Forse chi di voi conosce me e famiglia, avrà immaginato che la birra in regalo di cui avevo parlato nel penultimo post fosse per mio fratello, neo dottore in ingegneria industriale. Glie l'ho portata il giorno della proclamazione, ma, in ossequio alla massima secondo cui chi beve senza offrire all'inferno va a finire, ha gentilmente atteso che fosse presente anche Enrico - che quel giorno non c'era - per stappare. Del resto, l'aveva detto anche Matilde: quella è una birra che va condivisa, perché è così corposa che berla tutta da soli diventa impegnativo.
Trattasi di una Embrasse del birrificio De Dochter, direttamente dalle Fiandre in produzione limitata con tanto di bottiglia numerata: una scura in stile belga prodotta - come magnifica l'etichetta - usando esclusivamente malti, senza alcuna aggiunta di zucchero - e ce ne devono essere parecchi se raggiunge i 20 gradi plato (per i non adepti, l'unità di misura della densità di zuccheri disciolti: per avere un termine di paragone, una birra "normale" ne ha attorno ai 12). Come direbbe il buon Gino del Foglie d'Erba, comunque, tanto meglio: se usi il malto invece che lo zucchero per fare grado (alcolico, questa volta) vuol dire che dà meno alla testa.
Già all'aroma le peculiarità si notano: sembra quasi di avere a che fare con un vino o con un liquore, più che con una birra. In quanto al gusto, mi sono trovata scherzosamente a definirla la versione alcolica - 9 gradi, per la precisione - dell'orzo caldo che tante volte mi faccio la sera: perché davvero il malto è così preponderante da far sentire quasi esclusivamente l'orzo, che rimane quasi intatto al retrogusto. Retrogusto che comunque non è affatto dolce, perché a quel punto fa finalmente capolino quella punta di luppolo che lascia - senza però alcuna connotazione negativa in questo caso - l'amaro in bocca.
Una birra da intenditori, insomma: buona, ma da bere con cognizione di causa e moderazione, perché è così corposa che ogni sorso è un impegno - e l'alcol si sente tutto, per quanto mi tocchi ancora una volta dar ragione a Gino sul fatto che il problema in realtà è lo zucchero.
Detto ciò, è ora di spiegare il titolo di questo post: spento il computer partirò per un trekking di due settimane in Nepal, insieme a mio fratello. Il programma prevede di raggiungere al campo base dell'Himlung due amici di nostro padre, e quindi proseguire con loro attorno all'Annapurna attraverso il Mustang: un tragitto particolarmente interessante in quanto tocca zone da poco aperte al turismo, e quindi pressoché sconosciute. Che dire? Ci rivediamo su questi schermi tra due settimane, e chissà com'e la birra in Nepal...
Il mio blog di avventure birrarie, descrizioni di birre, degustazioni, e notizie dal mondo della birra artigianale.
mercoledì 16 ottobre 2013
lunedì 14 ottobre 2013
Gelato a quattro zampe
Sì, lo so, avevo promesso di ritornare sulla questione birra: ma quando
si trova qualcosa di curioso, non si può stare zitti...Era da un po' di
tempo che volevo fermarmi al Dolce Gelato, in Via Vittorio Veneto a Udine, non solo perché pubblicizza una seri e di gusti vegani e gusti salati, ma anche perché invita a provare il "Dolce Bau": e che sarà mai, un gelato per cani? Già, lo ammetto, i negozi che vendono amenità per quadrupedi mi hanno sempre lasciata piuttosto perplessa: non perché abbia qualcosa in contrario al fatto che un umano si prenda cura del suo canide o del suo felino, ma perché ritengo che ci siano modi più sensati di farlo che investire in un cappottino in taffetà scozzese per cihuahua. Ma che qualcuno si sia inventato pure il gelato per cani, beh, mi sembrava eccessivo.
Così finalmente sono entrata, chiedendo per prima cosa delucidazioni sui gusti vegani. Il buon titolare - tal Paolo Dolce, un cognome un programma, come lui stesso ha ammesso - mi ha così spiegato come produce i gusti senza latte, usando come di consueto in questi casi latte di soia o addensanti. Addensanti, ha sottolineato, "del tutto naturali, come la farina di carrube: che peraltro fa pure bene, essendo ricca di fibre".
La curiosità però in realtà era appunto quella del Dolce Bau: e no, non mi ero sbagliata, è davvero un gelato per cani. Più che una bizzarria, una vera e propria idea di business: il nostro ha notato come molti padroni con cane al seguito entrassero in gelateria, con il fedele amico che attendeva anche lui la sua parte; peccato però, mi ha spiegato, che né lo zucchero, né i derivati del latte né il cioccolato siano propriamente un toccasana per il miglior amico dell'uomo. Così fiutando - letteralmente - l'affare ha elaborato un gelato salato alla vaniglia senza latte, facendolo testare ai diretti interessati per perfezionarlo fino a giungere alla ricetta definitiva. Insomma, un'opera di bene per animali e padroni da un lato, e un'ottima trovata per la gelateria dall'altro.
"Che cosa posso farti assaggiare?", ha gentilmente chiesto a quel punto. Non ho avuto il coraggio di chiedergli il Dolce Bau, per quanto morissi dalla curiosità e sia perfettamente commestibile anche per gli umani; così ho provato la nocciola più, ossia la versione vegana del gusto classico. Indubbiamente si nota che il gusto è più intenso, perché non "diluito" nel latte; così come nel caso del cioccolato, per quanto personalmente continui a sostenere che è sempre meglio una buona tavoletta. Unica pecca, per un'appassionata di gusti alla frutta come me, è che ce ne sono pochi - ho trovato soltanto fragola e limone; ad ogni modo non mancano le curiosità, come la croccamela (vaniglia, mela e cereali), il cremino, e il caramello fleur de sel.
La prossima frontiera di Paolo, infatti, sono i gelati salati, proposti magari come abbinamento gastronomico a qualcos'altro o a un buon bicchiere di vino per un aperitivo: per le novità, non c'è che da rimanere sintonizzati...
Così finalmente sono entrata, chiedendo per prima cosa delucidazioni sui gusti vegani. Il buon titolare - tal Paolo Dolce, un cognome un programma, come lui stesso ha ammesso - mi ha così spiegato come produce i gusti senza latte, usando come di consueto in questi casi latte di soia o addensanti. Addensanti, ha sottolineato, "del tutto naturali, come la farina di carrube: che peraltro fa pure bene, essendo ricca di fibre".
La curiosità però in realtà era appunto quella del Dolce Bau: e no, non mi ero sbagliata, è davvero un gelato per cani. Più che una bizzarria, una vera e propria idea di business: il nostro ha notato come molti padroni con cane al seguito entrassero in gelateria, con il fedele amico che attendeva anche lui la sua parte; peccato però, mi ha spiegato, che né lo zucchero, né i derivati del latte né il cioccolato siano propriamente un toccasana per il miglior amico dell'uomo. Così fiutando - letteralmente - l'affare ha elaborato un gelato salato alla vaniglia senza latte, facendolo testare ai diretti interessati per perfezionarlo fino a giungere alla ricetta definitiva. Insomma, un'opera di bene per animali e padroni da un lato, e un'ottima trovata per la gelateria dall'altro.
"Che cosa posso farti assaggiare?", ha gentilmente chiesto a quel punto. Non ho avuto il coraggio di chiedergli il Dolce Bau, per quanto morissi dalla curiosità e sia perfettamente commestibile anche per gli umani; così ho provato la nocciola più, ossia la versione vegana del gusto classico. Indubbiamente si nota che il gusto è più intenso, perché non "diluito" nel latte; così come nel caso del cioccolato, per quanto personalmente continui a sostenere che è sempre meglio una buona tavoletta. Unica pecca, per un'appassionata di gusti alla frutta come me, è che ce ne sono pochi - ho trovato soltanto fragola e limone; ad ogni modo non mancano le curiosità, come la croccamela (vaniglia, mela e cereali), il cremino, e il caramello fleur de sel.
