provarle. Su consiglio dell'esperto ho iniziato dalla bionda, che per quanto sia all'aroma che al gusto non mi fosse apparsa diversa da una qualsiasi altra chiara ad alta fermentazione, ha riservato la sorpresa del retogusto, nettamente più luppolato della media. Come di consueto ho apprezzato di più l'ambrata, che nonostante il caramello deciso non lascia poi strascichi dolciastri grazie alle note di malto tostato nel finale. Gran sorpresa in chiusura è stata la Nigra, una stout particolarmente beverina - complici i neanche 5 gradi -, soprattutto grazie al fatto che, contrariamente ad altre stout, sia all'aroma che al gusto pare inizialmente quasi inconsistente e non risulta "impegnativa"; salvo poi rivelare un sapore di caffè assai deciso, con qualche leggera nota di cioccolato. Insomma: bevetela comunque a piccoli sorsi in modo da godervi il finale di ciascuno, sennò la sprecate.

Peccato che non fosse disponibile la birra che più mi incuriosiva, la Farinela, brassata esclusivamente con il malto di riso: me l'hanno descritta come secca, fresca e con note agrumate, e beverina nonostante i 7 gradi e mezzo. Ma si sa, le descrizioni, se non seguite dalla prova pratica, fanno solo venire sete....

lunedì 4 novembre 2013

Al Good di Udine, parte prima: ma che sarà mai un agribirrificio

Rieccomi qui, dopo la trasferta nepalese. Giusto per togliervi la curiosità, se volete bere birra locale in quel di Kathmandu, il mio personale consiglio - con tutto il rispetto per i nepalesi - è di lasciar perdere: la scelta va dalla Everest alla Gorkha, due pils molto simili tra loro, che pur non essendo da buttar via non offrono nulla di più di ciò che si potrebbe trovare in un qualsiasi supermercato. Ottime per dissetarsi magari, ma non per chi cerca un sapore particolare.

Al rientro in Italia mi sono così diretta con migliori speranze al Good di Udine, salone delle specialità enogastronomiche friulane e non solo. Ovviamente non mi sono certo dilettata solo con la birra: è stata l'occasione per scoprire che di prosciutto San Daniele esistono quasi una decina di tipologie, grazie alla guida del buon Max Plett del prosciuttificio Dok dall'Ava; o di provare i veri confetti di Sulmona dell'azienda Giallo Zafferano - spettacolari quelli alla mandorla, caramello e rum; e la lista potrebbe continuare a lungo.

In quanto a birrifici, oltre a ritrovare più o meno tutti i vecchi amici - tra cui Valscura, di cui ho provato la Nadal: notevoli le note di frutta esotica sia all'olfatto che al palato, ma forse un po' impegnativa da bere perché gli otto gradi si sentono tutti - ho fatto anche alcune nuove conoscenze. Ad attirare la mia attenzione, per pura curiosità, è stato per primo l'agribirrificio Villa Chazil di Lestizza: ohibò, mi sono detta, che sarà mai un agribirrificio?

Sono così andata a farmelo spiegare dal bravo ragazzo al banco, che ancor prima di rispondere alla mia domanda mi ha messo in mano un bicchiere. In sostanza, come intuibile dal nome stesso, si tratta di un'azienda che - come per gli agriturismi - coltiva in proprio le materie prime: in questo caso, il malto e il luppolo. E qui è sorto il dubbio: ok per l'orzo, ma in quanto al luppolo avevo sempre saputo che farlo crescere in queste zone è una battaglia persa: come la mettiamo? "Con i luppoli tedeschi sì - ha specificato il ragazzotto - ma con quelli americani si può fare". A onor del vero, in effetti, il luppolo a km zero ancora non c'è: il birrificio è attivo da due mesi, per cui bisognerà attendere l'anno prossimo - quando le piante saranno cresciute - per vedere se davvero l'esperimento funziona; per ora c'è il malto - che mi è anche stato fatto assaggiare, prima volta che mi capitava -, e le previsioni sono quelle di produrre circa 1500 ettolitri l'anno di birra a filiera corta.

