Per quanto sia ormai passato del tempo, meritano una nota due produzioni del Birrificio Curtense che ho avuto occasione di assaggiare a Il Bontà a Cremona - presentandole durante due delle degustazioni che ho condotto -, la Jolly Blue e la Il Malfattore. La prima è una Iga con mosto di Franciacorta Chardonnay (il birrificio ha sede appunto in Franciacorta), su base monomalto Pils e monoluppolo mosaic; mentre la seconda, sempre una monomalto pils però questa volta con luppolo cascade autoprodotto, è stata fatta fermentare con lievito da vino ceppo Bayanus. La curiosità - almeno a mio avviso - sta nel fatto che sono costruite in una maniera tale per cui, in una degustazione alla cieca, la maggior parte dei partecipanti probabilmente direbbe che a essere una Iga è la Il Malfattore, non la Jolly Blue.
La Jolly Blue infatti, al di là della gradazione alcolica molto contenuta - 4,5 gradi -, mette in risalto in maniera elegante ma intensa al tempo stesso l'aroma tropicale del mosaic, che si armonizza tanto da sembrare un tutt'uno con i profumi fruttati del mosto; prima di un corpo assai fresco e scorrevole, di cereale fragrante, e di un finale secco che ritorna sul fruttato senza lunghe persistenze amare. Decisamente una delle Iga più beverine che mi sia mai capitato di assaggiare (e sicuramente la meno alcolica); tanto che mi sono trovata a commentare, a fronte del birraio che mi diceva che a lui ricorda quasi le blanche, che a me ricorda piuttosto certe session Ipa, tanta è la scorrevolezza e l'assenza di asperità.
Di tutt'altro genere invece la Il Malfattore, e non solo per la gradazione alcolica doppia. Insieme ai toni leggermente caramellati del malto, infatti, all'aroma risalta una rosa di esteri fruttati che ricordano appunto il vino assai più di quanto non accada con la Jolly Blue - mentre il Cascade, pur riconoscibile, rimane più sullo sfondo. Ben caldo, dolce e avvolgente, per quanto non pastoso né vischioso, anche il corpo discretamente robusto; prima di un finale che, pur rimanendo più sui toni maltati che sull'amaro, non indugia in persistenze caramellate - piuttosto una leggera punta alcolica, che comunque scompare subito lasciando l'idea di una birra discretamente attenuata.
Due produzioni senz'altro originali, e che a mio avviso sono - insieme a tante altre, ben inteso - ulteriore prova del "fermento sperimentativo" che si è creato in Italia non solo con le Iga propriamente dette, ma più in generale con gli spunti che possono venire dal mondo del vino; che in Paese come il nostro sono senz'altro moltissimi.
Il mio blog di avventure birrarie, descrizioni di birre, degustazioni, e notizie dal mondo della birra artigianale.
giovedì 19 dicembre 2019
venerdì 13 dicembre 2019
620 Passi tra Marano e Latisana
Ho avuto il piacere di fare visita di persona al nuovo stabilimento del birrificio 620 Passi - conosciuto a Ein Prosit e di cui avevo parlato in questo post - a Gorgo di Latisana (Udine). Come già avevo scritto, dopo 5 anni di beerfirm l'impianto di proprietà - uno Spadoni da 12 hl - è ora avviato; e, per quanto manchino ancora alcuni dettagli nell'allestimento dello stabile e non ci sia quindi ancora stata un'inaugurazione ufficiale, le birre escono ora da lì. E' stato interessante innanzitutto farsi raccontare dal birraio, Roberto Regeni, la storia sua e del birrificio: gli anni da homebrewer, la decisione di avviare un'attività brassicola dopo un periodo in Australia, la formazione sul campo con il birraio Andrea Liessi di Bradipongo e il periodo di beerfirm presso di loro, l'apertura del locale a Marano Lagunare, le difficoltà che hanno rinviato l'apertura, il coinvolgimento di nuovi soci e finalmente l'avvio dell'attività. Ancora una volta, comunque, non un homebrewer - per quanto bravo - che fa il grande salto da zero: c'è stato un periodo di formazione, e l'allargamento della compagine societaria ai finanziatori che hanno creduto nel progetto.
Dopo un breve tour, con Roberto ho assaggiato le birre giunte a fine maturazione direttamente dai tank. Siamo partiti dalla versione "alternativa" della Arsura, nata come lager chiara, ma che - a fronte delle richieste - Roberto ha prodotto anche nella "controparte" ale, che necessita di tempi di maturazione più brevi. Se la sfida era ottenere comunque un prodotto quanto più possibile simile all'originale, lavorando a temperature leggermente più basse delle ale sia in fermentazione che in maturazione, direi che è riuscita: appena spillata dal tank risalta il classico profumo di cereale fresco che ricorda le Zwickel (così come la torbidità), forse meno evidenti Hersbrucker e Premiant data la bassa temperatura, ma non è percepibile comunque (neanche a temperature elevate) alcun fenolico da lievito inappropriato. Interessante anche l'assaggio della ipa Fipa, che in virtù della freschezza esibisce aromi tropicali e fruttati di mosaic ancora più intensi, per quanto questo renda forse più netto e tagliente il contrasto con l'amaro resinoso finale.
Ragione principale della visita era però l'assaggio della nuova nata, la imperial stout Daracò: termine dialettale maranese che significa "fallo di nuovo" - frase che, mi ha riferito Roberto, il suo socio gli ha detto dopo averla assaggiata la prima volta. In realtà l'etichetta "imperial stout" potrebbe un po' stonare, dato il tenore alcolico basso per la categoria - 6 gradi - e un profilo organolettico relativamente delicato sempre rispetto alle birre classificate come tali; è altrettanto vero però che già da fredda esibisce aromi intensi di tostato e di torbato (è presente infatti anche una piccola quantità di malto torbato), a cui si aggiungono poi con la temperatura i classici caffè, cioccolato e liquirizia; che persistono nel corpo pieno ma vellutato e scorrevole, prima di un finale di un secco amaro da malto persistente ma non invasivo. Una birra che ho comunque trovato più complessa delle stout "medie", e ben equilibrata in questa complessità, per quanto non del tutto accomunabile neanche alla imperial stout da manuale. Una birra che abbinerei volentieri a del pesce alla griglia - a anguilla allo spiedo, suggeriva Roberto - dati i toni torbati.
Mi si conferma quindi l'idea di un birrificio che, pur essendo appena avviato e con conseguente necessità di affinare man mano i propri prodotti, ha saputo comunque non improvvisarsi e partire con il piede giusto; non resta che attendere futuri sviluppi...
Dopo un breve tour, con Roberto ho assaggiato le birre giunte a fine maturazione direttamente dai tank. Siamo partiti dalla versione "alternativa" della Arsura, nata come lager chiara, ma che - a fronte delle richieste - Roberto ha prodotto anche nella "controparte" ale, che necessita di tempi di maturazione più brevi. Se la sfida era ottenere comunque un prodotto quanto più possibile simile all'originale, lavorando a temperature leggermente più basse delle ale sia in fermentazione che in maturazione, direi che è riuscita: appena spillata dal tank risalta il classico profumo di cereale fresco che ricorda le Zwickel (così come la torbidità), forse meno evidenti Hersbrucker e Premiant data la bassa temperatura, ma non è percepibile comunque (neanche a temperature elevate) alcun fenolico da lievito inappropriato. Interessante anche l'assaggio della ipa Fipa, che in virtù della freschezza esibisce aromi tropicali e fruttati di mosaic ancora più intensi, per quanto questo renda forse più netto e tagliente il contrasto con l'amaro resinoso finale.
