giovedì 27 febbraio 2014

Dall'Ambrosia al Duca d'Orleans

Anche questo mese, come di consueto, la Brasserie ha organizzato la degustazione di tre colibrì con annessi abbinamenti gastronomici: questa volta però Matilde e Norberto hanno scelto di non farla con le birre di un solo marchio, ma con quelle di due birrifici. Insomma, c'era da aspettarsi più varietà, sulla scia della degustazione natalizia di cui avevo parlato in questo post.

Nel primo caso già conoscevo , diciamo così, il creatore, il Toccalmatto di Parma - già oggetto di questa degustazione - ma non la creatura, ossia la Ambrosia: una blanche fortemente aromatica dalle note di frumento parecchio persistenti, che tendono quasi a coprire quelle di agrumi e di fiori di sambuco, erica e gelsomino (che infatti non avevo identificato come tali finché non ho letto la descrizione). Apprezzabile perché ha molto più corpo e carattere rispetto alla maggior parte delle blanche, nonché per l'abbinamento assai ben riuscito con la torta salata al tonno e gamberetti: probabilmente non la accosterei ad un pesce dal gusto troppo delicato perché rischierebbe quasi di soverchiarlo, ma uno dal sapore più deciso come il tonno va a pennello.

Anche il secondo birrificio, l'Un Terzo di Biella, non era una nuova conoscenza; lo era però la prima delle due birre, la Margot, una blonde ale caratterizzata dai luppoli cechi dedicata alla regina Margot, sorella del re di Francia Enrico III. Il corpo, per quanto equilibrato, è abbastanza deciso; personalmente non sono una grande fan dei luppoli cechi - ma è solo una questione di gusti -, l'equilibrio di cui sopra fa comunque sì che l'amaro erbaceo che li contraddistingue non sia troppo persistente. Ammetto invece di non aver colto il perché dell'abbinamento con il - peraltro buonissimo - timballo di pasta con emmental e noce moscata: mi dispiace, ma non sono riuscita ad apprezzare l'accostamento tra i due gusti.

Già conoscevo invece la terza birra, la Duca d'O, che avevo assaggiato in questa degustazione; all'epoca però non avevo avuto modo di apprezzarla fino in fondo, perché la vera rivelazione è stata abbinarla al crostino con radicchio e mortadella. Un'american pale ale rossa dall'aroma così intenso (e questa volta ho colto pure il pompelmo rosa), e dal corpo deciso inizialmente molto maltato che vira preò subito verso l'amaro del luppolo, viene esaltata alla perfezione da quello del radicchio, contrastandolo ed accompagnandolo al tempo stesso. Insomma, davvero indovinato.

A quel punto però sono dovuta andare a dire a Matilde che, per quanto fosse tutto buonissimo, il secondo abbinamento proprio non l'avevo capito; e al suo commento ironico per cui "sei proprio dura, ce n'è sempre uno che non capisci", è stato fin troppo facile rispondere che allora bisognerà organizzare degustazioni finché arrivo a capirli tutti...

martedì 25 febbraio 2014

Petto di pollo alla Rossa Vienna

Ok, questo non è tecnicamente un blog di cucina né, posso vantarmi di essere una cuoca sopraffina; però, dato che sperimentare mi piace - specie nel caso di ricette con la birra - e che ogni tanto mi va pure bene, ho pensato che un post in merito poteva starci. E così, complice il fatto che mio fratello si è finalmente deciso ad aprire il fustino da 5 litri di Rossa Vienna di Zahre che gli avevamo regalato - e quindi bisognava finirla prima che (sacrilegio!) si sciupasse -, mi sono lanciata in una ricetta molto semplice: le fettine di petto di pollo alla Zahre Rossa.