Per ora Villa Chazil produce un solo tipo di birra, quella - appunto - che mi era stata messa in mano: una lager con malto Pils - quello sì già prodotto in azienda - e luppolo Cascade. Se devo essere sincera, per quanto l'abbia trovata piacevolmente dissetante, non mi ha particolarmente colpita; certo si sente comunque il tocco dell'artigianalità, in quanto non ha nulla a che vedere con quelle da supermercato di cui sopra. Per cui, che dire? Aspetto di assaggiare quella con luppolo locale il prossimo anno, che promette di essere, al di là dei gusti personali, senz'altro unica in quanto a materie prime.

mercoledì 16 ottobre 2013

Chissà com'è la birra in Nepal

Forse chi di voi conosce me e famiglia, avrà immaginato che la birra in regalo di cui avevo parlato nel penultimo post fosse per mio fratello, neo dottore in ingegneria industriale. Glie l'ho portata il giorno della proclamazione, ma, in ossequio alla massima secondo cui chi beve senza offrire all'inferno va a finire, ha gentilmente atteso che fosse presente anche Enrico - che quel giorno non c'era - per stappare. Del resto, l'aveva detto anche Matilde: quella è una birra che va condivisa, perché è così corposa che berla tutta da soli diventa impegnativo.

Trattasi di una Embrasse del birrificio De Dochter, direttamente dalle Fiandre in produzione limitata con tanto di bottiglia numerata: una scura in stile belga prodotta - come magnifica l'etichetta - usando esclusivamente malti, senza alcuna aggiunta di zucchero - e ce ne devono essere parecchi se raggiunge i 20 gradi plato (per i non adepti, l'unità di misura della densità di zuccheri disciolti: per avere un termine di paragone, una birra "normale" ne ha attorno ai 12). Come direbbe il buon Gino del Foglie d'Erba, comunque, tanto meglio: se usi il malto invece che lo zucchero per fare grado (alcolico, questa volta) vuol dire che dà meno alla testa.

Già all'aroma le peculiarità si notano: sembra quasi di avere a che fare con un vino o con un liquore, più che con una birra. In quanto al gusto, mi sono trovata scherzosamente a definirla la versione alcolica - 9 gradi, per la precisione - dell'orzo caldo che tante volte mi faccio la sera: perché davvero il malto è così preponderante da far sentire quasi esclusivamente l'orzo, che rimane quasi intatto al retrogusto. Retrogusto che comunque non è affatto dolce, perché a quel punto fa finalmente capolino quella punta di luppolo che lascia - senza però alcuna connotazione negativa in questo caso - l'amaro in bocca.

Una birra da intenditori, insomma: buona, ma da bere con cognizione di causa e moderazione, perché è così corposa che ogni sorso è un impegno - e l'alcol si sente tutto, per quanto mi tocchi ancora una volta dar ragione a Gino sul fatto che il problema in realtà è lo zucchero.


Detto ciò, è ora di spiegare il titolo di questo post: spento il computer partirò per un trekking di due settimane in Nepal, insieme a mio fratello. Il programma prevede di raggiungere al campo base dell'Himlung due amici di nostro padre, e quindi proseguire con loro attorno all'Annapurna attraverso il Mustang: un tragitto particolarmente interessante in quanto tocca zone da poco aperte al turismo, e quindi pressoché sconosciute. Che dire? Ci rivediamo su questi schermi tra due settimane, e chissà com'e la birra in Nepal...

lunedì 14 ottobre 2013

Gelato a quattro zampe

Sì, lo so, avevo promesso di ritornare sulla questione birra: ma quando si trova qualcosa di curioso, non si può stare zitti...Era da un po' di tempo che volevo fermarmi al Dolce Gelato, in Via Vittorio Veneto a Udine, non solo perché pubblicizza una seri e di gusti vegani e gusti salati, ma anche perché invita a provare il "Dolce Bau": e che sarà mai, un gelato per cani? Già, lo ammetto, i negozi che vendono amenità per quadrupedi mi hanno sempre lasciata piuttosto perplessa: non perché abbia qualcosa in contrario al fatto che un umano si prenda cura del suo canide o del suo felino, ma perché ritengo che ci siano modi più sensati di farlo che investire in un cappottino in taffetà scozzese per cihuahua. Ma che qualcuno si sia inventato pure il gelato per cani, beh, mi sembrava eccessivo.


Così finalmente sono entrata, chiedendo per prima cosa delucidazioni sui gusti vegani. Il buon titolare - tal Paolo Dolce, un cognome un programma, come lui stesso ha ammesso - mi ha così spiegato come produce i gusti senza latte, usando come di consueto in questi casi latte di soia o addensanti. Addensanti, ha sottolineato, "del tutto naturali, come la farina di carrube: che peraltro fa pure bene, essendo ricca di fibre".