Ragione principale della visita era però l'assaggio della nuova nata, la imperial stout Daracò: termine dialettale maranese che significa "fallo di nuovo" - frase che, mi ha riferito Roberto, il suo socio gli ha detto dopo averla assaggiata la prima volta. In realtà l'etichetta "imperial stout" potrebbe un po' stonare, dato il tenore alcolico basso per la categoria - 6 gradi - e un profilo organolettico relativamente delicato sempre rispetto alle birre classificate come tali; è altrettanto vero però che già da fredda esibisce aromi intensi di tostato e di torbato (è presente infatti anche una piccola quantità di malto torbato), a cui si aggiungono poi con la temperatura i classici caffè, cioccolato e liquirizia; che persistono nel corpo pieno ma vellutato e scorrevole, prima di un finale di un secco amaro da malto persistente ma non invasivo. Una birra che ho comunque trovato più complessa delle stout "medie", e ben equilibrata in questa complessità, per quanto non del tutto accomunabile neanche alla imperial stout da manuale. Una birra che abbinerei volentieri a del pesce alla griglia - a anguilla allo spiedo, suggeriva Roberto - dati i toni torbati.
Mi si conferma quindi l'idea di un birrificio che, pur essendo appena avviato e con conseguente necessità di affinare man mano i propri prodotti, ha saputo comunque non improvvisarsi e partire con il piede giusto; non resta che attendere futuri sviluppi...
lunedì 11 novembre 2019
Nuove conoscenze e vecchi amici a Pordenone
Anche quest’anno ho partecipato alla fiera della
birra artigianale di Pordenone, conducendo beer tour e degustazioni.
Per quanto non sia una manifestazione improntata ai grossi numeri,
devo dire che in questa edizione ho avuto la sorpresa di vedere un
inedito interesse per gli eventi di approfondimento
cultural-brassicolo – sia da parte del pubblico che dei birrai; il
che è indubbiamente un buon segno, indice di un’evoluzione
nell’approccio alla materia.
Sono
naturalmente stati numerosi sia gli amici ritrovati che le nuove
conoscenze. Per quanto riguarda i vecchi amici, nel primo weekend c’è
stato Sothis – la cui Dunkelweizen Renenet, di cui avevo parlato
qui, rimane a mio avviso la punta di diamante; poi Meraki – di cui
ho provato per la prima volta la porter Ade – un esempio “verace”
dello stile: aromi di tostato e caffè ben prominenti senza
indugi sul cioccolato, corpo scorrevole e discretamente scarico prima
del finale di un amaro acidulo e netto da tostatura ma non
eccessivamente persistente. Unico neo, renderebbe meglio alla pompa,
che scaricherebbe un po' la carbonatazione - a mio avviso piuttosto
elevata per lo stile. Infine i Chianti Brew
Fighters, che portavano come novità La Gioconda: definita
come hoppy blonde ale, all'aroma fonde in maniera curiosa lo speziato
del lievito belga con l'agrumato della luppolatura americana. Il
risultato può per certi versi ricordare alcune blanche, con il loro
connubio tra speziatura e buccia d'arancia. Corpo estremamente snello
e fresco, senza particolari indugi sul cereale, e finale di un amaro
citrico.
Nel
secondo weekend ho ritrovato invece Darf: una piacevole conferma in
quanto a rigore e pulizia “tedeschi” (sia nello spirito che negli
stili di ispirazione) nel modo di lavorare, e in cui ho trovato però
un’evoluzione in quanto a creatività. La Keller (nella foto), ad esempio, già
era del tutto sui generis in quanto prevedeva
l’utilizzo di luppolo cascade fresco;
ora che sono entrati in gioco anche i
luppoli cryo, esibisce una notevolissima rosa di aromi e sapori
intensissimi che – per quanto equilibrati nell’insieme, da un
tutti i frutti fino ai toni più floreali e resinosi – che la
rendono un curioso ibrido tra la base tedesca e le mirabolanti
luppolature americane. Una birra che vuole stupire, per quanto non
arrivi a “stroppiare” in forza di questo equilibrio
nell’intensità. Da segnalare anche la
Doppelbock – che inganna notevolmente al palato apparendo piuttosto
una Bock semplice, alquanto beverina nonostante la maltatura. Ho poi
ritrovato Meni, di cui ho provato la nuova versione più leggera
della Candeot alla zucca: disdegnatori delle birre alla zucca,
ricredetevi, perché in questo caso la componente del frutto
è assolutamente misurata e ben armonizzata nell’insieme. Per la
prima volta ho poi provato la Weizenbock Centis: dopo un aroma in cui
si coglie che la componente dei malti è leggermente più forte e
dolce delle Weizen semplici, arriva una notevole ricchezza di cereale
al palato, di pane fresco a morsi; prima di chiudere in maniera
inaspettatamente breve e fresca, praticamente senza lasciare
persistenze. Per chi ama le birre “importanti”, ma ha tanta sete.
In
quanto a nuove conoscenze del primo weekend
c’è stato Agro, agribirrificio di recente apertura in quel di
Aviano. Dal mio punto di vista hanno iniziato con il piede giusto
nella misura in cui hanno passato il mio personale test della Helles:
semplice e pulita, ma appunto per questo ben riuscita. Da segnalare
anche la oatmeal stout, improntata ai toni di tostato e caffè senza
indugi ruffiani sul cioccolato, corpo rotondo e scorrevole e finale
di un amaro acidulo da tostato. Unica critica va alla Saison, che
esibisce una speziatura a mio avviso un po’ troppo sopra le righe.
Nel
secondo weekend c’è invece stato il pugliese Birra del Console,
aperto nel 2016 da Dario – appunto – Console; che, fedele alla
sua filosofia per cui “e che è, siccome noi siamo italiani e
quindi dobbiamo essere creativi, adesso qualsiasi brodaglia viene
spacciata per la reinterpretazione di uno stile?????” produce
quattro birre estremamente semplici, lineari e bevibili; riservandosi
appunto di sperimentare in futuro, quando avrà maggior padronanza
degli stili di base. In realtà proprio la
più semplice di queste birre, una golden ale, un minimo di
sperimentazione ce l’ha: utilizza infatti luppoli continentali, i
cui aromi floreali ed erbacei peraltro ben si accostano al leggero
fruttato (voluto) del lievito, rendendola un po’ “la cugina ad
alta fermentazione” delle lager chiare continentali. Fresca,
bevibile e caratterizzata al tempo stesso, per una bevuta spensierata
ma non banale. In lista c’è poi una
Blanche, volutamente “scarica” sia sotto il profilo della
speziatura di arancia e coriandolo che sotto quello del corpo – un
po’ troppo, a mio avviso – e che gioca su una particolare
secchezza dovuta all’utilizzo di un secondo lievito particolarmente
attenuante; e una strong bitter e una american ipa, entrambe in pieno
stile. Nel complesso un birrificio che in
questi primi tre anni di attività mi pare aver già sviluppato
una sua linea di lavoro, e che con ulteriori consolidamenti dati
dall’esperienza può
mirare a svilupparla ulteriormente dando maggior personalità alla
sua produzione senza perdere la semplicità e pulizia di base che ha
dimostrato di saper dare.
Concludo
con un ringraziamento a tutti i birrifici che hanno partecipato alle
degustazioni e che mi hanno accolta ai loro stand.
martedì 29 ottobre 2019
Ein Prosit!