La prossima frontiera di Paolo, infatti, sono i gelati salati, proposti magari come abbinamento gastronomico a qualcos'altro o a un buon bicchiere di vino per un aperitivo: per le novità, non c'è che da rimanere sintonizzati...
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sabato 12 ottobre 2013
Una canzone per non dimenticare
E' giunta ieri la notizia della morte di Erik Priebke, tra i principali responsabili della strage delle Fosse Ardeatine. Non mi permetto di giudicare sul fatto se un criminale mai pentito - almeno così si riferisce - vada semplicemente consegnato all'oblio della storia, come forma estrema di condanna dei suoi atti; certo è che vanno ricordate le vittime, perché purtroppo simili episodi si sono ripetuti anche alle porte di casa nostra - basti pensare alla guerra dei Balcani - e continuano a ripetersi in chissà quanti altri conflitti sconosciuti.
Per questo, nell'augurarvi comunque un buon fine settimana al di là del post piuttosto cupo, oggi lascio da parte la birra e mi permetto di riportarvi qui sotto il link al video di una canzone del musicista e cantautore romano - nonché caro amico - Giacomo Lariccia, di cui avevo già parlato in questo post: è la storia di una delle vittime di quell'eccidio, Renzo Giorgini, che venne prelevato insieme ad altri dalla prigione di via Tasso dove si trovava da qualche giorno. Le parole raccontano della sua cattura a via Ripetta e di quando sua figlia, ossia la nonna di Giacomo, lo vide andare via scortato dai soldati tedeschi.
Credo non serva aggiungere altro: ora facciamo silenzio e lasciamo parlare queste note. Grazie Giacomo, che ci hai fatto ricordare in maniera così delicata quest'episodio della nostra storia.
http://www.youtube.com/watch?v=CCbYoF_7vMQ
Per questo, nell'augurarvi comunque un buon fine settimana al di là del post piuttosto cupo, oggi lascio da parte la birra e mi permetto di riportarvi qui sotto il link al video di una canzone del musicista e cantautore romano - nonché caro amico - Giacomo Lariccia, di cui avevo già parlato in questo post: è la storia di una delle vittime di quell'eccidio, Renzo Giorgini, che venne prelevato insieme ad altri dalla prigione di via Tasso dove si trovava da qualche giorno. Le parole raccontano della sua cattura a via Ripetta e di quando sua figlia, ossia la nonna di Giacomo, lo vide andare via scortato dai soldati tedeschi.
Credo non serva aggiungere altro: ora facciamo silenzio e lasciamo parlare queste note. Grazie Giacomo, che ci hai fatto ricordare in maniera così delicata quest'episodio della nostra storia.
http://www.youtube.com/watch?v=CCbYoF_7vMQ
venerdì 11 ottobre 2013
La birra del conclave
Dopo una lunga deviazione in terreno gastronomico, eccomi ritornata all'ovile - ossia alle birre, e più specificatamente alla Brasserie. Veramente eravamo andati lì con i migliori propositi, ossia comprare una bottiglia a scopo regalo, bere qualcosa di veloce giusto per la compagnia, e andarcene; ma poi abbiamo casualmente trovato lì il nostro buon amico Giovanni - arrivato nel locale perfettamente insieme a noi: mai successo che ci incontrassimo con puntualità - insieme ad un collega, e la serata ha preso tutt'altra piega.
Ultimamente in Brasserie sono arrivate diverse birre nuove, per cui l'imbarazzo della scelta era più pesante del solito; ma per pura curiosità mi sono diretta subito su di un birrificio che non conoscevo, l'Extra Omnes, di cui troneggiavano in frigorifero una serie di bottiglie dalle descrizioni l'una più bizzarra dell'altra. Meglio la Zest, "dorata con "vibrazioni" verdi, con un netto fruttato maturo di pesca noce bianca, uva spina e litchi quasi a coprire una delicata speziatura"? Oppure la Bruin, dalla schiuma "color cappuccino" con "dolci tostature olfattive di polvere di cacao e cioccolato amaro che vengono esaltate dal fruttato di marrons glacés"? O forse la Hopbloem, di cui "al naso spiccano i riconoscimenti di citronella, melissa e di un fruttato che vira dall''agrumato al tropicale"?
Alla fine a convincermi è stata la Migdal Bavel, se non altro per la lista di gusti e profumi che esibiva - e che mi ha ricordato un po' la Pannepot, non tanto per i sapori che sono diversi, quanto appunto per la loro ricchezza: "Schiuma bianca molto compatta. Dorato brillante con un netto riflesso rame. Spezie, incenso, lime, cera d’api. In bocca si alternano l’amaro vegetale del luppolo, verticale e svelto, con quello semantico della mirra, profondo e persistente". Della serie, va bene le spezie, ma l'incenso, la cera e la mirra non mi erano proprio mai capitate: unite al nome del birrificio - la frase pronunciata all'inizio del conclave, quando i cardinali fanno uscire tutti dalla Cappella Sistina - ce n'era di che soprannominarla una birra, se non papale, quantomeno ecclesiastica.
Devo dire che l'aroma non ha deluso: avvicinando il naso al bicchiere, la girandola di profumi era davvero unica, e allo stesso tempo così ben amalgamata che non avrei saputo nemmeno distinguere bene l'uno dall'altro se non mi fossi aiutata con la descrizione - e vabbè, sarò pure una principiante...A lasciarmi un po' perplessa è purtroppo stato il sapore: non perché sia deludente, anzi, la luppolatura è notevole e piacevolmente dissetante; ma piuttosto perché tutti quegli aromi che avevano stuzzicato l'olfatto sembrano sparire, salvo poi ritornare almeno in parte al retrogusto. Insomma, dulcis in fundo, volendo rimanere nel latino. In tutto e per tutto, comunque, una birra da provare, così come credo lo siano anche le altre della casa.
Enrico invece, giusto per rimanere in tema papale, ha scelto senza esitazioni la Gregorius: una birra trappista prodotta però in Austria, che aveva stuzzicato anche me, ma mi aveva scoraggiata con i suoi 10 gradi dopo l'esperienza di difficile nottata post Pannepot. E in effetti qualcosa in comune con la Pannepot oltre al grado ce l'ha - ovviamente l'ho assaggiata, che credete? -: anche questa è scura, dalla schiuma pannosa, e dal gusto tostato tendente al caramello e al miele. Però non è speziata, e il finale è notevolmente più liquoroso: pienamente nelle corde di Enrico dunque, che predilige le birre di questo genere, e meno nelle mie. Insomma, perfetta a parte questo.
A chiudere la serata, la curiosità per la birra che avevamo comprato per un regalo e che speriamo che il beneficiario ci faccia assaggiare: ma questa è un'altra storia, sennò gli roviniamo la sorpresa...
Ultimamente in Brasserie sono arrivate diverse birre nuove, per cui l'imbarazzo della scelta era più pesante del solito; ma per pura curiosità mi sono diretta subito su di un birrificio che non conoscevo, l'Extra Omnes, di cui troneggiavano in frigorifero una serie di bottiglie dalle descrizioni l'una più bizzarra dell'altra. Meglio la Zest, "dorata con "vibrazioni" verdi, con un netto fruttato maturo di pesca noce bianca, uva spina e litchi quasi a coprire una delicata speziatura"? Oppure la Bruin, dalla schiuma "color cappuccino" con "dolci tostature olfattive di polvere di cacao e cioccolato amaro che vengono esaltate dal fruttato di marrons glacés"? O forse la Hopbloem, di cui "al naso spiccano i riconoscimenti di citronella, melissa e di un fruttato che vira dall''agrumato al tropicale"?
Alla fine a convincermi è stata la Migdal Bavel, se non altro per la lista di gusti e profumi che esibiva - e che mi ha ricordato un po' la Pannepot, non tanto per i sapori che sono diversi, quanto appunto per la loro ricchezza: "Schiuma bianca molto compatta. Dorato brillante con un netto riflesso rame. Spezie, incenso, lime, cera d’api. In bocca si alternano l’amaro vegetale del luppolo, verticale e svelto, con quello semantico della mirra, profondo e persistente". Della serie, va bene le spezie, ma l'incenso, la cera e la mirra non mi erano proprio mai capitate: unite al nome del birrificio - la frase pronunciata all'inizio del conclave, quando i cardinali fanno uscire tutti dalla Cappella Sistina - ce n'era di che soprannominarla una birra, se non papale, quantomeno ecclesiastica.