La curiosità però in realtà era appunto quella del Dolce Bau: e no, non mi ero sbagliata, è davvero un gelato per cani. Più che una bizzarria, una vera e propria idea di business: il nostro ha notato come molti padroni con cane al seguito entrassero in gelateria, con il fedele amico che attendeva anche lui la sua parte; peccato però, mi ha spiegato, che né lo zucchero, né i derivati del latte né il cioccolato siano propriamente un toccasana per il miglior amico dell'uomo. Così fiutando - letteralmente - l'affare ha elaborato un gelato salato alla vaniglia senza latte, facendolo testare ai diretti interessati per perfezionarlo fino a giungere alla ricetta definitiva. Insomma, un'opera di bene per animali e padroni da un lato, e un'ottima trovata per la gelateria dall'altro.

"Che cosa posso farti assaggiare?", ha gentilmente chiesto a quel punto. Non ho avuto il coraggio di chiedergli il Dolce Bau, per quanto morissi dalla curiosità e sia perfettamente commestibile anche per gli umani; così ho provato la nocciola più, ossia la versione vegana del gusto classico. Indubbiamente si nota che il gusto è più intenso, perché non "diluito" nel latte; così come nel caso del cioccolato, per quanto personalmente continui a sostenere che è sempre meglio una buona tavoletta. Unica pecca, per un'appassionata di gusti alla frutta come me, è che ce ne sono pochi - ho trovato soltanto fragola e limone; ad ogni modo non mancano le curiosità, come la croccamela (vaniglia, mela e cereali), il cremino, e il caramello fleur de sel.

La prossima frontiera di Paolo, infatti, sono i gelati salati, proposti magari come abbinamento gastronomico a qualcos'altro o a un buon bicchiere di vino per un aperitivo: per le novità, non c'è che da rimanere sintonizzati...

sabato 12 ottobre 2013

Una canzone per non dimenticare

E' giunta ieri la notizia della morte di Erik Priebke, tra i principali responsabili della strage delle Fosse Ardeatine. Non mi permetto di giudicare sul fatto se un criminale mai pentito - almeno così si riferisce - vada semplicemente consegnato all'oblio della storia, come forma estrema di condanna dei suoi atti; certo è che vanno ricordate le vittime, perché purtroppo simili episodi si sono ripetuti anche alle porte di casa nostra - basti pensare alla guerra dei Balcani - e continuano a ripetersi in chissà quanti altri conflitti sconosciuti.

Per questo, nell'augurarvi comunque un buon fine settimana al di là del post piuttosto cupo, oggi lascio da parte la birra e mi permetto di riportarvi qui sotto il link al video di una canzone del musicista e cantautore romano - nonché caro amico - Giacomo Lariccia, di cui avevo già parlato in questo post: è la storia di una delle vittime di quell'eccidio, Renzo Giorgini, che venne prelevato insieme ad altri dalla prigione di via Tasso dove si trovava da qualche giorno. Le parole raccontano della sua cattura a via Ripetta e di quando sua figlia, ossia la nonna di Giacomo, lo vide andare via scortato dai soldati tedeschi.

Credo non serva aggiungere altro: ora facciamo silenzio e lasciamo parlare queste note. Grazie Giacomo, che ci hai fatto ricordare in maniera così delicata quest'episodio della nostra storia.


http://www.youtube.com/watch?v=CCbYoF_7vMQ

venerdì 11 ottobre 2013

La birra del conclave

Dopo una lunga deviazione in terreno gastronomico, eccomi ritornata all'ovile - ossia alle birre, e più specificatamente alla Brasserie. Veramente eravamo andati lì con i migliori propositi, ossia comprare una bottiglia a scopo regalo, bere qualcosa di veloce giusto per la compagnia, e andarcene; ma poi abbiamo casualmente trovato lì il nostro buon amico Giovanni - arrivato nel locale perfettamente insieme a noi: mai successo che ci incontrassimo con puntualità - insieme ad un collega, e la serata ha preso tutt'altra piega.