Il procedimento è a prova di moderna giovane casalinga media che arriva a casa di corsa. Ho messo le fettine di petto di pollo a bagno nella Rossa Vienna per poco più di un'ora prima di cena - giusto il tempo di farsi una doccia e riprendere fiato -, scolandole e asciugandole con cura tale da mettere in crisi d'identità anche i rotoloni Regina - che hanno scoperto che anche loro ad un certo punto finiscono. Operazione fondamentale perché riesca bene il successivo passaggio nella farina, di cui deve rimanere giusto un velo per evitare che si bruci in cottura. Poi ho scaldato bene la padella - io ho la fortuna di avere quella della AMC, per cui non ho necessità di aggiungere olio perché la carne non si attacchi; vi consiglio comunque di evitare di metterne troppo, per non pregiudicare poi il sapore della birra -, ho adagiato le fettine e ho messo il coperchio. Una volta cotte da un lato le ho girate, e ho sfumato con la Rossa Vienna lasciando poi senza coperchio (per evitare l'effetto "lesso" lasciando evaporare). Una possibilità sarebbe anche fare la salsina, con birra e farina: però non ho provato, quindi non mi pronuncio - se lo fate, attendo feedback. Personalmente preferisco aggiungere il sale alla fine, per evitare che "asciughi" la carne durante la cottura; e anche per regolare meglio il condimento, dato che la birra rossa è comunque molto saporita.


A quel punto si poneva il problema dell'abbinamento: che cosa bere insieme a cotanta roba? Nel nostro caso, avendo - come già detto - un fusto da 5 litri aperto, abbiamo dovuto fare di necessità virtù e continuare con la Rossa; però oggettivamente risulta eccessivo, anche perché - come testimoniava la caramellatura rimasta in fondo alla padella - è una birra dalla maltatura abbastanza decisa, che tende al dolce. Andrei piuttosto più sul neutro, bevendoci insieme una Chiara Pilsen - che è come il nero, va con tutto - oppure per contrasto, accostandoci il retrogusto erbaceo e quasi amarognolo della Canapa - per quanto si tratti forse di un abbinamento un po' più audace. Eviterei invece l'affumicata, che a mio parere caricherebbe troppo.

Che dire? A me è sembrato che il petto di pollo fosse riuscito bene, morbido, saporito e leggermente caramellato. In fondo, il prerequisito è quello di usare birra di qualità, anche se apparentemente sembrerebbe sprecata se usata per cucinare. Ma un qualsiasi chef vi confermerà che la bontà del risultato finale, oltre che dalla mano di chi cucina, dipende dalla bontà dei singoli ingredienti....

mercoledì 19 febbraio 2014

Una birra tra gli stucchi

Come già ho avuto modo di osservare più volte, Udine, pur essendo più conosciuta - insieme al resto del Friuli - per il vino, è una cittadina assai interessante anche per gli amanti della birra: opinione confortata lunedì scorso, quando è sceso in città direttamente da Forgaria il buon Severino Garlatti Costa per una degustazione delle sue birre.

Una nota a parte "preventiva", per così dire, la merita però il locale in cui si è tenuta, il Caffè al Portello di piazza San Giacomo. L'attuale gestore, Luca Lombardo, ha infatti avuto l'idea di unire - sapientemente, senza scadere nel kitsch o nel pacchiano - antico e moderno, da un lato facendo restaurare gli stucchi del soffitto, e dall'altro aggiungendovi qualche dettaglio "contemporaneo": luci a led che illuminano di luce calda le decorazioni, divanetti di design, e una sorta di curiose ampolle di vetro di Murano sopra il bancone. Una cornice piacevole per le aperitivi e degustazioni, che infatti Luca organizza spesso, soprattutto di vini; ma anche appunto di birre - è stato il primo a lanciare l'"aperitivo di birra" a Udine -, come quella di lunedì scorso. Insomma, anche il luogo era indovinato, e se passate da Udine suggerisco una tappa.

A dire il vero conoscevo già due delle quattro birre proposte (la Liquidambra e la Lupus, di cui avevo già scritto in questo post), ma le altre due erano nuove, e quindi i buoni motivi per andare erano più che sufficienti. Dopo un'interessante e dotta dissertazione sulla produzione della birra - ho pure preso appunti, lo confesso - Severino ha iniziato col farci assaggiare la Opalita, una birra di frumento e segale con leggera speziatura, ispirata alle blanche (infatti fa 5 gradi). Già all'aroma si sente che la particolarità è appunto la segale, un'innovazione del buon Garlatti Costa, legata alle coltivazioni che ci sono sul territorio; ma fa comunque il suo - più al gusto, però - anche l'aromatizzazione al bergamotto, che il mastro birraio ha detto di aver scelto in quanto altro tipico italiano. Il corpo è decisamente leggero, anche perché, come ha spiegato lo stesso Severino, sia le le spezie che il luppolo sono usati con parsimonia, così da non risultare troppo prevaricanti: il che la rende dissetante e adatta agli abbinamenti con cibi leggeri, come i formaggi spalmabili, il Montasio fresco, il pesce, e le carni bianche. A dire il vero l'abbinamento proposto da Luca proprio leggero non era, però il Montasio c'entrava: frico di patate e polenta, una delle specialità locali. In tutto e per tutto, comunque, nota di merito alla segale: l'ho trovato un cereale decisamente indovinato, almeno in questo tipo di birra, che per certi versi mi ha ricordato il farro della Freya di cui avevo scritto in questo post.