Approfittando del fatto che il tutto accadeva a poca distanza da casa mia, ho per la prima volta fatto un giro a Ein Prosit - consolidata manifestazione enogastronomica friulana organizzata da Co. Pro. Tur., giunta ormai alla ventunesima edizione. Pur in mezzo a tante cantine, che costituiscono il "nocciolo duro" degli espositori, già da qualche anno hanno fatto la loro comparsa i birrifici artigianali della Regione; quest'anno tre - Cittavecchia, Gjulia, e il debuttante 620 Passi. Il tutto "condito" da alcuni laboratori di degustazione condotti da Eugenio Signoroni, con birre di spessore in listino - basti citare quelle di Barley, Cantillon, 3 Fonteinen, Oud Beersel, Ca' del Brado e Asso di Coppe, per nominarne solo alcune.
Senz'altro è buona cosa che le birre artigianali abbiano avuto uno spazio all'interno di una manifestazione che vuole porsi come evento indirizzato ad espositori e ad un pubblico di alto livello, portando in città chef stellati e nomi di prestigio. Ammetto però che mi ha lasciata un po' perplessa vedere i birrifici messi nella sezione delle gastronomie, nell'ambito di una suddivisione tra tutto ciò che è vino e tutto ciò che non lo è: ne capisco la logica, ma avrei visto meglio una suddivisione tra cibi e bevande - per quanto probabilmente sarebbe stata poco capita da un pubblico che dalla mostra-assaggio di Ein Prosit si aspetta appunto di trovare un'area riservata alle cantine, specie in una Regione in cui lo status del vino è indiscusso. E' vero che non è utile andare a rinfocolare sterili rivalità tra birra e vino, ma credo che "mettere ogni cosa al suo posto", dividendo appunto piuttosto tra bevande e cibi (e faccio notare che anche le grappe di un colosso come Nonino erano nella sezione gastronomia), aiuti piuttosto a superare le contrapposizioni. Così come non mi sarebbe dispiaciuto, per quanto le degustazioni in sé e per sé siano slegate dalla mostra-assaggio, vedere qualche birrificio locale parteciparvi. Semplici opinioni personali, e quindi prendetele come tali.
Ma veniamo a ciò che ho assaggiato. Da Cittavecchia sono partita da Andre, la loro Ipa realizzata in collaborazione con I bambini delle Fate, e i cui proventi sono in parte destinati a questa impresa sociale. Una ipa che, nonostante i lievi aromi agrumati dati dal cascade in aroma, rimane comunque intrinsecamente britannica - Fuggle e East Kent Golding - soprattutto per quanto riguarda il taglio amaro erbaceo finale. Beverina ma non ruffiana, per gli amanti delle ipa non troppo impegnative ma "veraci". Interessante poi la versione cherry della stout Karnera, con sciroppo di amarena aggiunto in fermentazione, su mash leggermente meno zuccherino appunto in previsione dell'aggiunta di frutta. L'amarena si coglie appena in aroma, dove continuano a dominare il caffè e il tostato, così come nel corpo; ricompare in chiusura con un gioco tra l'acidulo e il dolce, ma ben integrato con la componente amaro-acidula del malto tostato in un incastro di contrasti che alla fine lascia una persistenza amalgamata. Da segnalare infine la Saison Goriot, che quest'anno verrà anche presentata in versione birra di Natale: la tradizionale speziatura del lievito è arricchita dal cardamomo e dall'arancia, ben percepibili - soprattutto il cardamomo - ma non soverchianti, integrate in un corpo dal cereale discretamente caldo per lo stile ma scorrevole. Per chi ama le speziature calde, ma preferisce una birra meno corposa delle tradizionali natalizie.
Ho avuto poi il piacere di conoscere 620 Passi, nato come beerfirm (presso Bradipongo) a Marano Lagunare, ed ora in procinto di inaugurare il proprio impianto. Sono partita dalla lager Arsura, che nonostante un pizzico di Citra può dire di rispettare a pieno i tradizionali canoni continentali - la fanno piuttosto da padroni Hersbrucker e Premiant, sul classico corpo di cereale fragrante -; per poi passare alla ipa Fipa - anche in questo caso una ipa che, pur nella luppolatura interamente americana di amarillo, mosaic e simcoe rifugge qualsiasi ruffianesimo eccessivamente tropical-fruttato, per privilegiare di più la componente acre dell'agrume soprattutto in chiusura -; e infine la Belgian Ale Cortona, pienamente in stile nonostante la luppolatura americana - una luppolatura che "c'è ma non si sente", come di regola nelle birre belghe, per privilegiare il lievito - e un corpo più scorrevole della media nonostante la pienezza maltata, per amor di bevibilità. Nel complesso, birre che mirano ad essere facilmente bevibili nella loro semplicità, ma che non mirano al voler sedurre a tutti i costi per raggiungere questo obiettivo.
In quanto a Gjulia, ho "finalmente" - nel senso che da tanto tempo ne sentivo parlare - provato la Iga Ribò, con Ribolla Gialla. Discretamente delicata come Iga, le note tra il fruttato e il floreale della ribolla ben amalgamate con il malto sia all'aroma che al palato, dove emerge anche una certa sapidità; e poi il Barley Wine, dove la fa da padrone il profumo e il sapore del legno dati i 18 mesi di barricatura.
Un grazie ai birrifici presenti per la calorosa accoglienza ai loro stand.
Senz'altro è buona cosa che le birre artigianali abbiano avuto uno spazio all'interno di una manifestazione che vuole porsi come evento indirizzato ad espositori e ad un pubblico di alto livello, portando in città chef stellati e nomi di prestigio. Ammetto però che mi ha lasciata un po' perplessa vedere i birrifici messi nella sezione delle gastronomie, nell'ambito di una suddivisione tra tutto ciò che è vino e tutto ciò che non lo è: ne capisco la logica, ma avrei visto meglio una suddivisione tra cibi e bevande - per quanto probabilmente sarebbe stata poco capita da un pubblico che dalla mostra-assaggio di Ein Prosit si aspetta appunto di trovare un'area riservata alle cantine, specie in una Regione in cui lo status del vino è indiscusso. E' vero che non è utile andare a rinfocolare sterili rivalità tra birra e vino, ma credo che "mettere ogni cosa al suo posto", dividendo appunto piuttosto tra bevande e cibi (e faccio notare che anche le grappe di un colosso come Nonino erano nella sezione gastronomia), aiuti piuttosto a superare le contrapposizioni. Così come non mi sarebbe dispiaciuto, per quanto le degustazioni in sé e per sé siano slegate dalla mostra-assaggio, vedere qualche birrificio locale parteciparvi. Semplici opinioni personali, e quindi prendetele come tali.
Ma veniamo a ciò che ho assaggiato. Da Cittavecchia sono partita da Andre, la loro Ipa realizzata in collaborazione con I bambini delle Fate, e i cui proventi sono in parte destinati a questa impresa sociale. Una ipa che, nonostante i lievi aromi agrumati dati dal cascade in aroma, rimane comunque intrinsecamente britannica - Fuggle e East Kent Golding - soprattutto per quanto riguarda il taglio amaro erbaceo finale. Beverina ma non ruffiana, per gli amanti delle ipa non troppo impegnative ma "veraci". Interessante poi la versione cherry della stout Karnera, con sciroppo di amarena aggiunto in fermentazione, su mash leggermente meno zuccherino appunto in previsione dell'aggiunta di frutta. L'amarena si coglie appena in aroma, dove continuano a dominare il caffè e il tostato, così come nel corpo; ricompare in chiusura con un gioco tra l'acidulo e il dolce, ma ben integrato con la componente amaro-acidula del malto tostato in un incastro di contrasti che alla fine lascia una persistenza amalgamata. Da segnalare infine la Saison Goriot, che quest'anno verrà anche presentata in versione birra di Natale: la tradizionale speziatura del lievito è arricchita dal cardamomo e dall'arancia, ben percepibili - soprattutto il cardamomo - ma non soverchianti, integrate in un corpo dal cereale discretamente caldo per lo stile ma scorrevole. Per chi ama le speziature calde, ma preferisce una birra meno corposa delle tradizionali natalizie.