Ultimamente in Brasserie sono arrivate diverse birre nuove, per cui l'imbarazzo della scelta era più pesante del solito; ma per pura curiosità mi sono diretta subito su di un birrificio che non conoscevo, l'Extra Omnes, di cui troneggiavano in frigorifero una serie di bottiglie dalle descrizioni l'una più bizzarra dell'altra. Meglio la Zest, "dorata con "vibrazioni" verdi, con un netto fruttato maturo di pesca noce bianca, uva spina e litchi quasi a coprire una delicata speziatura"? Oppure la Bruin, dalla schiuma "color cappuccino" con "dolci tostature olfattive di polvere di cacao e cioccolato amaro che vengono esaltate dal fruttato di marrons glacés"? O forse la Hopbloem, di cui "al naso spiccano i riconoscimenti di citronella, melissa e di un fruttato che vira dall''agrumato al tropicale"?

Alla fine a convincermi è stata la Migdal Bavel, se non altro per la lista di gusti e profumi che esibiva - e che mi ha ricordato un po' la Pannepot, non tanto per i sapori che sono diversi, quanto appunto per la loro ricchezza: "Schiuma bianca molto compatta. Dorato brillante con un netto riflesso rame. Spezie, incenso, lime, cera d’api. In bocca si alternano l’amaro vegetale del luppolo, verticale e svelto, con quello semantico della mirra, profondo e persistente". Della serie, va bene le spezie, ma l'incenso, la cera e la mirra non mi erano proprio mai capitate: unite al nome del birrificio - la frase pronunciata all'inizio del conclave, quando i cardinali fanno uscire tutti dalla Cappella Sistina - ce n'era di che soprannominarla una birra, se non papale, quantomeno ecclesiastica.


Devo dire che l'aroma non ha deluso: avvicinando il naso al bicchiere, la girandola di profumi era davvero unica, e allo stesso tempo così ben amalgamata che non avrei saputo nemmeno distinguere bene l'uno dall'altro se non mi fossi aiutata con la descrizione - e vabbè, sarò pure una principiante...A lasciarmi un po' perplessa è purtroppo stato il sapore: non perché sia deludente, anzi, la luppolatura è notevole e piacevolmente dissetante; ma piuttosto perché tutti quegli aromi che avevano stuzzicato l'olfatto sembrano sparire, salvo poi ritornare almeno in parte al retrogusto. Insomma, dulcis in fundo, volendo rimanere nel latino. In tutto e per tutto, comunque, una birra da provare, così come credo lo siano anche le altre della casa.

Enrico invece, giusto per rimanere in tema papale, ha scelto senza esitazioni la Gregorius: una birra trappista prodotta però in Austria, che aveva stuzzicato anche me, ma mi aveva scoraggiata con i suoi 10 gradi dopo l'esperienza di difficile nottata post Pannepot. E in effetti qualcosa in comune con la Pannepot oltre al grado ce l'ha - ovviamente l'ho assaggiata, che credete? -: anche questa è scura, dalla schiuma pannosa, e dal gusto tostato tendente al caramello e al miele. Però non è speziata, e il finale è notevolmente più liquoroso: pienamente nelle corde di Enrico dunque, che predilige le birre di questo genere, e meno nelle mie. Insomma, perfetta a parte questo.

A chiudere la serata, la curiosità per la birra che avevamo comprato per un regalo e che speriamo che il beneficiario ci faccia assaggiare: ma questa è un'altra storia, sennò gli roviniamo la sorpresa...

mercoledì 9 ottobre 2013

La meraviglia della grappa del Collio

Domenica scorsa, su invito dell'amica wineblogger Elena Roppa di It's a wine world, sono stata a Rosso DiVino, una degustazione - come il nome stesso lascia intuire - organizzata dalla cantina Ronc Soreli di Prepotto. Veramente il vino in sé e per sé non mi entusiasma, ma non sia mai che si rifiuti un invito; tanto più che di contorno alle degustazioni ci sarebbe stato un mercatino di prodotti artigianali ed enogastronomici locali, che sicuramente avrebbe meritato un'occhiata. Così mi sono avventurata con Enrico ed una famiglia di amici, sfidando le condizioni meteo non proprio promettenti.