Devo dire che l'aroma non ha deluso: avvicinando il naso al bicchiere, la girandola di profumi era davvero unica, e allo stesso tempo così ben amalgamata che non avrei saputo nemmeno distinguere bene l'uno dall'altro se non mi fossi aiutata con la descrizione - e vabbè, sarò pure una principiante...A lasciarmi un po' perplessa è purtroppo stato il sapore: non perché sia deludente, anzi, la luppolatura è notevole e piacevolmente dissetante; ma piuttosto perché tutti quegli aromi che avevano stuzzicato l'olfatto sembrano sparire, salvo poi ritornare almeno in parte al retrogusto. Insomma, dulcis in fundo, volendo rimanere nel latino. In tutto e per tutto, comunque, una birra da provare, così come credo lo siano anche le altre della casa.
Enrico invece, giusto per rimanere in tema papale, ha scelto senza esitazioni la Gregorius: una birra trappista prodotta però in Austria, che aveva stuzzicato anche me, ma mi aveva scoraggiata con i suoi 10 gradi dopo l'esperienza di difficile nottata post Pannepot. E in effetti qualcosa in comune con la Pannepot oltre al grado ce l'ha - ovviamente l'ho assaggiata, che credete? -: anche questa è scura, dalla schiuma pannosa, e dal gusto tostato tendente al caramello e al miele. Però non è speziata, e il finale è notevolmente più liquoroso: pienamente nelle corde di Enrico dunque, che predilige le birre di questo genere, e meno nelle mie. Insomma, perfetta a parte questo.
A chiudere la serata, la curiosità per la birra che avevamo comprato per un regalo e che speriamo che il beneficiario ci faccia assaggiare: ma questa è un'altra storia, sennò gli roviniamo la sorpresa...
mercoledì 9 ottobre 2013
La meraviglia della grappa del Collio
Domenica scorsa, su invito dell'amica wineblogger Elena Roppa di It's a wine world, sono stata a Rosso DiVino, una degustazione - come il nome stesso lascia intuire - organizzata dalla cantina Ronc Soreli di Prepotto. Veramente il vino in sé e per sé non mi entusiasma, ma non sia mai che si rifiuti un invito; tanto più che di contorno alle degustazioni ci sarebbe stato un mercatino di prodotti artigianali ed enogastronomici locali, che sicuramente avrebbe meritato un'occhiata. Così mi sono avventurata con Enrico ed una famiglia di amici, sfidando le condizioni meteo non proprio promettenti.
Non mi lancerò in dotte dissertazioni sulla qualità dei vini, pena il rischio di uscirmene con delle enormi corbellerie: non è il mio lavoro, lasciamolo fare a chi ne sa - come appunto Elena. Mi esprimerò piuttosto sul resto delle bancarelle presenti, di cui alcune parecchio curiose: ad attirare l'attenzione di Enrico è stato un antiquario che esponeva gli oggetti più bizzarri, da vecchi ferri da stiro a candelabri; una signora che lavorava il feltro, realizzando accessori per la casa e per l'abbigliamento; nonché il banco della latteria di Savorgnano, che offriva tre tipi di formaggio davvero particolari - un gorgonzola stagionato, un ubriaco e un frant aromatizzato al cren, la vera chicca della casa.
Ad attirare la mia è invece stata piuttosto la pasticceria Giudici di Trieste, lì rappresentata dal buon Alessandro, ormai alla terza generazione di pasticceri: ad iniziare è stato il nonno, 33 anni fa, mentre lui ha le mani in pasta - letteralmente - da 15. La pasticceria offriva tra le sue creazioni tre tipi di biscotti: al cioccolato bianco e tè earl grey, al cioccolato bianco e caffè - "Altresì detti al capo-in-b", come chiamano a Trieste il macchiato servito nel bicchiere - e al cioccolato e fior di sale. Se i primi non mi hanno del tutto convinta, perché il cioccolato era un po' troppo marcato per i miei gusti, con i secondi ho dovuto ammettere che i due sapori si sposano davvero bene; mentre i terzi, che all'inizio lasciano intendere soltanto il cioccolato, al retrogusto - come una buona birra, mi verrebbe da dire - riservano la sorpresa di una punta di salato veramente spettacolare. Insomma: se sui primi si può fare di meglio e sui secondi si comincia a ragionare, i terzi sono il pezzo unico.
Lì accanto c'era però anche una sorta di tortino, a proposito del quale una signora ha chiesto "E questo come si chiama, Meraviglia?". "A dire il vero, non ci ho ancora dato un nome" ha risposto Alessandro. Al che il mio alter ego Chiara-faccia-di-bronzo ha preso possesso di me, chiedendo spudoratamente un assaggio pur avendo già ampiamente pascolato sui biscotti. Devo dire che ne è valsa la pena: trattasi infatti di un tortino di cioccolato, frutta secca e grappa del collio. Quest'ultima la definirei il segreto della ricetta, perché dà alla pasta un aroma che non avevo mai trovato prima: se vi piace la grappa del collio, tanto meglio perché il sapore è molto marcato, ma anche se non vi piace fidatevi che ne vale la pena, perché accompagna in maniera egregia il resto dei sapori. Insomma, se i romani dicevano "dulcis in fundo" perché il meglio sta alla fine, un motivo ci sarà...
Non mi lancerò in dotte dissertazioni sulla qualità dei vini, pena il rischio di uscirmene con delle enormi corbellerie: non è il mio lavoro, lasciamolo fare a chi ne sa - come appunto Elena. Mi esprimerò piuttosto sul resto delle bancarelle presenti, di cui alcune parecchio curiose: ad attirare l'attenzione di Enrico è stato un antiquario che esponeva gli oggetti più bizzarri, da vecchi ferri da stiro a candelabri; una signora che lavorava il feltro, realizzando accessori per la casa e per l'abbigliamento; nonché il banco della latteria di Savorgnano, che offriva tre tipi di formaggio davvero particolari - un gorgonzola stagionato, un ubriaco e un frant aromatizzato al cren, la vera chicca della casa.
Ad attirare la mia è invece stata piuttosto la pasticceria Giudici di Trieste, lì rappresentata dal buon Alessandro, ormai alla terza generazione di pasticceri: ad iniziare è stato il nonno, 33 anni fa, mentre lui ha le mani in pasta - letteralmente - da 15. La pasticceria offriva tra le sue creazioni tre tipi di biscotti: al cioccolato bianco e tè earl grey, al cioccolato bianco e caffè - "Altresì detti al capo-in-b", come chiamano a Trieste il macchiato servito nel bicchiere - e al cioccolato e fior di sale. Se i primi non mi hanno del tutto convinta, perché il cioccolato era un po' troppo marcato per i miei gusti, con i secondi ho dovuto ammettere che i due sapori si sposano davvero bene; mentre i terzi, che all'inizio lasciano intendere soltanto il cioccolato, al retrogusto - come una buona birra, mi verrebbe da dire - riservano la sorpresa di una punta di salato veramente spettacolare. Insomma: se sui primi si può fare di meglio e sui secondi si comincia a ragionare, i terzi sono il pezzo unico.
Lì accanto c'era però anche una sorta di tortino, a proposito del quale una signora ha chiesto "E questo come si chiama, Meraviglia?". "A dire il vero, non ci ho ancora dato un nome" ha risposto Alessandro. Al che il mio alter ego Chiara-faccia-di-bronzo ha preso possesso di me, chiedendo spudoratamente un assaggio pur avendo già ampiamente pascolato sui biscotti. Devo dire che ne è valsa la pena: trattasi infatti di un tortino di cioccolato, frutta secca e grappa del collio. Quest'ultima la definirei il segreto della ricetta, perché dà alla pasta un aroma che non avevo mai trovato prima: se vi piace la grappa del collio, tanto meglio perché il sapore è molto marcato, ma anche se non vi piace fidatevi che ne vale la pena, perché accompagna in maniera egregia il resto dei sapori. Insomma, se i romani dicevano "dulcis in fundo" perché il meglio sta alla fine, un motivo ci sarà...