Ho avuto poi il piacere di conoscere 620 Passi, nato come beerfirm (presso Bradipongo) a Marano Lagunare, ed ora in procinto di inaugurare il proprio impianto. Sono partita dalla lager Arsura, che nonostante un pizzico di Citra può dire di rispettare a pieno i tradizionali canoni continentali - la fanno piuttosto da padroni Hersbrucker e Premiant, sul classico corpo di cereale fragrante -; per poi passare alla ipa Fipa - anche in questo caso una ipa che, pur nella luppolatura interamente americana di amarillo, mosaic e simcoe rifugge qualsiasi ruffianesimo eccessivamente tropical-fruttato, per privilegiare di più la componente acre dell'agrume soprattutto in chiusura -; e infine la Belgian Ale Cortona, pienamente in stile nonostante la luppolatura americana - una luppolatura che "c'è ma non si sente", come di regola nelle birre belghe, per privilegiare il lievito - e un corpo più scorrevole della media nonostante la pienezza maltata, per amor di bevibilità. Nel complesso, birre che mirano ad essere facilmente bevibili nella loro semplicità, ma che non mirano al voler sedurre a tutti i costi per raggiungere questo obiettivo.
In quanto a Gjulia, ho "finalmente" - nel senso che da tanto tempo ne sentivo parlare - provato la Iga Ribò, con Ribolla Gialla. Discretamente delicata come Iga, le note tra il fruttato e il floreale della ribolla ben amalgamate con il malto sia all'aroma che al palato, dove emerge anche una certa sapidità; e poi il Barley Wine, dove la fa da padrone il profumo e il sapore del legno dati i 18 mesi di barricatura.
Un grazie ai birrifici presenti per la calorosa accoglienza ai loro stand.
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domenica 27 ottobre 2019
La birra in fabbrica a Corno di Rosazzo
Anche quest'anno mi sono concessa un giro a "Fusti - La birra in fabbrica", piccolo festival birrario organizzato nella propria tap room dal Birrificio Campestre di Corno di Rosazzo. Piccolo, ma neanche tanto: come già mi sono trovata a considerare lo scorso anno, è comunque notevole come una realtà di dimensioni ridotte in un paesino sconosciuto (se non agli amanti del vino) riesca a fungere da catalizzatore per nove birrifici regionali, una ventina di birre - numeri in crescita rispetto all'edizione passata - ed un pubblico tutto sommato consistente per un comune di 3000 abitanti. Per carità, non è l'Happy Beerthday Foglie d'Erba di Forni di Sopra (birrificio che comunque ha partecipato, a riprova del fatto che è una manifestazione in cui crede); ma non è neanche possibile fare il paragone tra una realtà ormai più che consolidata come Foglie d'Erba e il Campestre, che ha meno della metà dei suoi anni e una produzione e distribuzione assai più contenute. Questo per dire, una volta di più, che quello del "piccolo festival tra birrifici amici" è un format che si adatta a questa realtà, e che Giulio Cristancig ha avuto la felice intuizione di portare nella sua tap room.
A parte ciò, in realtà non erano molte le birre per me nuove in listino; ma è stato comunque un piacere riprovarne alcune che già conoscevo in virtù di variazioni alla ricetta, o semplicemente per l'opportunità di degustarle direttamente con il birraio se in passato non l'avevo avuta. E' stato il caso ad esempio della Basei del birrificio omonimo, ispirata alle Koelsch, e che avevo provato l'anno scorso all'inaugurazione del birrificio: la ricetta attuale è più improntata sulla corposità e fragranza del cereale, vero pane liquido appena sfornato senza però indulgere nel miele, e meno sulla componente aromatica - anche fin troppo poco, a mio parere, dato che la luppolatura sia in amaro che in aroma è appena percettibile. Bisogna riconoscere però a Giuseppe Ciutto che ha saputo far lavorare bene il lievito, sia per l'assenza totale di aromi fermentativi inappropriati (che a volte nelle Koelsch mi è capitato di trovare) che per la secchezza e pulizia finale, che lascia la bocca fresca pur nella gran sobrietà della luppolatura a cui accennavo sopra.
Per la prima volta ho avuto occasione di bere con il birraio la Blanche Dreon di Meni: fondamentalmente in stile, pur puntando in maniera piuttosto decisa sulla speziatura sia in aroma che sul finale - grazie all'aggiunta di pepe bianco, che lascia una leggera persistenza piccante che sicuramente sarebbe interessante abbinare a qualche piatto. Penso ad esempio ad una tagliata di pollo.
Novità assoluta invece la Triple Threat, la Tripel appena sfornata da Antica Contea, e che prende il nome da una mossa del basket. Anche in questo caso, mi sono trovata a scherzare con il birraio Costantino su come Antica Contea a fare birre non britanniche ci provi, e magari anche con ottimi risultati in termini di piacevolezza della bevuta; però metterci almeno un elemento che ricordi una birra britannica, così come era stato per la Vienna che aveva un taglio amaro che mi ricordava piuttosto quello delle bitter, è più forte di loro. In questo caso infatti il tipico aroma speziato da lievito belga è appena percettibile, mentre nel corpo esce in forze un caramello biscottato che fa pensare ad una strong scotch ale; prima di chiudere su un finale relativamente secco per lo stile, a beneficio di bevibilità nonostante gli otto gradi alcolici - valore imprescindibile per Antica Contea. Vi piacerà se amate le birre corpose e maltate come appunto le belghe, ma nonostante ciò le trovate a volte ardue da bere.
Da ultimo sono ritornata sulla Non aprite quella Porter, la Porter al cardamomo e scorza d'arancia di Campestre. Cardamomo decisamente riconoscibile, sia in aroma che sul finale dove dà una nota balsamica, ma comunque ben amalgamato sia con il leggero agrumato dell'arancia che con a componente tostata; secca e beverina come una Porter dev'essere, pur nella sua originalità.
Concludo con un grazie a tutti i birrifici e birrai presenti - Campestre, Foglie d'Erba, Villa Chazil, The Lure, Meni, Galassia, Antica Contea, Garlatti Costa e Basei, in ordine assolutamente casuale - e in particolare al padrone di casa Giulio Cristancig.
Per la prima volta ho avuto occasione di bere con il birraio la Blanche Dreon di Meni: fondamentalmente in stile, pur puntando in maniera piuttosto decisa sulla speziatura sia in aroma che sul finale - grazie all'aggiunta di pepe bianco, che lascia una leggera persistenza piccante che sicuramente sarebbe interessante abbinare a qualche piatto. Penso ad esempio ad una tagliata di pollo.
Novità assoluta invece la Triple Threat, la Tripel appena sfornata da Antica Contea, e che prende il nome da una mossa del basket. Anche in questo caso, mi sono trovata a scherzare con il birraio Costantino su come Antica Contea a fare birre non britanniche ci provi, e magari anche con ottimi risultati in termini di piacevolezza della bevuta; però metterci almeno un elemento che ricordi una birra britannica, così come era stato per la Vienna che aveva un taglio amaro che mi ricordava piuttosto quello delle bitter, è più forte di loro. In questo caso infatti il tipico aroma speziato da lievito belga è appena percettibile, mentre nel corpo esce in forze un caramello biscottato che fa pensare ad una strong scotch ale; prima di chiudere su un finale relativamente secco per lo stile, a beneficio di bevibilità nonostante gli otto gradi alcolici - valore imprescindibile per Antica Contea. Vi piacerà se amate le birre corpose e maltate come appunto le belghe, ma nonostante ciò le trovate a volte ardue da bere.
