Dopo la prima esperienza "di assaggio", in cui ho seguito la banda di scalmanati locali nel giro serale delle case dei borghi, questi hanno evidentemente deciso che ero pronta per il passo successivo: partecipare alla sfilata vera e propria, che inizia invece la mattina. Già, inizia: perché dura poi fino a sera, in un lungo pellegrinaggio che tocca tutte le frazioni. A differenza del giro serale, in cui i partecipanti si mascherano come più loro aggrada o non si mascherano affatto, in quello diurno il ruolo principale lo giocano le figure tradizionali del carnevale delle Valli del Natisone: l'angelo, il diavolo, e appunto i Pust, coloratissimi personaggi muniti di una sorta di pinze - le kliesce - usate per combinare i guai più svariati, dallo spargere per il giardino la legna delle cataste ad appendere gli ombrelli alle imposte del piano superiore. Giusto per farsi notare, i Pust sono poi muniti di rumorosissimi campanacci, che scuotono procedendo a passo di corsa: tenendo conto che il carico può arrivare anche a 30 kg, non è cosa di tutto riposo, specie se dura una giornata intera. Aggiungiamoci pure che è severamente vietato andarsene dalle case visitate senza aver mangiato e soprattutto bevuto qualcosa, mentre si allietano le famiglie con le canzoni tipiche del carnevale accompagnati dalla fisarmonica, e si capisce come arrivare a sera sia assai impegnativo. Ma tant'è, è lì che sta il bello.
Sarà, ma questi giovani qui di voglia di fare ne hanno parecchia: la mattina di sabato 1 marzo si sono alzati di buon'ora, hanno indossato i costumi - e fidatevi che ci vuole un po' di tempo -, e alle 9 erano già a combinare guai in giro per il paese. Ad aprire il corteo è il diavolo, tenuto alla catena dall'angelo, seguito dai Pust scampananti - per quanto Silvana sostenga che dovrebbe essere il contrario: non so, chiedo lumi. La gente del paese, salvo poche eccezioni, non si offende per gli scherzi - in fondo buona parte di loro ha fatto lo stesso in gioventù - e apre le porte di casa: lì, davanti ad un buon bicchiere, si parte con un repertorio che va dai canti tipici del carnevale (di cui molte nel dialetto slavo locale) alle canzonacce più dissacranti, e tappate le orecchie ai bambini (e a volte anche gli occhi, dati certi siparietti). Insomma, il carnevale recupera qui quella che è la sua radice medievale più profonda: l'unico periodo dell'anno in cui poter fare tutto ciò che non è moralmente, socialmente e magari anche legalmente permesso, sovvertendo le gerarchie e concedendosi ai piaceri della vita. In maniera comunque "sana": non stiamo parlando di un ubriacarsi e di un fare danni fine a sé stessi, ma inseriti in quella che è comunque una dimensione di comunità. Non a caso, a quanto mi hanno riferito gli episodi spiacevoli accaduti negli anni si contano sulle dita di una mano.
A fine giornata ero a dir poco distrutta, ma felice: perché, per quanto mi avessero sempre detto che la gente di lì è chiusa, che se non sei "indigeno" verrai sempre guardato con almeno un po' di diffidenza, e simili, sin dal primo giro di Pust i ragazzi sono riusciti a scardinare tutti i luoghi comuni, a farmi sentire accolta come se fossi nata e cresciuta lì, e a dimostrare che questo non è solo folklore da riesumare una volta l'anno perché "non bisogna far morire la tradizione" (a costo di renderla un fenomeno da baraccone), ma un modo ancora vivo di quel "fare comunità" che in tanti posti si sta perdendo.E colgo l'occasione per ringraziarli.
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