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martedì 8 ottobre 2013
Gusti di frontiera, parte quinta: da Napoli alla Slovenia, la bontà del pane
Sì, lo so, avevo detto che mancava soltanto la via con gli stand italiani: ma si sa, in questi casi si va un po' a zig zag, per cui capita di deviare a seconda di dove porta, più che il cuore, la gola. Ma andiamo con ordine...
Dopo una lunga serie di taralli ed altre simili amenità pugliesi, a farmi fermare per capirne di più è stata la bancarella della pizzeria ristorante Al Cavallino, che porta ai goriziani le specialità napoletane. Diciamocelo: dopo la mia (unica) gita nel capoluogo partenopeo con i colleghi di Città Nuova, già mi pregustavo una fetta di pastiera o una sfogliatella (rigorosamente frolla, grazie: inorridirò i puristi, ma la riccia non è di mio gradimento). Invece la signora dietro al banco mi ha messo tra le mani un perfetto sconosciuto, il casatiello: un'impasto di farina, lievito, acqua, sale, pepe, strutto, uova sode, salame, ciccioli di maiale, formaggio - "caso" in dialetto napoletano, da cui il nome -, che si usava fare in occasione della Pasqua (per ristorarsi dal digiuno quaresimale, oso supporre). Il formaggio peraltro, ha spiegato la signora, deve essere rigorosamente pecorino: sta lì infatti la simbologia dell'agnello, che insieme alle uova lo lega appunto alla Risurrezione; così come la forma a ciambella ricorderebbe la corona di spine, "distrutta" man mano che il casatiello viene mangiato. Insomma, ce n'è per un trattato di teologia oltre che di cucina. Devo ammettere che si tratta di una pietanza un po' troppo "forte" per me, sia in termini di sapore - il pecorino è davvero molto accentuato - che di digestione; però la genuinità non è in discussione, e spero di avere occasione, passando per Gorizia, di assaggiare un'altra delle creazioni del Cavallino: magari le pizze, dato che ne contano ben 65 in listino.
Chicca finale della giornata è stato però un banchetto di legno piuttosto defilato, dietro a cui stavano madre e figlia: quello del panificio biologico Nonina spaiza di Zirovnica, in Slovenia. Amanti del pane non "convenzionale", questo è il posto per voi: da quello al farro, a quello alle noci, a quello all'aglio selvatico - la specialità della casa -, ce n'è di che sbizzarrirsi. Idem per i biscotti: al farro e arancia, alle noci e segale, al cioccolato, con ingredienti tutti provenienti dall'azienda agricola di famiglia e rigorosamente biologici. A garanzia della genuinità delle marmellate, la madre di cui sopra, vera artista della cucina: raccoglie personalmente le bacche e i mirtilli - almeno così ha raccontato la figlia -, e insegna i segreti della buona confettura anche ad altre ragazze del paese. Una dimensione che in tanti luoghi si sta perdendo, ma che è l'unica garanzia di preservazione di un sapere atavico che ci salva dalle gelatine industriali e dalla pectina...
Dopo una lunga serie di taralli ed altre simili amenità pugliesi, a farmi fermare per capirne di più è stata la bancarella della pizzeria ristorante Al Cavallino, che porta ai goriziani le specialità napoletane. Diciamocelo: dopo la mia (unica) gita nel capoluogo partenopeo con i colleghi di Città Nuova, già mi pregustavo una fetta di pastiera o una sfogliatella (rigorosamente frolla, grazie: inorridirò i puristi, ma la riccia non è di mio gradimento). Invece la signora dietro al banco mi ha messo tra le mani un perfetto sconosciuto, il casatiello: un'impasto di farina, lievito, acqua, sale, pepe, strutto, uova sode, salame, ciccioli di maiale, formaggio - "caso" in dialetto napoletano, da cui il nome -, che si usava fare in occasione della Pasqua (per ristorarsi dal digiuno quaresimale, oso supporre). Il formaggio peraltro, ha spiegato la signora, deve essere rigorosamente pecorino: sta lì infatti la simbologia dell'agnello, che insieme alle uova lo lega appunto alla Risurrezione; così come la forma a ciambella ricorderebbe la corona di spine, "distrutta" man mano che il casatiello viene mangiato. Insomma, ce n'è per un trattato di teologia oltre che di cucina. Devo ammettere che si tratta di una pietanza un po' troppo "forte" per me, sia in termini di sapore - il pecorino è davvero molto accentuato - che di digestione; però la genuinità non è in discussione, e spero di avere occasione, passando per Gorizia, di assaggiare un'altra delle creazioni del Cavallino: magari le pizze, dato che ne contano ben 65 in listino.
Chicca finale della giornata è stato però un banchetto di legno piuttosto defilato, dietro a cui stavano madre e figlia: quello del panificio biologico Nonina spaiza di Zirovnica, in Slovenia. Amanti del pane non "convenzionale", questo è il posto per voi: da quello al farro, a quello alle noci, a quello all'aglio selvatico - la specialità della casa -, ce n'è di che sbizzarrirsi. Idem per i biscotti: al farro e arancia, alle noci e segale, al cioccolato, con ingredienti tutti provenienti dall'azienda agricola di famiglia e rigorosamente biologici. A garanzia della genuinità delle marmellate, la madre di cui sopra, vera artista della cucina: raccoglie personalmente le bacche e i mirtilli - almeno così ha raccontato la figlia -, e insegna i segreti della buona confettura anche ad altre ragazze del paese. Una dimensione che in tanti luoghi si sta perdendo, ma che è l'unica garanzia di preservazione di un sapere atavico che ci salva dalle gelatine industriali e dalla pectina...
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lunedì 7 ottobre 2013
Gusti di frontiera, parte quarta: di qua e di là del confine
Come dicevo, nella piazza davanti alla chiesa - da cui mi avevano cacciata, nonostantre la pioggia, perché stavano chiudendo.....neanche lì mi vogliono più - c'erano una serie di stand, perlopiù di prodotti caseari. Soffermarsi sulla girandola di caprini e canestrati di qualunque aromatizzazione, dall'alloro ai funghi porcini, provenienti da qualsiasi zona d'Italia, sarebbe lungo; a colpirmi è stata però soprattutto la ricotta dell'azienda agrituristica pri Lovrcu di Tolmin - da noi conosciuta come Tolmino -, in Slovenia.
Scordatevi lo stereotipo del vecchio agricoltore o del vecchio casaro: almeno quelli al gazebo avranno avuto tutti sui trent'anni, ed esibivano una serie di formaggi, tra cui spiccavano appunto le ricotte l'una più fresca e l'altra più stagionata. Se pensavate di sapete cos'è la ricotta fresca, ricredetevi: questa è davvero di una cremosità particolare, e per quanto sia più acida di quelle consuete, è proprio questo acidulo a darle un tocco particolare. Per quanto non abbia trovato gli altri formaggi della loro produzione altrettanto spettacolari, dunque, onore al merito e dedichiamo un paragrafo del blog a questa ricotta.
In manifestazioni come queste, basta spostarsi di una via per attraversare il confine: e così, dopo una deviazione in quel di Bruxelles per dare uno sguardo alle bancarelle dei cioccolatini belgi che mi hanno ricordato i tempi felici, ad attirare la mia attenzione è stato lo stand del Liquorificio Italia di Trieste. Non tanto perché c'erano esposte grappe e liquori in crema per davvero tutti i gusti - dalla pesca, all'anice, al cioccolato; ma soprattutto perché in alcune di queste bottiglie fluttuavano, rimanendo in sospensione, delle scagliette di cocco e dei semini di anice.