Da ultimo sono ritornata sulla Non aprite quella Porter, la Porter al cardamomo e scorza d'arancia di Campestre. Cardamomo decisamente riconoscibile, sia in aroma che sul finale dove dà una nota balsamica, ma comunque ben amalgamato sia con il leggero agrumato dell'arancia che con a componente tostata; secca e beverina come una Porter dev'essere, pur nella sua originalità.
Concludo con un grazie a tutti i birrifici e birrai presenti - Campestre, Foglie d'Erba, Villa Chazil, The Lure, Meni, Galassia, Antica Contea, Garlatti Costa e Basei, in ordine assolutamente casuale - e in particolare al padrone di casa Giulio Cristancig.
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lunedì 14 ottobre 2019
Ritorno al festival Nonsolobirra
Anche quest'anno sono ritornata volentieri in quel di Marano Vicentino per Nonsolobirra; che peraltro vedeva alcune nuove partecipazioni, accanto a nomi più "affezionati".
Nuovo anche per me era Barbaforte, birrificio di Folgaria (TN), guidato dal vulcanico birraio Matteo. Il nome viene dalla pianta meglio conosciuta con il nome di rafano, dalla cui radice si ricava il noto cren; di cui Matteo è particolarmente appassionato, tanto da utilizzarla anche in una delle birre - la saison Quadro. Delle sei birre che aveva portato a Marano, questa è forse la più rappresentativa e caratterizzata: ai profumi speziati del tipico lievito si accostano le note della radice di genziana - anch'essa presente - e una peculiarità sempre erbaceo-balsamica data dal rafano; non invasive in bocca dove torna a dominare il cereale, prima di una chiusura di un amaro delicato ma deciso sui toni appunto della genziana e del rafano. Equilibrata nell'insieme, nonostante la complessità. Da segnalare anche la Golden Ale San Lorenzo - che in una degustazione alla cieca si potrebbe quasi prendere per una lager, data la componente di esteri pressoché assente, la luppolatura floreale elegante e il corpo di cereale e miele pieno e fragrante ma estremamente pulito - e la oatmeal stout Trifoglio, che fugge da qualsiasi ruffianesimo cioccolatoso per prediligere i toni tostati e di acidulo da malto tostato, per amor di beverinità- anche in virtù della scarsa persistenza. Ottima peraltro la schiuma, valorizzata dalla spillatura a pompa.
Novità per me è stato anche il birrificio Leder, portato a Marano da Diexe distribuzione; in particolare il buon Roberto ha portato la loro Bohemian Dunkel, una lager scura che libera nel corpo pieno e caldo tutta la forza del cereale tostato tra il caffè e il pane nero, come onestamente mi era capitato di trovare solo appunto in Boemia. Molto contenuto l'amaro, e poco persistente nel complesso nonostante la forza gustativa.
Novità non come birrificio ma come birre sono state la Hoppy Hour e la Mohjto del Jeb. La prima è una sui generis, una ale leggermente ambrata con ginepro, zenzero, scorza d'arancia, bergamotto e pepe di Sichuan. Ammetto che, quando Chiara mi ha detto di averla pensata per l'aperitivo (da cui il nome) ero rimasta perplessa, perché mi dava l'idea di una birra dai sapori piuttosto forti; invece è estremamente bilanciata ed elegante, con un aroma ben integrato e non soverchiante tra le varie componenti, un corpo snello ma non evanescente con qualche nota di biscotto, e un finale in cui ritorna il balsamico del ginepro e un interessante gioco tra le due speziature complementari di zenzero e pepe. Necessita di poche descrizioni la Mohjto, nel senso che, pur rimanendo una birra e non un cocktail, è esattamente come ve la aspettereste dal nome: profumi di lime e zenzero con i relativi sapori che accompagnano tutta la bevuta, estremamente fresca e scorrevole.
Infine ho conosciuto, come "fuori concorso" (nel senso che non partecipava al festival, ma all'evento organizzato da Le Donne della Birra) Birrachiara, di Chiara De Pisi; con le sue due etichette, la 23 e la Marea. La prima è una birra appunto chiara che gioca sul filo tra l'alta e la bassa fermentazione, nel senso che utilizza un lievito da bassa fatto lavorare ad una temperatura leggermente più alta; colore dorato, velata, schiuma bianca e pannosa, aromi tra il floreale e il cereale con una nota di miele e leggerissimi esteri; nota che si ripropone in bocca nel corpo snello ma non evanescente, prima del finale di un amaro erbaceo moderato e poco persistente. La seconda è una session ipa dai caratteristici profumi di agrumi e frutta tropicale, uniti al caramello del malto - come del resto intuibile dal colore ambrato -; in bocca la componente del malto vira quasi più sulla nocciola caramellata e sul biscotto, prima di un finale in cui, insieme all'agrume, torna anche una leggera nota balsamica e terrosa mediamente persistente. Nell'insieme due birre che denotano un risultato apprezzabile per un birrificio che ha aperto da poco e quindi giocoforza sta ancora "aggiustando il tiro"; e da una birraia che, in età non più giovanissima, ha intrapreso questo percorso da autodidatta e appoggiandosi ad altri birrai.
Concludo con un ringraziamento a tutti i birrai e agli organizzatori, nonché con le congratulazioni a Chiara Baù che anche quest'anno ha ottenuto per il Jeb il titolo di miglior birrificio del festival con i voti del pubblico.
Nuovo anche per me era Barbaforte, birrificio di Folgaria (TN), guidato dal vulcanico birraio Matteo. Il nome viene dalla pianta meglio conosciuta con il nome di rafano, dalla cui radice si ricava il noto cren; di cui Matteo è particolarmente appassionato, tanto da utilizzarla anche in una delle birre - la saison Quadro. Delle sei birre che aveva portato a Marano, questa è forse la più rappresentativa e caratterizzata: ai profumi speziati del tipico lievito si accostano le note della radice di genziana - anch'essa presente - e una peculiarità sempre erbaceo-balsamica data dal rafano; non invasive in bocca dove torna a dominare il cereale, prima di una chiusura di un amaro delicato ma deciso sui toni appunto della genziana e del rafano. Equilibrata nell'insieme, nonostante la complessità. Da segnalare anche la Golden Ale San Lorenzo - che in una degustazione alla cieca si potrebbe quasi prendere per una lager, data la componente di esteri pressoché assente, la luppolatura floreale elegante e il corpo di cereale e miele pieno e fragrante ma estremamente pulito - e la oatmeal stout Trifoglio, che fugge da qualsiasi ruffianesimo cioccolatoso per prediligere i toni tostati e di acidulo da malto tostato, per amor di beverinità- anche in virtù della scarsa persistenza. Ottima peraltro la schiuma, valorizzata dalla spillatura a pompa.
Novità per me è stato anche il birrificio Leder, portato a Marano da Diexe distribuzione; in particolare il buon Roberto ha portato la loro Bohemian Dunkel, una lager scura che libera nel corpo pieno e caldo tutta la forza del cereale tostato tra il caffè e il pane nero, come onestamente mi era capitato di trovare solo appunto in Boemia. Molto contenuto l'amaro, e poco persistente nel complesso nonostante la forza gustativa.