Siamo poi passati alla Lupus, che Severino ha raccontato di aver battezzato a questo modo in riferimento al luppolo, chiamato così in latino perché aggredisce le altre piante. 6 gradi, ispirata alle blonde belghe ma con una luppolatura più marcata, che si abbina però ad una pura maltatura d'orzo altrettanto decisa: insomma, un amalgama di aromi - in cui mi è sembrato di riconoscere una speziatura simile a quella dell'opalita - e di gusti. E qui Severino mi ha spiegato il perché della persistenza amara che arriva molto in ritardo nelle birre di questo genere: non ci avevo mai pensato, ma è dovuta appunto all'equilibrio con il malto, che tende a coprire fino all'ultimo l'amaro del luppolo, lasciandolo come sorpresa finale. Non si finisce mai di imparare. In quanto agli abbinamenti, qui il mastro suggerisce cibi più complessi: formaggi a breve o media stagionatura, primi piatti con condimenti semplici e fritture di pesce. In questo caso la scelta di Luca è caduta su wurstel e crauti: non male, ma spero di non dire un'eresia se affermo che li avrei visti meglio piuttosto con la birra successiva.

Che era appunto la Liquidambra: anche qui Severino ha svelato l'arcano del nome, preso da quello volgare dell'acero rosso, la cui foglia è infatti disegnata sulla bottiglia. Un'ambrata di 7 gradi, più corposa - ma beverina, nonostante appaia inizialmente quasi caramellata sia all'aroma che al gusto, anche grazie all'equilibrio tra malto e luppolo di cui sopra che dà una certa persistenza amara. Appunto per questo si abbina bene a cibi più saporiti come formaggi media stagionatura, carni rosse - i wurstel di maiale di prima - e pizze con farciture ricche. Luca aveva scelto di abbinarla invece a delle alette di pollo parecchio speziate (buonissime, se passate da Udine fatevele preparare dallo chef), che personalmente avrei invece visto andare a pennello con la Lupus; di opinione diversa è stato invece Enrico, che ha apprezzato come la Liquidambra "sgrassi" - e dato che la pelle se l'è pappata tutta lui, perché "è così buona, così croccante", si capisce che ne sentisse il bisogno. Ultima nota, ammetto di non aver colto il leggero agrumato dato dai luppoli americani di cui aveva parlato Severino: pazienza, vorrà dire che non ho il palato sufficientemente sensibile.

Dulcis in fundo la Orzobruno, una scura di 8 gradi, per la quale Severino ha raccontato di essersi ispirato alle brune belghe ma cercando degli aromi tostati più delicati, che virassero verso cacao frutta secca. In effetti l'aroma è quasi assente, e anche il corpo non è affatto impegnativo nonostante il gado. Severino suggeriva di abbinarla a cacciagione, formaggi erborinati e dolci come il birramisù, il tiramisù alla birra - di cui aveva offerto un ottimo esempio lo chef Simone Bertaggia, descritto in questo post. In effetti la persistenza di caffè chiedeva prepotentemente un vezzo di questo genere, che però non è stato servito (vabbè, a onor del vero già al Portello avevano sfornato tre piatti, sarebbe stato pretendere troppo): ahò, Luca, quand'è che ce lo prepari?

martedì 4 febbraio 2014

Rhex, parte quinta: rotolando verso Sud

Per finire questa rassegna in maniera geograficamente coerente, arriviamo in quel di Faicchio, in provincia di Benevento, con la Saint John's Beer: come ho detto al mastro birraio - dagli inaspettati occhi azzurri, che in Campania non si vedono spesso - non mi era mai capitato di assaggiare birre brassate nel meridione. Per cui per me si trattava di una novità, per quanto il luogo in cui è fisicamente collocato il birrificio - se non per l'acqua utilizzata o per qualche particolare tradizione locale - non sia necessariamente significativo.