Incuriosita, mi sono fatta spiegare dalla ragazza al banco quale fosse il segreto: da che mondo è mondo, l'aromatizzazione sta sul fondo - e perdonate la rima. La risposta si chiama pectina, l'addensante comunemente usato anche per le marmellate: in questo modo la soluzione alcolica diventa viscosa, e ciò che vi viene immerso - in questo caso cocco, ribes e anice, i tre gusti disponibili in questa linea - rimane sospeso creando una sorta di "disegno" all'interno della bottiglia davvero curioso a vedersi. Insomma, un'ottima trovata commerciale, che forse lascerà perplessi i puristi, ma sicuramente avrà convinto più di qualcuno a comprare una bottiglia.
Del resto, è pure buona: la ragazza mi ha gentilmente fatto assaggiare il liquore al cocco, e devo dire che le scagliette in sospensione lo rendono davvero particolare anche al gusto. Buone anche le creme - la giovane ha insistito per farmene provare almeno una, nella fattispecie quella al pistacchio - anche se non le ho trovate altrettanto notevoli.
Ormai si stava facendo tardi, per cui ho dovuto affrettare il passo: mi aspettava l'ultima via, sempre con prodotti tipici italiani...
Scordatevi lo stereotipo del vecchio agricoltore o del vecchio casaro: almeno quelli al gazebo avranno avuto tutti sui trent'anni, ed esibivano una serie di formaggi, tra cui spiccavano appunto le ricotte l'una più fresca e l'altra più stagionata. Se pensavate di sapete cos'è la ricotta fresca, ricredetevi: questa è davvero di una cremosità particolare, e per quanto sia più acida di quelle consuete, è proprio questo acidulo a darle un tocco particolare. Per quanto non abbia trovato gli altri formaggi della loro produzione altrettanto spettacolari, dunque, onore al merito e dedichiamo un paragrafo del blog a questa ricotta.
In manifestazioni come queste, basta spostarsi di una via per attraversare il confine: e così, dopo una deviazione in quel di Bruxelles per dare uno sguardo alle bancarelle dei cioccolatini belgi che mi hanno ricordato i tempi felici, ad attirare la mia attenzione è stato lo stand del Liquorificio Italia di Trieste. Non tanto perché c'erano esposte grappe e liquori in crema per davvero tutti i gusti - dalla pesca, all'anice, al cioccolato; ma soprattutto perché in alcune di queste bottiglie fluttuavano, rimanendo in sospensione, delle scagliette di cocco e dei semini di anice.
Del resto, è pure buona: la ragazza mi ha gentilmente fatto assaggiare il liquore al cocco, e devo dire che le scagliette in sospensione lo rendono davvero particolare anche al gusto. Buone anche le creme - la giovane ha insistito per farmene provare almeno una, nella fattispecie quella al pistacchio - anche se non le ho trovate altrettanto notevoli.
Ormai si stava facendo tardi, per cui ho dovuto affrettare il passo: mi aspettava l'ultima via, sempre con prodotti tipici italiani...
domenica 6 ottobre 2013
Gusti di frontiera, parte terza: il gusto della rosa
Dicevamo, per l'appunto, della Rosa di Gorizia: non un fiore, come avevo inizalmente pensato, ma una varietà di radicchio - affermava con orgoglio il dépliant informativo sul banco dello stand - la cui coltivazione è stata documentata per la prima volta nel 1873 dal barone austriaco Carl Von Czoernig, ma che affonda le sue tradizioni in tempi ben più remoti. Chiaro che, essendo originaria della provincia di Treviso, quando si è parlato di radicchio mi si sono campanilisticamente rizzate le orecchie: vorrai mica che quello coltivato a Gorizia sia più buono del nostro?
Mi sono così avvicinata per fare due parole con la ragazza dello stand dell'azienda Rosa di Gorizia della Biolab, che commercializza prodotti vegani pubblicizzati anch'essi allo stand (e che, ironia della sorte, ha sede in Via dei vegetariani 2 a Gorizia). La giovane mi ha assicurato, come facilmente desumibile, che al di là del più o meno buono questo radicchio è semplicemente diverso: non solo nell'aspetto - assomiglia appunto ad una rosa -, ma anche nel gusto, essendo meno amaro. Come tutti gli ortaggi di questo mondo, si tratta di un prodotto stagionale (per quanto spesso ce ne dimentichiamo, essendo abituati a trovare le zucchine al supermercato anche a gennaio): per questo non ha potuto farmene assaggiare di fresco - disponibile tra novembre e metà marzo - ma soltanto di conservato nell'olio extra vergine e tritato in crema da spalmare sui crostini.
Personalmente non l'ho trovato molto meno amaro di quello di Treviso - anche se, a onor del vero, è il prodotto fresco a fare fede più che quello conservato -; però ammetto che non ho potuto fare a meno di pensare che un sapore così richiamava una buona birra, magari una pils per accompagnare il finale amaro, oppure, perché no, un'ambrata per contrastarlo - se la San Gabriel per fare la birra al radicchio usa come base l'ambarata, un motivo ci sarà.
Non sapevo che sarei stata presto accontentata: poco più avanti sono incappata, come a FriuliDoc, nello stand del birrificio Tazebao, dove in buon Giorgio, ancor prima che potessi proferire verbo, mi ha messo tra le mani un bicchiere della loro ambrata. Anche in questo caso, fusto e condizioni climatiche diverse hanno fatto la differenza: l'ho trovata - guarda te la coincidenza - decisamente più amara della volta precedente, per quanto rimanesse ancora riconoscibile. Insomma, abbinamento perfetto.
Rifatto il carico energetico, potevo proseguire: nel resto della piazza, che stava per fortuna cominciando ad animarsi, era aperta qualche bancarella di prodotti sloveni...
Mi sono così avvicinata per fare due parole con la ragazza dello stand dell'azienda Rosa di Gorizia della Biolab, che commercializza prodotti vegani pubblicizzati anch'essi allo stand (e che, ironia della sorte, ha sede in Via dei vegetariani 2 a Gorizia). La giovane mi ha assicurato, come facilmente desumibile, che al di là del più o meno buono questo radicchio è semplicemente diverso: non solo nell'aspetto - assomiglia appunto ad una rosa -, ma anche nel gusto, essendo meno amaro. Come tutti gli ortaggi di questo mondo, si tratta di un prodotto stagionale (per quanto spesso ce ne dimentichiamo, essendo abituati a trovare le zucchine al supermercato anche a gennaio): per questo non ha potuto farmene assaggiare di fresco - disponibile tra novembre e metà marzo - ma soltanto di conservato nell'olio extra vergine e tritato in crema da spalmare sui crostini.
Personalmente non l'ho trovato molto meno amaro di quello di Treviso - anche se, a onor del vero, è il prodotto fresco a fare fede più che quello conservato -; però ammetto che non ho potuto fare a meno di pensare che un sapore così richiamava una buona birra, magari una pils per accompagnare il finale amaro, oppure, perché no, un'ambrata per contrastarlo - se la San Gabriel per fare la birra al radicchio usa come base l'ambarata, un motivo ci sarà.
Non sapevo che sarei stata presto accontentata: poco più avanti sono incappata, come a FriuliDoc, nello stand del birrificio Tazebao, dove in buon Giorgio, ancor prima che potessi proferire verbo, mi ha messo tra le mani un bicchiere della loro ambrata. Anche in questo caso, fusto e condizioni climatiche diverse hanno fatto la differenza: l'ho trovata - guarda te la coincidenza - decisamente più amara della volta precedente, per quanto rimanesse ancora riconoscibile. Insomma, abbinamento perfetto.
Rifatto il carico energetico, potevo proseguire: nel resto della piazza, che stava per fortuna cominciando ad animarsi, era aperta qualche bancarella di prodotti sloveni...
venerdì 4 ottobre 2013
Gusti di frontiera, parte seconda: a casa dell'ape
Ok, l'avrete immaginato: la buonanima successiva che mi ha offerto riparo era un simpatico signore allo stand di una cooperativa di apicoltori goriziani (di Lucinico, per la precisione), La casa dell'ape. Scordatevi il millefiori o l'acacia: per carità, c'erano, "Ma quelle sono le qualità classiche", ha tagliato corto quasi con sufficienza il buon apicoltore. La serie di sapori disponibili, infatti, è tanto sorprendente quanto insolita.