Novità non come birrificio ma come birre sono state la Hoppy Hour e la Mohjto del Jeb. La prima è una sui generis, una ale leggermente ambrata con ginepro, zenzero, scorza d'arancia, bergamotto e pepe di Sichuan. Ammetto che, quando Chiara mi ha detto di averla pensata per l'aperitivo (da cui il nome) ero rimasta perplessa, perché mi dava l'idea di una birra dai sapori piuttosto forti; invece è estremamente bilanciata ed elegante, con un aroma ben integrato e non soverchiante tra le varie componenti, un corpo snello ma non evanescente con qualche nota di biscotto, e un finale in cui ritorna il balsamico del ginepro e un interessante gioco tra le due speziature complementari di zenzero e pepe. Necessita di poche descrizioni la Mohjto, nel senso che, pur rimanendo una birra e non un cocktail, è esattamente come ve la aspettereste dal nome: profumi di lime e zenzero con i relativi sapori che accompagnano tutta la bevuta, estremamente fresca e scorrevole.
Infine ho conosciuto, come "fuori concorso" (nel senso che non partecipava al festival, ma all'evento organizzato da Le Donne della Birra) Birrachiara, di Chiara De Pisi; con le sue due etichette, la 23 e la Marea. La prima è una birra appunto chiara che gioca sul filo tra l'alta e la bassa fermentazione, nel senso che utilizza un lievito da bassa fatto lavorare ad una temperatura leggermente più alta; colore dorato, velata, schiuma bianca e pannosa, aromi tra il floreale e il cereale con una nota di miele e leggerissimi esteri; nota che si ripropone in bocca nel corpo snello ma non evanescente, prima del finale di un amaro erbaceo moderato e poco persistente. La seconda è una session ipa dai caratteristici profumi di agrumi e frutta tropicale, uniti al caramello del malto - come del resto intuibile dal colore ambrato -; in bocca la componente del malto vira quasi più sulla nocciola caramellata e sul biscotto, prima di un finale in cui, insieme all'agrume, torna anche una leggera nota balsamica e terrosa mediamente persistente. Nell'insieme due birre che denotano un risultato apprezzabile per un birrificio che ha aperto da poco e quindi giocoforza sta ancora "aggiustando il tiro"; e da una birraia che, in età non più giovanissima, ha intrapreso questo percorso da autodidatta e appoggiandosi ad altri birrai.
Concludo con un ringraziamento a tutti i birrai e agli organizzatori, nonché con le congratulazioni a Chiara Baù che anche quest'anno ha ottenuto per il Jeb il titolo di miglior birrificio del festival con i voti del pubblico.
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giovedì 3 ottobre 2019
Eventi estivi e pensieri in libertà
Per quanto nel mio blog ci sia stato un "buco" tra fine luglio e fine settembre, ho comunque preso parte ad alcuni eventi e degustazioni; per diletto, più che per questioni professionali. Tra questi segnalo in particolare la Festa del Luppolo a Villa Chazil, l'8 settembre, con un'interessante mattinata dedicata ad interventi di esperti nella coltivazione e utilizzo di questa pianta (il coltivatore amatoriale Gianluca Bertozzi, l'agronomo Antonio Noacco, e lo staff di Mr Malt) e degustazione finale con Le Donne della Birra; e le degustazioni dell'Associazione Artigiani Birrai Fvg a Friulidoc, quest'anno per la prima volta nella prestigiosa cornice di piazza San Giacomo - risultato notevole, a riprova della reputazione ormai raggiunta dalla birra artigianale in Regione e dai birrai di conseguenza.
Mi è però dispiaciuto constatare che, in alcune occasioni, per amor di "arrivare al grande pubblico" si sia semplificato così tanto il messaggio da cadere in mancanze significative. Benissimo, per rendere il tutto più appetibile, affidare la conduzione dell'evento a showmen o showwomen di provato spessore (per quanto non ne sappiano nulla di birra): ma se poi uno di questi se ne esce con un "A me piace la birra non filtrata, che è quella di frumento", abbiamo un problema. E poco conta avere il birraio a fianco se a questi non viene data la parola, né lui ha verve necessaria ad inserirsi e replicare. Così come, se il birraio non sa rispondere nel dettaglio a domande tutt'altro che banali su storia e cultura della birra - e non ne faccio colpa ai birrai, nessuno può sapere tutto di tutto -, è bene che accanto a lui a condurre ci sia qualcuno adeguatamente formato per farlo. E sì, sto tirando l'acqua al mio mulino: però credo sia un dato di fatto che, così come il biersommelier non sarebbe la persona giusta per discettare di contenuto di alfa acidi di un certo tipo di luppolo, allo stesso modo un birraio che risponde di "credere" che la birra sia nata in Mesopotamia non è la persona giusta per discettare di storia. O, se glissa quando viene chiesto dal pubblico quale sia il bicchiere più adatto per degustare la birra in questione, forse è utile che espanda la sua formazione al di là di ciò che concerne il processo produttivo. O ancora, ho visto birre servite in maniera tale da pregiudicarne le caratteristiche. Cose capitate, naturalmente, non tutte nella stessa occasione; ma che mi hanno dato da pensare. Preciso che non faccio nomi perché, nell'ambito degli stessi eventi, c'erano anche birrai o conduttori che invece hanno lavorato benissimo, e che troverei ingiusto esporre.
La cosa mi ha lasciata perplessa tanto più perché ho sentito fare domande molto più "serie" e pertinenti che in passato da parte del pubblico. Indice che si sta creando una certa conoscenza nei confronti della birra; e che c'è gente che questa conoscenza ha voglia di espanderla. In questo senso è cruciale che, per rispondere a questa evoluzione della platea e stimolarla ulteriormente, le iniziative di comunicazione e diffusione mettano insieme più professionalità complementari: per rimanere nell'ambito di un esempio già citato, la Festa del Luppolo a Villa Chazil (nella foto sopra) ha riunito birraio, agronomo, amatore, rivenditore e consulente e biersommelier, andando a illustrare il tema e a rispondere - ciascuno per il suo ambito di competenza - a tutte le domande del pubblico. Non basta più dire "chiamo il birraio, spiegherà lui la sua birra", o "chiamo il degustatore, descriverà lui che cosa c'è nel bicchiere": la curiosità del pubblico è sempre più a tutto tondo. Una cosa è semplificare il messaggio perché sia comprensibile da tutti - cosa difficilissima da fare, e per la quale serve professionalità -, altra cosa è svilirlo.
Uso spesso citare due massime che mi porto dietro dalla scuola di giornalismo, dettemi da due docenti. La prima è "Non dovete scrivere come parlate, ma parlare come scrivete". La semplificazione del messaggio non passa attraverso il colloquialismo, ma attraverso una cura profonda del proprio modo di esprimersi. La seconda è "Una fonte non deve essere solo attendibile, ma anche pertinente". Ossia non deve solo dire la verità, ma anche avere le competenze per dirla; perché altrimenti il messaggio potrebbe essere vero di per sé ma incompleto, impreciso o fuorviante. Credo siano due massime da tenere a mente anche nel fare cultura birraria.
Mi è però dispiaciuto constatare che, in alcune occasioni, per amor di "arrivare al grande pubblico" si sia semplificato così tanto il messaggio da cadere in mancanze significative. Benissimo, per rendere il tutto più appetibile, affidare la conduzione dell'evento a showmen o showwomen di provato spessore (per quanto non ne sappiano nulla di birra): ma se poi uno di questi se ne esce con un "A me piace la birra non filtrata, che è quella di frumento", abbiamo un problema. E poco conta avere il birraio a fianco se a questi non viene data la parola, né lui ha verve necessaria ad inserirsi e replicare. Così come, se il birraio non sa rispondere nel dettaglio a domande tutt'altro che banali su storia e cultura della birra - e non ne faccio colpa ai birrai, nessuno può sapere tutto di tutto -, è bene che accanto a lui a condurre ci sia qualcuno adeguatamente formato per farlo. E sì, sto tirando l'acqua al mio mulino: però credo sia un dato di fatto che, così come il biersommelier non sarebbe la persona giusta per discettare di contenuto di alfa acidi di un certo tipo di luppolo, allo stesso modo un birraio che risponde di "credere" che la birra sia nata in Mesopotamia non è la persona giusta per discettare di storia. O, se glissa quando viene chiesto dal pubblico quale sia il bicchiere più adatto per degustare la birra in questione, forse è utile che espanda la sua formazione al di là di ciò che concerne il processo produttivo. O ancora, ho visto birre servite in maniera tale da pregiudicarne le caratteristiche. Cose capitate, naturalmente, non tutte nella stessa occasione; ma che mi hanno dato da pensare. Preciso che non faccio nomi perché, nell'ambito degli stessi eventi, c'erano anche birrai o conduttori che invece hanno lavorato benissimo, e che troverei ingiusto esporre.