Non mi lancerò in dotte dissertazioni sulla qualità dei vini, pena il rischio di uscirmene con delle enormi corbellerie: non è il mio lavoro, lasciamolo fare a chi ne sa - come appunto Elena. Mi esprimerò piuttosto sul resto delle bancarelle presenti, di cui alcune parecchio curiose: ad attirare l'attenzione di Enrico è stato un antiquario che esponeva gli oggetti più bizzarri, da vecchi ferri da stiro a candelabri; una signora che lavorava il feltro, realizzando accessori per la casa e per l'abbigliamento; nonché il banco della latteria di Savorgnano, che offriva tre tipi di formaggio davvero particolari - un gorgonzola stagionato, un ubriaco e un frant aromatizzato al cren, la vera chicca della casa.

Ad attirare la mia è invece stata piuttosto la pasticceria Giudici di Trieste, lì rappresentata dal buon Alessandro, ormai alla terza generazione di pasticceri: ad iniziare è stato il nonno, 33 anni fa, mentre lui ha le mani in pasta - letteralmente - da 15. La pasticceria offriva tra le sue creazioni tre tipi di biscotti: al cioccolato bianco e tè earl grey, al cioccolato bianco e caffè - "Altresì detti al capo-in-b", come chiamano a Trieste il macchiato servito nel bicchiere - e al cioccolato e fior di sale. Se i primi non mi hanno del tutto convinta, perché il cioccolato era un po' troppo marcato per i miei gusti, con i secondi ho dovuto ammettere che i due sapori si sposano davvero bene; mentre i terzi, che all'inizio lasciano intendere soltanto il cioccolato, al retrogusto - come una buona birra, mi verrebbe da dire - riservano la sorpresa di una punta di salato veramente spettacolare. Insomma: se sui primi si può fare di meglio e sui secondi si comincia a ragionare, i terzi sono il pezzo unico.

Lì accanto c'era però anche una sorta di tortino, a proposito del quale una signora ha chiesto "E questo come si chiama, Meraviglia?". "A dire il vero, non ci ho ancora dato un nome" ha risposto Alessandro. Al che il mio alter ego Chiara-faccia-di-bronzo ha preso possesso di me, chiedendo spudoratamente un assaggio pur avendo già ampiamente pascolato sui biscotti. Devo dire che ne è valsa la pena: trattasi infatti di un tortino di cioccolato, frutta secca e grappa del collio. Quest'ultima la definirei il segreto della ricetta, perché dà alla pasta un aroma che non avevo mai trovato prima: se vi piace la grappa del collio, tanto meglio perché il sapore è molto marcato, ma anche se non vi piace fidatevi che ne vale la pena, perché accompagna in maniera egregia il resto dei sapori. Insomma, se i romani dicevano "dulcis in fundo" perché il meglio sta alla fine, un motivo ci sarà...

martedì 8 ottobre 2013

Gusti di frontiera, parte quinta: da Napoli alla Slovenia, la bontà del pane

Sì, lo so, avevo detto che mancava soltanto la via con gli stand italiani: ma si sa, in questi casi si va un po' a zig zag, per cui capita di deviare a seconda di dove porta, più che il cuore, la gola. Ma andiamo con ordine...

Dopo una lunga serie di taralli ed altre simili amenità pugliesi, a farmi fermare per capirne di più è stata la bancarella della pizzeria ristorante Al Cavallino, che porta ai goriziani le specialità napoletane. Diciamocelo: dopo la mia (unica) gita nel capoluogo partenopeo con i colleghi di Città Nuova, già mi pregustavo una fetta di pastiera o una sfogliatella (rigorosamente frolla, grazie: inorridirò i puristi, ma la riccia non è di mio gradimento). Invece la signora dietro al banco mi ha messo tra le mani un perfetto sconosciuto, il casatiello: un'impasto di farina, lievito, acqua, sale, pepe, strutto, uova sode, salame, ciccioli di maiale, formaggio - "caso" in dialetto napoletano, da cui il nome -, che si usava fare in occasione della Pasqua (per ristorarsi dal digiuno quaresimale, oso supporre). Il formaggio peraltro, ha spiegato la signora, deve essere rigorosamente pecorino: sta lì infatti la simbologia dell'agnello, che insieme alle uova lo lega appunto alla Risurrezione; così come la forma a ciambella ricorderebbe la corona di spine, "distrutta" man mano che il casatiello viene mangiato. Insomma, ce n'è per un trattato di teologia oltre che di cucina. Devo ammettere che si tratta di una pietanza un po' troppo "forte" per me, sia in termini di sapore - il pecorino è davvero molto accentuato - che di digestione; però la genuinità non è in discussione, e spero di avere occasione, passando per Gorizia, di assaggiare un'altra delle creazioni del Cavallino: magari le pizze, dato che ne contano ben 65 in listino.