Forse vi sarà capitato di assaggiare il tarassaco, dal gusto molto deciso; ma dubito abbiate mai provato la marasca del Carso, ricavato da una pianta - il prunus mahaleb, nella foto - che cresce unicamente sulle terre rosse dell'altipiano e si riesce a produrre soltanto in poche annate: come dice il nome stesso, ha un peculiare sapore di ciliegia selvatica. Altra specialità della casa è la melata, prodotta non dal fiore ma dalla linfa - le api la ricavano cioè lambendo le gocce zuccherine sulla superficie delle foglie -, dal sapore quasi caramellato; e il mix balsamico, un miele con olii essenziali di eucalipto, pino mugo, menta piperita, timo bianco, anice stellato e propoli: decisamente sconsigliato da spalmare sul pane - è davvero molto forte -, ma che promette di fare miracoli anche nel caso del peggiore dei raffreddori - e c'è da crederci, quel profumo lì apre qualsiasi naso.
Ad incuriosirmi è stato però il "mix energetico", non potendo non chiedermi che cosa mai avesse dentro: miele millefiori, polline, propoli, pappa reale e gingseng. Insomma, una bomba: dopo due cucchiai di questo, c'è di che trasformarsi in un razzo missile, come dice la canzone. Devo ammettere che per i miei gusti era decisamente troppo dolce: personalmente ho apprezzato di più la marasca, forse anche per la sua particolarità.
Mentre mi dilettavo ad assaggiare, il buon apicoltore mi ha peraltro svelato uno dei maggiori arcani con cui mi confronto da anni a colazione: ossia come mai alcuni tipi di miele cristallizzino nel giro di poco tempo, costringendomi a lunghe battaglie per spalmarli sul pane - oppure, lo ammetto, a scioglierli scaldandoli nel microonde, vero e proprio sacrilegio in quanto a conservazione della qualità. "Dipende tutto dal grado di fruttosio - ha spiegato -: quelli che ne contengono di più, come l'acacia, il castagno e la melata, restano liquidi più a lungo; mentre quelli che hanno più glucosio cristallizzano velocemente, perché è uno zucchero non solubile in acqua". A 'nvedi tu, non si finisce mai di imparare. Curioso anche il fatto che gli apicoltori della Casa dell'ape avessero portato lì proprio i loro maggiori soci in affari, ossia le api stesse: in una sorta di teca chiusa ce n'era infatti uno sciame intero, per la gioia soprattutto dei (pochi, dato il clima infelice) bambini che passavano.
A quel punto, senza nemmeno bagnarmi, mi sono spostata al banco accanto, quello della Rosa di Gorizia: mi aspettavo fossero fiori, e invece...
Forse vi sarà capitato di assaggiare il tarassaco, dal gusto molto deciso; ma dubito abbiate mai provato la marasca del Carso, ricavato da una pianta - il prunus mahaleb, nella foto - che cresce unicamente sulle terre rosse dell'altipiano e si riesce a produrre soltanto in poche annate: come dice il nome stesso, ha un peculiare sapore di ciliegia selvatica. Altra specialità della casa è la melata, prodotta non dal fiore ma dalla linfa - le api la ricavano cioè lambendo le gocce zuccherine sulla superficie delle foglie -, dal sapore quasi caramellato; e il mix balsamico, un miele con olii essenziali di eucalipto, pino mugo, menta piperita, timo bianco, anice stellato e propoli: decisamente sconsigliato da spalmare sul pane - è davvero molto forte -, ma che promette di fare miracoli anche nel caso del peggiore dei raffreddori - e c'è da crederci, quel profumo lì apre qualsiasi naso.
Ad incuriosirmi è stato però il "mix energetico", non potendo non chiedermi che cosa mai avesse dentro: miele millefiori, polline, propoli, pappa reale e gingseng. Insomma, una bomba: dopo due cucchiai di questo, c'è di che trasformarsi in un razzo missile, come dice la canzone. Devo ammettere che per i miei gusti era decisamente troppo dolce: personalmente ho apprezzato di più la marasca, forse anche per la sua particolarità.
Mentre mi dilettavo ad assaggiare, il buon apicoltore mi ha peraltro svelato uno dei maggiori arcani con cui mi confronto da anni a colazione: ossia come mai alcuni tipi di miele cristallizzino nel giro di poco tempo, costringendomi a lunghe battaglie per spalmarli sul pane - oppure, lo ammetto, a scioglierli scaldandoli nel microonde, vero e proprio sacrilegio in quanto a conservazione della qualità. "Dipende tutto dal grado di fruttosio - ha spiegato -: quelli che ne contengono di più, come l'acacia, il castagno e la melata, restano liquidi più a lungo; mentre quelli che hanno più glucosio cristallizzano velocemente, perché è uno zucchero non solubile in acqua". A 'nvedi tu, non si finisce mai di imparare. Curioso anche il fatto che gli apicoltori della Casa dell'ape avessero portato lì proprio i loro maggiori soci in affari, ossia le api stesse: in una sorta di teca chiusa ce n'era infatti uno sciame intero, per la gioia soprattutto dei (pochi, dato il clima infelice) bambini che passavano.
A quel punto, senza nemmeno bagnarmi, mi sono spostata al banco accanto, quello della Rosa di Gorizia: mi aspettavo fossero fiori, e invece...
giovedì 3 ottobre 2013
Gusti di frontiera, parte prima: pane caldo, il profumo dell'infanzia
Chi di voi conosce il Friuli Venezia Giulia, forse si sarà chiesto come mai non ho scritto nulla su Gusti di Frontiera, la manifestazione enogastronomica di Gorizia che ha riunito quest'anno 260 stand da oltre venti Paesi europei: e in effetti eccomi qui, pur con un certo ritardo. In fondo, non potevo mancare: si tratta di un'occasione unica non solo per gustare le prelibatezze di tanti popoli diversi, ma anche e soprattutto per incontrarli - barriere linguistiche permettendo -, dato che alle bancarelle sono presenti i produttori direttamente dall'estero. Più che mangiare e bere, insomma, mi sono fatta delle lunghe ed interessanti chiacchierate.
A dire il vero la cosa non era iniziata sotto i migliori auspici, dato che avevo scelto di andarci domenica: l'unico giorno di pioggia in tutta la manifestazione - e che pioggia, dato che in regione ci sono stati dei veri e propri nubifragi -, con una sfortuna che ha del fantozziano. Al mio arrivo in città, al quadretto sarebbero mancate solo le palle di sterpi che rotolavano: in strada non c'era nessuno, e quasi tutti i gazebo erano ben chiusi.
Ormai però ero lì, quindi tanto valeva avventurarsi; e dopo quasi mezz'ora che camminavo sotto l'acqua, con i piedi ormai zuppi, ho trovato la prima anima buona che mi ha offerto riparo sotto il suo tendone, il ragazzo della Sardexport di tal Lello Canu. Come dice il nome stesso, un'azienda che esporta prodotti tipici sardi, dal pane carasau alla bottarga, dai formaggi caprini ai prosciutti di pecora. Forse gli ho fatto pena, perché per prima cosa mi ha offerto pane carasau e pecorino: però, dato che tanto non c'era nessun altro il giro, ne è nata una conversazione amichevole, che mi ha permesso di rimanere un po' di tempo al riparo e ristorarmi con uno dei migliori pecorini che mi sia mai capitato di assaggiare.
Non potendo rimanere tutta la mattina tra cacio e pecorini, ho ripreso il cammino; ma dato che la pioggia si faceva sempre più fitta, ho dovuto andare presto alla ricerca di un altro riparo. Già stavo meditando una sosta caffè in un bar, quando ad attirare la mia attenzione è stata una sorta di casetta di legno da cui usciva uno degli odori più caratteristici della mia infanzia: quel misto di fumo, braci e pane caldo che contraddistingue i forni a legna, come quello che usava mia nonna.