Il St. John's vanta un'esperienza discretamente lunga, essendo partito nel 1999 con i fratelli Gianni e mario Di Lunardo: anni in cui hanno avuto modo di affinare la tecnica e di applicarla a cinque tipi di birre - forse relativamente pochi, ma l'importante è fare bene il lavoro: non a caso, secondo molti, il segreto è appunto quello di concentrare gli sforzi.  Si va infatti dalla classica Weiss, alla Kolsh, alla Marzen; per finire con la Tripel e la Dark Ale, le due che hanno più delle altre suscitato la mia curiosità.


Come resistere infatti al fascino del triplo malto, specie se vengono pure a dirti che la birra in questione viene prodotta seguendo una ricetta segreta? Di una tonalità insolitamente dorata, colpisce sin dall'aroma che, per quanto non definirei "fruttato" come nella descrizione ripostata nella brochure, indubbiamente ho trovato caldo e avvolgente. Encomiabile anche l'equilibrio con la luppolatura, cosa non sempre scontata nelle triplo malto, che la rende molto beverina nonostante i sette gradi e mezzo. Insomma, che 'sta ricetta segreta se la tengano ben stretta. Particolare anche la Dark Ale, per le note di cioccolato che ho trovato più accentuate che in altre birre dello stesso genere, e il corpo ben robusto grazie alla notevole tostatura.

La chicca però è stata l'anteprima che è arrivata da una botticella lì accanto: l'aceto alla birra, ancora non entrato in produzione, ma di cui Enrico è riuscito a "strappare" un assaggio. Un'idea che onestamente non avevo mai sentito prima, e che chissà a che scenari potrebbe portare. Com'era? Beh, chiedetelo ad Enrico...

lunedì 3 febbraio 2014

Rhex, parte quarta: attenti al lupo

La tappa successiva, spostandoci un po' verso sud, è stata in Toscana: nella fattispecie a Montelupo Fiorentino, paese da cui prende il nome il birrificio - appunto - Montelupo. Aperto nel 2008, a sentire i mastri birrai sta avendo un discreto successo: tanto che la produzione aumenta del 30-40% ogni anno, e vanta un parco birre di dieci tipi diversi. Il Rhex, peraltro, è stata l'occasione per lanciarne tre di nuove, della linea "Border X": la pilsner, la nera e la weizen.

Ammetto che è stato un piacere già il solo farsi descrivere le birre: l'accento toscano, checché se ne dica, esercita sempre il suo fascino - e non sto parlando della classica gag della "coca cola con la cannuccia corta"-, con quella cadenza che evoca letture dantesche e splendori d'altri tempi. Anche le descrizioni in sé, comunque, di curiosità nel suscitavano parecchia: meglio la Famelica, una strong ale dalla maltatura decisa con sapori fruttati? La Luponero, classica stout dagli aromi di liquirizia e caffè? O la Blues's Wolf, una scotch ale dal sapore affumicato?


Alla fine, rievocando il capitolo "Altri mondi" del birrificio italiano, la mia scelta è caduta su quella più insolita: la Re Tartù, una ale al tartufo fortemente aromatizzata. Forse anche troppo, per i miei gusti: ho trovato infatti che il sapore del tartufo coprisse quasi del tutto quello della birra, risultando a mio avviso eccessivo. Così come eccessivo sarebbe stato probabilmente abbinarla ad un pecorino al tartufo come suggeriva il mastro birraio, perché credo che l'effetto più che "sgrassare" sarebbe stato di caricare troppo.

Era ancora presto, però, per dirmi delusa: lì accanto stava infatti una botticella, sulla quale si è posato il mio sguardo interrogativo. "Questa però è roba forte", mi ha avvisato il mastro: nella fattsipecie la Hogmanay, un barley wine di 12 gradi barricato in botti di rovere francese per sei mesi. Ormai che c'ero, tanto valeva: ingoiato un tarallo giusto per limitare i danni dell'alcol, me ne sono fatta fare un assaggio. E qui devo dire che il Montelupo ha dato del suo meglio: liquorosa, ma non così tanto da risultare pesante, i profumi speziati preparano bene ad assaporarne il corpo caldo a cui la maturazione nelle botti ha dato il suo tocco speciale. Da sorseggiare con moderazione quasi fosse un whishey, certo: ma vale la pena fare lo sforzo...