Chicca finale della giornata è stato però un banchetto di legno piuttosto defilato, dietro a cui stavano madre e figlia: quello del panificio biologico Nonina spaiza di Zirovnica, in Slovenia. Amanti del pane non "convenzionale", questo è il posto per voi: da quello al farro, a quello alle noci, a quello all'aglio selvatico - la specialità della casa -, ce n'è di che sbizzarrirsi. Idem per i biscotti: al farro e arancia, alle noci e segale, al cioccolato, con ingredienti tutti provenienti dall'azienda agricola di famiglia e rigorosamente biologici. A garanzia della genuinità delle marmellate, la madre di cui sopra, vera artista della cucina: raccoglie personalmente le bacche e i mirtilli - almeno così ha raccontato la figlia -, e insegna i segreti della buona confettura anche ad altre ragazze del paese. Una dimensione che in tanti luoghi si sta perdendo, ma che è l'unica garanzia di preservazione di un sapere atavico che ci salva dalle gelatine industriali e dalla pectina...

lunedì 7 ottobre 2013

Gusti di frontiera, parte quarta: di qua e di là del confine

Come dicevo, nella piazza davanti alla chiesa - da cui mi avevano cacciata, nonostantre la pioggia, perché stavano chiudendo.....neanche lì mi vogliono più - c'erano una serie di stand, perlopiù di prodotti caseari. Soffermarsi sulla girandola di caprini e canestrati di qualunque aromatizzazione, dall'alloro ai funghi porcini, provenienti da qualsiasi zona d'Italia, sarebbe lungo; a colpirmi è stata però soprattutto la ricotta dell'azienda agrituristica pri Lovrcu di Tolmin - da noi conosciuta come Tolmino -, in Slovenia.

Scordatevi lo stereotipo del vecchio agricoltore o del vecchio casaro: almeno quelli al gazebo avranno avuto tutti sui trent'anni, ed esibivano una serie di formaggi, tra cui spiccavano appunto le ricotte l'una più fresca e l'altra più stagionata. Se pensavate di sapete cos'è la ricotta fresca, ricredetevi: questa è davvero di una cremosità particolare, e per quanto sia più acida di quelle consuete, è proprio questo acidulo a darle un tocco particolare. Per quanto non abbia trovato gli altri formaggi della loro produzione altrettanto spettacolari, dunque, onore al merito e dedichiamo un paragrafo del blog a questa ricotta.

In manifestazioni come queste, basta spostarsi di una via per attraversare il confine: e così, dopo una deviazione in quel di Bruxelles per dare uno sguardo alle bancarelle dei cioccolatini belgi che mi hanno ricordato i tempi felici, ad attirare la mia attenzione è stato lo stand del Liquorificio Italia di Trieste. Non tanto perché c'erano esposte grappe e liquori in crema per davvero tutti i gusti - dalla pesca, all'anice, al cioccolato; ma soprattutto perché in alcune di queste bottiglie fluttuavano, rimanendo in sospensione, delle scagliette di cocco e dei semini di anice.

Incuriosita, mi sono fatta spiegare dalla ragazza al banco quale fosse il segreto: da che mondo è mondo, l'aromatizzazione sta sul fondo - e perdonate la rima. La risposta si chiama pectina, l'addensante comunemente usato anche per le marmellate: in questo modo la soluzione alcolica diventa viscosa, e ciò che vi viene immerso - in questo caso cocco, ribes e anice, i tre gusti disponibili in questa linea - rimane sospeso creando una sorta di "disegno" all'interno della bottiglia davvero curioso a vedersi. Insomma, un'ottima trovata commerciale, che forse lascerà perplessi i puristi, ma sicuramente avrà convinto più di qualcuno a comprare una bottiglia.

Del resto, è pure buona: la ragazza mi ha gentilmente fatto assaggiare il liquore al cocco, e devo dire che le scagliette in sospensione lo rendono davvero particolare anche al gusto. Buone anche le creme - la giovane ha insistito per farmene provare almeno una, nella fattispecie quella al pistacchio - anche se non le ho trovate altrettanto notevoli.

Ormai si stava facendo tardi, per cui ho dovuto affrettare il passo: mi aspettava l'ultima via, sempre con prodotti tipici italiani...