E proprio a fare il pane era intento il buon Matteo, che mi ha accolta all'asciutto e al caldo dentro il suo stand. Tra una carica di legna e l'altra, mi ha raccontato come era arrivato lì: Matteo infatti non è propriamente un panettiere, ma lavora per Il prato degli ortaggi, una fattoria biologica sul Garda gestita da una giovane coppia tedesca che vende direttamente o consegna a domicilio genuini prodotti di stagione. Siccome tra questi prodotti c'è anche la farina del loro grano, e quindi il pane, Matteo ha imparato l'arte: "E quando in Spagna ho conosciuto il figlio della proprietaria di questa panetteria, una signora tedesca, mi sono messo in collaborazione". Signora tedesca che è puntualmente comparsa richiamandolo all'ordine: nonostante il nubifragio, infatti, la coda davanti al banco per comprare il pane appena sfornato era già considerevole. "Ma se vuoi rimanere ancora un attimo, non disturbi"...
Mi sono fatta scrupoli ad approfittare dell'ospitalità, così sono andata oltre; e dopo aver superato la bancarella delle frittatine olandesi, su cui svettava un mulino a vento - che però, devo ammetterlo, aveva del kitsch - e una serie di stand desolatamente chiusi, a darmi rifugio è stata una casa, la Casa dell'Ape... (continua)
A dire il vero la cosa non era iniziata sotto i migliori auspici, dato che avevo scelto di andarci domenica: l'unico giorno di pioggia in tutta la manifestazione - e che pioggia, dato che in regione ci sono stati dei veri e propri nubifragi -, con una sfortuna che ha del fantozziano. Al mio arrivo in città, al quadretto sarebbero mancate solo le palle di sterpi che rotolavano: in strada non c'era nessuno, e quasi tutti i gazebo erano ben chiusi.
Ormai però ero lì, quindi tanto valeva avventurarsi; e dopo quasi mezz'ora che camminavo sotto l'acqua, con i piedi ormai zuppi, ho trovato la prima anima buona che mi ha offerto riparo sotto il suo tendone, il ragazzo della Sardexport di tal Lello Canu. Come dice il nome stesso, un'azienda che esporta prodotti tipici sardi, dal pane carasau alla bottarga, dai formaggi caprini ai prosciutti di pecora. Forse gli ho fatto pena, perché per prima cosa mi ha offerto pane carasau e pecorino: però, dato che tanto non c'era nessun altro il giro, ne è nata una conversazione amichevole, che mi ha permesso di rimanere un po' di tempo al riparo e ristorarmi con uno dei migliori pecorini che mi sia mai capitato di assaggiare.
Non potendo rimanere tutta la mattina tra cacio e pecorini, ho ripreso il cammino; ma dato che la pioggia si faceva sempre più fitta, ho dovuto andare presto alla ricerca di un altro riparo. Già stavo meditando una sosta caffè in un bar, quando ad attirare la mia attenzione è stata una sorta di casetta di legno da cui usciva uno degli odori più caratteristici della mia infanzia: quel misto di fumo, braci e pane caldo che contraddistingue i forni a legna, come quello che usava mia nonna.
E proprio a fare il pane era intento il buon Matteo, che mi ha accolta all'asciutto e al caldo dentro il suo stand. Tra una carica di legna e l'altra, mi ha raccontato come era arrivato lì: Matteo infatti non è propriamente un panettiere, ma lavora per Il prato degli ortaggi, una fattoria biologica sul Garda gestita da una giovane coppia tedesca che vende direttamente o consegna a domicilio genuini prodotti di stagione. Siccome tra questi prodotti c'è anche la farina del loro grano, e quindi il pane, Matteo ha imparato l'arte: "E quando in Spagna ho conosciuto il figlio della proprietaria di questa panetteria, una signora tedesca, mi sono messo in collaborazione". Signora tedesca che è puntualmente comparsa richiamandolo all'ordine: nonostante il nubifragio, infatti, la coda davanti al banco per comprare il pane appena sfornato era già considerevole. "Ma se vuoi rimanere ancora un attimo, non disturbi"...
Mi sono fatta scrupoli ad approfittare dell'ospitalità, così sono andata oltre; e dopo aver superato la bancarella delle frittatine olandesi, su cui svettava un mulino a vento - che però, devo ammetterlo, aveva del kitsch - e una serie di stand desolatamente chiusi, a darmi rifugio è stata una casa, la Casa dell'Ape... (continua)
mercoledì 2 ottobre 2013
Luppolo e tabacco, parte seconda
Alcuni di voi ricorderanno forse il mio post Luppolo e tabacco, pubblicato lo scorso luglio; e il buon fummelier - non sto a rispiegarvi cos'è, leggetevi il post precedente, è per questo che esistono i link...- Marco Prato, del Club del Toscano, è tornato in brasserie per una replica della riuscitissima degustazione "Birra e sigari" di cui sopra. Questa volta, peraltro, sono arrivata preparata: sapevo tutto sul fumo lento, sul tabacco puro e su quello aromatizzato, sugli abbinamenti per similitudine e quelli per contrasto. Insomma, avevo studiato.
Questa volta quindi per prima cosa sono andata a farmi dire che sigari aveva portato, dato che sarei stata in grado di capire di che cosa stava parlando: in quanto al tabacco puro c'era l'Antico - il più amaro -, l'Extra vecchio e il Modigliani - il più leggero; mentre tra gli aromatizzati c'era quello al caffè, alla vaniglia, al cioccolato fondente, alla grappa e all'anice. Fossero state caramelle, non ci avrei pensato due volte. Ovviamente il tutto era accompagnato dai già apprezzatissimi crostini al formaggio spalmabile e sigaro grattugiato, una vera chicca.
La scoperta della serata è stata però la ruota organolettica, che Marco mi ha gentilmente illustrato e regalato: due dischi concentrici fissati con un fermacampione, che riportano sull'uno i tipi di sigaro, e sull'altro gli abbinamenti possibili. Facendoli ruotare, si ottengono le combinazioni suggerite: l'Antico, ad esempio, va accompagnato al vino rosso e ai distillati; quello alla vaniglia sta bene col liquore e con il caffè; e l'extra vecchio con i vini e i distillati.
In quanto ad accompagnare la birra, la ruota non la dà mai come "abbinamento ottimale"; la annovera però tra gli "abbinamenti da provare" con il Garibaldi - leggermente dolce -, l'Extra vecchio, il Classico, il Modigliani, quello all'anice e al caffè. Personalmente, insieme a certe stout, non avrei escluso nemmeno quello al cioccolato fondente; ma gli esperti sono loro, quindi non metto bocca - letteralmente.
In quanto a birre però l'auctoritas è Matilde, così siamo andati a chiedere a lei che cosa avrebbe abbinato ad un sigaro: e la sua scelta è caduta con decisione sulla Smoked Porter - la brassano diversi birrifici, ma la Brasserie tiene quella del Birrificio del Ducato - che ha sentori, appunto, di braci e di fumo. "A te però, tesoro, darei una Pannepot" ha concluso, cambiando le carte in tavola dato che comunque non avrei fumato. Dato che Matilde conosce i miei gusti, mi sono fidata: e in effetti mi sono brillati gli occhi quando mi sono vista mettere davanti un gioiellino di Belgian Strong Ale, direttamente dalle Fiandre. Nella descrizione era incluso praticamente qualsiasi tipo di aroma, dalle spezie, al caffè, al caramello: ce n'era abbastanza per cercare di non pensare al fatto che fa 10 gradi e berla lo stesso. In effetti, la girandola sia di aromi che di sapori che sprigiona è così varia da disorientare: se all'olfatto prevale il tostato del caffè, al gusto si fanno sentire più pienamente le spezie, mentre il retrogusto inizialmente liquoroso poi vira sul dolce del malto. Insomma, una birra unica ma assai impegnativa, da bere a piccoli sorsi e senza sete - perché è tutt'altro che dissetante, avendo un gusto così corposo.