La cosa mi ha lasciata perplessa tanto più perché ho sentito fare domande molto più "serie" e pertinenti che in passato da parte del pubblico. Indice che si sta creando una certa conoscenza nei confronti della birra; e che c'è gente che questa conoscenza ha voglia di espanderla. In questo senso è cruciale che, per rispondere a questa evoluzione della platea e stimolarla ulteriormente, le iniziative di comunicazione e diffusione mettano insieme più professionalità complementari: per rimanere nell'ambito di un esempio già citato, la Festa del Luppolo a Villa Chazil (nella foto sopra) ha riunito birraio, agronomo, amatore, rivenditore e consulente e biersommelier, andando a illustrare il tema e a rispondere - ciascuno per il suo ambito di competenza - a tutte le domande del pubblico. Non basta più dire "chiamo il birraio, spiegherà lui la sua birra", o "chiamo il degustatore, descriverà lui che cosa c'è nel bicchiere": la curiosità del pubblico è sempre più a tutto tondo. Una cosa è semplificare il messaggio perché sia comprensibile da tutti - cosa difficilissima da fare, e per la quale serve professionalità -, altra cosa è svilirlo.
Uso spesso citare due massime che mi porto dietro dalla scuola di giornalismo, dettemi da due docenti. La prima è "Non dovete scrivere come parlate, ma parlare come scrivete". La semplificazione del messaggio non passa attraverso il colloquialismo, ma attraverso una cura profonda del proprio modo di esprimersi. La seconda è "Una fonte non deve essere solo attendibile, ma anche pertinente". Ossia non deve solo dire la verità, ma anche avere le competenze per dirla; perché altrimenti il messaggio potrebbe essere vero di per sé ma incompleto, impreciso o fuorviante. Credo siano due massime da tenere a mente anche nel fare cultura birraria.
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mercoledì 25 settembre 2019
In una nuova Galassia
Ho avuto l'opportunità e il piacere di partecipare alla visita in anteprima al nuovo stabilimento di Birra Galassia; che, dopo anni di onorato beerfirm, sta per avviare il proprio impianto a Pordenone - riportando la produzione di birra in città dopo oltre un secolo.
L'impianto è di dimensioni contenute - 3 hl -; consono tuttavia non solo a quelle che possono realisticamente essere le ambizioni quantitative in questo momento, ma anche alla propensione alla creazione di birre sperimentali (che ancora escono dal loro impianto pilota casalingo). Parlando con i ragazzi, ho colto quasi del sollievo nel fatto di avere d'ora in poi la prospettiva di quantità più piccole rispetto a quelle richieste dai birrifici dove facevano beerfirm: molto spesso trovano infatti necessario lavorare su scala più piccola per svariate ragioni - dal fatto che le birre sperimentali hanno oggettivamente un mercato più ristretto, a questioni legate più strettamente al processo produttivo e agli ingredienti. Senza contare, aggiungo io, che il fatto di fare beerfirm pone un problema di costanza delle birre: anche dando per buona l'abilità sia del beerfirmer che del mastro birraio titolare, è evidente che, a meno di non rivolgersi sempre allo stesso birrificio, la stessa ricetta in impianti diversi risulterà inevitabilmente diversa.
Con l'occasione i ragazzi avevano allestito anche una degustazione con abbinamenti gastronomici curati da due di loro, Christian Gusso - forte della sua esperienza in cucina all'Urban Farmhouse - e Davide Bernardini. In prima battuta crostini di prosciutto crudo, stracchino della latteria di Taiedo e composta di Figo Moro di Caneva abbinati alla "American Koelsch" Apollo - che ho trovato più in forma del solito, nella misura in cui ho percepito un maggiore e apprezzabile equilibrio tra l'anima tedesca dello stile di base e la delicata luppolatura americana, che si coglie ma non snatura -; quindi crostino di pancetta affumicata, mela verde e chutney al peperoncino abbinato alla summer ale Nova versione Mosaic - forse un po' aggressivo per il miei gusti il dry hopping, ma la luppolatura fruttata così decisa ha avuto la sua ottima ragion d'essere nell'accostarsi al chutney, persistendo anche in bocca e contrastando con eleganza il piccante; crostino al frant alle arance della latteria di Taiedo con la "saison ipa" Galassia - interessante il gioco tra l'agrume e lo speziato del lievito belga, per quanto in questa versione l'intensità di quest'ultimo vada a scapito della luppolatura; e spezzatino di guanciale alla "belgian stout" Maan abbinato alla stessa - nuova versione, più "ruffiana" nella misura in cui è più dolce e meno secca. Rimane una delle loro birre meglio riuscite, anche se personalmente preferisco la versione "verace" - che, per quanto inizialmente possa lasciare perplessi per la sua intensità di cacao, caffè e liquirizia, riesce a farsi bere in maniera pericolosamente facile nonostante i 10 gradi in virtù di secchezza ed equilibrio nella complessità. Nel complesso tutti abbinamenti ben riusciti, in particolare il secondo, nel gioco appunto tra chutney e luppolatura tropicale.
Da ultimo, una considerazione sulla situazione in cui si trova il birrificio. Al momento infatti, pur essendo l'impianto pronto a partire, Birra Galassia è ferma per questioni burocratiche e di interpretazioni della normativa; situazione in cui, ahimé, altri birrifici di mia conoscenza si trovano o si sono trovati. Al di là di quanto certe norme siano o meno giustificate - e diamo pure per buono che lo siano -, la questione è un'altra: che l'applicazione di quelle stesse leggi e regolamenti attuativi che dovrebbero tutelare i piccoli birrifici, come da intenti esplicitamente dichiarati da chi li ha prima promossi e poi approvati, avviene in maniera tale da ostacolarli. Una coincidenza "tragicamente ironica", per dirla con i ragazzi di Galassia, in quanto a tempi e modalità di interpretazione e applicazione. E questo, in una fase storica in cui è necessario incentivare l'imprenditoria, è un grossissimo problema - non solo per i birrifici.
L'impianto è di dimensioni contenute - 3 hl -; consono tuttavia non solo a quelle che possono realisticamente essere le ambizioni quantitative in questo momento, ma anche alla propensione alla creazione di birre sperimentali (che ancora escono dal loro impianto pilota casalingo). Parlando con i ragazzi, ho colto quasi del sollievo nel fatto di avere d'ora in poi la prospettiva di quantità più piccole rispetto a quelle richieste dai birrifici dove facevano beerfirm: molto spesso trovano infatti necessario lavorare su scala più piccola per svariate ragioni - dal fatto che le birre sperimentali hanno oggettivamente un mercato più ristretto, a questioni legate più strettamente al processo produttivo e agli ingredienti. Senza contare, aggiungo io, che il fatto di fare beerfirm pone un problema di costanza delle birre: anche dando per buona l'abilità sia del beerfirmer che del mastro birraio titolare, è evidente che, a meno di non rivolgersi sempre allo stesso birrificio, la stessa ricetta in impianti diversi risulterà inevitabilmente diversa.