In tutto questo mi spiace solo per il buon Marco, che nonostante il suo impegno e la sua verve - che fa sì che riesca a coinvolgere in queste serate anche i più convinti avversari del fumo - non è riuscito a farmi provare nemmeno un sigaro: però, lo giuro, io ci ho messo la massima buona volontà per capire gli abbinamenti...
Questa volta quindi per prima cosa sono andata a farmi dire che sigari aveva portato, dato che sarei stata in grado di capire di che cosa stava parlando: in quanto al tabacco puro c'era l'Antico - il più amaro -, l'Extra vecchio e il Modigliani - il più leggero; mentre tra gli aromatizzati c'era quello al caffè, alla vaniglia, al cioccolato fondente, alla grappa e all'anice. Fossero state caramelle, non ci avrei pensato due volte. Ovviamente il tutto era accompagnato dai già apprezzatissimi crostini al formaggio spalmabile e sigaro grattugiato, una vera chicca.
La scoperta della serata è stata però la ruota organolettica, che Marco mi ha gentilmente illustrato e regalato: due dischi concentrici fissati con un fermacampione, che riportano sull'uno i tipi di sigaro, e sull'altro gli abbinamenti possibili. Facendoli ruotare, si ottengono le combinazioni suggerite: l'Antico, ad esempio, va accompagnato al vino rosso e ai distillati; quello alla vaniglia sta bene col liquore e con il caffè; e l'extra vecchio con i vini e i distillati.
In quanto ad accompagnare la birra, la ruota non la dà mai come "abbinamento ottimale"; la annovera però tra gli "abbinamenti da provare" con il Garibaldi - leggermente dolce -, l'Extra vecchio, il Classico, il Modigliani, quello all'anice e al caffè. Personalmente, insieme a certe stout, non avrei escluso nemmeno quello al cioccolato fondente; ma gli esperti sono loro, quindi non metto bocca - letteralmente.
In quanto a birre però l'auctoritas è Matilde, così siamo andati a chiedere a lei che cosa avrebbe abbinato ad un sigaro: e la sua scelta è caduta con decisione sulla Smoked Porter - la brassano diversi birrifici, ma la Brasserie tiene quella del Birrificio del Ducato - che ha sentori, appunto, di braci e di fumo. "A te però, tesoro, darei una Pannepot" ha concluso, cambiando le carte in tavola dato che comunque non avrei fumato. Dato che Matilde conosce i miei gusti, mi sono fidata: e in effetti mi sono brillati gli occhi quando mi sono vista mettere davanti un gioiellino di Belgian Strong Ale, direttamente dalle Fiandre. Nella descrizione era incluso praticamente qualsiasi tipo di aroma, dalle spezie, al caffè, al caramello: ce n'era abbastanza per cercare di non pensare al fatto che fa 10 gradi e berla lo stesso. In effetti, la girandola sia di aromi che di sapori che sprigiona è così varia da disorientare: se all'olfatto prevale il tostato del caffè, al gusto si fanno sentire più pienamente le spezie, mentre il retrogusto inizialmente liquoroso poi vira sul dolce del malto. Insomma, una birra unica ma assai impegnativa, da bere a piccoli sorsi e senza sete - perché è tutt'altro che dissetante, avendo un gusto così corposo.
In tutto questo mi spiace solo per il buon Marco, che nonostante il suo impegno e la sua verve - che fa sì che riesca a coinvolgere in queste serate anche i più convinti avversari del fumo - non è riuscito a farmi provare nemmeno un sigaro: però, lo giuro, io ci ho messo la massima buona volontà per capire gli abbinamenti...
martedì 1 ottobre 2013
Festival di Fiume, ottava tappa: arriva la bora
Come dicevamo, si trattava ormai di superare l'ultimo scoglio: in questo caso il birrificio Campagnolo di Muggia, in provincia di Trieste. Come nel caso del Baracca Beer un microbirrificio gestito da due fratelli, Angelo e Michele Campagnolo, che ci hanno accolti al banco; con un po' più di esperienza però, in questo caso, dato che i due brassano dal 2007.
I fratelli Campagnolo, a dire il vero, erano un po' meno loquaci degli altri birrai presenti; così abbiamo deciso di lasciar parlare le loro birre che, a testimoniare il legame con la terra d'origine, prendono tutte il nome dal celebre vento che soffia su Trieste. C'è la Bora Ciara, una weizen ad altra fermentazione; la Bora Scura, una rossa Monaco; e il Borin, una pils che dopo una prima lievitazione a bassa fermentazione nei tini passa in bottiglia per una seconda lievitazione ad alta fermentazione. A queste si aggiungono altre birre speciali a seconda della stagione, e dato il periodo sarà da tener d'occhio il Capriccio di Bacco, una chiara doppio malto con aggiunta di mosto d'uva in uscita proprio in questi giorni.
Ho avuto modo di provare la Bora Ciara, che mi sembrava la più interessante in base alla descrizione che me ne avevano fatto i birrai: non filtrata e non pastorizzata - come tutte le Campagnolo -, rifermentata in bottiglia, e prodotta con acqua di Trieste non trattata. Devo ammettere che forse non ho fatto la scelta giusta, o forse non sono in grado di apprezzare a pieno le weizen; fatto sta che, per quanto sia comunque una signora weizen che non ha nulla a che vedere con quelle comprate al supermercato o bevute in un qualsiasi bar - soprattutto in termini di aroma -, non mi ha "colpita", nel senso che non vi ho trovato quell'unicità che invece ho sentito nella maggior parte delle birre di quella sera. Per carità, magari in futuro avrò occasione di assaggiarne una delle altre e rimarrò strabiliata, anche perché i numeri per fare buona birra i Campagnolo ce li hanno tutti; spero solo non me ne vogliano se dico che la Bora Ciara non mi ha lasciata a bocca aperta, per quanto indubbiamente soddisfatta.
Bene, il nostro lungo pellegrinaggio a Fiume giunge qui al termine: ci si rivede su questi schermi, per il resoconto di un altro evento di tutto spessore...
I fratelli Campagnolo, a dire il vero, erano un po' meno loquaci degli altri birrai presenti; così abbiamo deciso di lasciar parlare le loro birre che, a testimoniare il legame con la terra d'origine, prendono tutte il nome dal celebre vento che soffia su Trieste. C'è la Bora Ciara, una weizen ad altra fermentazione; la Bora Scura, una rossa Monaco; e il Borin, una pils che dopo una prima lievitazione a bassa fermentazione nei tini passa in bottiglia per una seconda lievitazione ad alta fermentazione. A queste si aggiungono altre birre speciali a seconda della stagione, e dato il periodo sarà da tener d'occhio il Capriccio di Bacco, una chiara doppio malto con aggiunta di mosto d'uva in uscita proprio in questi giorni.
Ho avuto modo di provare la Bora Ciara, che mi sembrava la più interessante in base alla descrizione che me ne avevano fatto i birrai: non filtrata e non pastorizzata - come tutte le Campagnolo -, rifermentata in bottiglia, e prodotta con acqua di Trieste non trattata. Devo ammettere che forse non ho fatto la scelta giusta, o forse non sono in grado di apprezzare a pieno le weizen; fatto sta che, per quanto sia comunque una signora weizen che non ha nulla a che vedere con quelle comprate al supermercato o bevute in un qualsiasi bar - soprattutto in termini di aroma -, non mi ha "colpita", nel senso che non vi ho trovato quell'unicità che invece ho sentito nella maggior parte delle birre di quella sera. Per carità, magari in futuro avrò occasione di assaggiarne una delle altre e rimarrò strabiliata, anche perché i numeri per fare buona birra i Campagnolo ce li hanno tutti; spero solo non me ne vogliano se dico che la Bora Ciara non mi ha lasciata a bocca aperta, per quanto indubbiamente soddisfatta.
Bene, il nostro lungo pellegrinaggio a Fiume giunge qui al termine: ci si rivede su questi schermi, per il resoconto di un altro evento di tutto spessore...
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