Con l'occasione i ragazzi avevano allestito anche una degustazione con abbinamenti gastronomici curati da due di loro, Christian Gusso - forte della sua esperienza in cucina all'Urban Farmhouse - e Davide Bernardini. In prima battuta crostini di prosciutto crudo, stracchino della latteria di Taiedo e composta di Figo Moro di Caneva abbinati alla "American Koelsch" Apollo - che ho trovato più in forma del solito, nella misura in cui ho percepito un maggiore e apprezzabile equilibrio tra l'anima tedesca dello stile di base e la delicata luppolatura americana, che si coglie ma non snatura -; quindi crostino di pancetta affumicata, mela verde e chutney al peperoncino abbinato alla summer ale Nova versione Mosaic - forse un po' aggressivo per il miei gusti il dry hopping, ma la luppolatura fruttata così decisa ha avuto la sua ottima ragion d'essere nell'accostarsi al chutney, persistendo anche in bocca e contrastando con eleganza il piccante; crostino al frant alle arance della latteria di Taiedo con la "saison ipa" Galassia - interessante il gioco tra l'agrume e lo speziato del lievito belga, per quanto in questa versione l'intensità di quest'ultimo vada a scapito della luppolatura; e spezzatino di guanciale alla "belgian stout" Maan abbinato alla stessa - nuova versione, più "ruffiana" nella misura in cui è più dolce e meno secca. Rimane una delle loro birre meglio riuscite, anche se personalmente preferisco la versione "verace" - che, per quanto inizialmente possa lasciare perplessi per la sua intensità di cacao, caffè e liquirizia, riesce a farsi bere in maniera pericolosamente facile nonostante i 10 gradi in virtù di secchezza ed equilibrio nella complessità. Nel complesso tutti abbinamenti ben riusciti, in particolare il secondo, nel gioco appunto tra chutney e luppolatura tropicale.
Da ultimo, una considerazione sulla situazione in cui si trova il birrificio. Al momento infatti, pur essendo l'impianto pronto a partire, Birra Galassia è ferma per questioni burocratiche e di interpretazioni della normativa; situazione in cui, ahimé, altri birrifici di mia conoscenza si trovano o si sono trovati. Al di là di quanto certe norme siano o meno giustificate - e diamo pure per buono che lo siano -, la questione è un'altra: che l'applicazione di quelle stesse leggi e regolamenti attuativi che dovrebbero tutelare i piccoli birrifici, come da intenti esplicitamente dichiarati da chi li ha prima promossi e poi approvati, avviene in maniera tale da ostacolarli. Una coincidenza "tragicamente ironica", per dirla con i ragazzi di Galassia, in quanto a tempi e modalità di interpretazione e applicazione. E questo, in una fase storica in cui è necessario incentivare l'imprenditoria, è un grossissimo problema - non solo per i birrifici.
sabato 27 luglio 2019
Nuove conoscenze in Zardin Grant
Per i non udinesi, specifico che "Zardin Grant" ("giardino grande", trattandosi di fatto di un parco) è l'antico toponimo di Piazza Primo Maggio; dove anche quest'anno si è svolta la festa della birra. Mi permetto di osservare che mi ha lasciata assai perplessa il balletto che c'è stato tra il chiamarla "festa della birra artigianale" in alcuni contesti, e semplicemente "festa della birra" nelle locandine; e l'aver visto circolare comunicati stampa che parlavano di "artigianale Ichnusa" tra le birre presenti. Della serie, una comunicazione corretta in questo campo è purtroppo ancora ben al di là da venire, e sono pochi gli addetti stampa e comunicazione adeguatamente formati. Il tema richiederebbe comunque ben più di un semplice post, e quindi chiudo, giusto per la semplice e narcisistica soddisfazione di essermi tolta il sassolino dalla scarpa.
Nella veloce toccata e fuga che ho fatto ho avuto modo di conoscere un birrificio del vicentino, il Kraken, aperto da Massimo Cracco e Nicola Randon nel 2017. I due si definiscono "birrai per passione"; tuttavia, per tornare al punto secondo cui la storia dell'homebrewer che passa direttamente dalle pentole nel garage alla sala cotta è ormai storia passata, anche in questo caso ci sono altre competenze di base oltre al saper fare la birra in casa. Massimo è infatti un tecnologo alimentare che ha studiato a Udine con il noto prof. Buiatti, mentre Nicola ha competenze in ambito commerciale. La loro filosofia è quella di fare birre che abbiano sì un tocco di originalità, principalmente orientato alla facilità di beva, ma che comunque non stravolgano gli stili; e al momento ne hanno sei a listino - di cui una stagionale, una strong ale al miele di castagno. A destare la mia attenzione per prima è stata la Horny, una Alt - stile non molto diffuso in Italia. Si tratta, come desumibile dalla filosofia del birrificio che mi era stata appena illustrata, di una Alt in stile, dagli aromi tra il biscottato e il caramellato come da manuale; e con un corpo leggermente più snello e un finale meno amaro delle Alt classiche, che lascia il maggior evidenza la componente maltata pur rimanendo secco e chiudendo la bevuta.
Su proposta di Massimo ho poi assaggiato la Saison, aromatizzata con coriandolo e arancia dolce. Correttamente per lo stile, la parte del leone nell'aroma la fa la speziatura del lievito, lasciando arancia e coriandolo solo sullo sfondo a dare una punta di ulteriore complessità; in bocca risulta poi assai più delicata di quanto il naso lascerebbe supporre, con un corpo decisamente scorrevole e forse ai limiti dell'esile - irrobustirlo un pochino credo renderebbe meglio giustizia ai cereali, ed eviterebbe il passaggio brusco rispetto alla forza dell'aroma - per poi chiudere su toni tra il dolce e lo speziato. Mi ha infine incuriosita la summer ale Frida, senza glutine grazie all'utilizzo di un enzima che lo degrada. Al naso domina l'amarillo con i suoi aromi agrumati e floreali, per poi lasciare il posto ad un corpo estremamente scorrevole senza troppe note di cereale e ben carbonato. Interessante la chiusura netta e secca ma delicata e non persistente data dal Saaz usato in amaro. Nel complesso definirei quindi il Kraken un birrificio giovane, ma che può riservare sviluppi interessanti sia in quanto a consolidamento delle birre già prodotte che a nuove produzioni.
Parlando invece di birrifici a me già noti, ho provato la nuova "sperimentale" di Cittavecchia, la "Sex-ion Ipa" (il cui nome già rivela lo stile). Non vi tedio con la lunga lista di luppoli utilizzati sia in amaro che in aroma, che Giulio mi ha elecato con dovizia (roba da far impallidire la Millemilaluppoli della Poretti, verrebbe da ironizzare); il risultato è comunque un mix ben bilanciato che all'aroma evidenzia soprattutto la componente di frutta tropicale, prima di un corpo ben carbonato e snello pur senza disdegnare qualche leggera nota tra il maltato e il caramellato; e un finale tra il citrico e l'erbaceo mediamente persistente. Fresca e beverina, in stile, ma senza voler fare i fuochi d'artificio in quanto a luppolatura come da filosofia di Cittavecchia.
Da ultimo ho ritrovato il birrificio La Ru con la sua nuova Ruby, session ipa a cui la barbabietola dona un tenue colore rosato. In realtà la barbabietola dona anche una leggerissima punta di vegetale all'aroma dai toni agrumati e una certa aura tra il dolce e l'acidulo al corpo, che smorza l'amaro finale; fondamentalmente comunque rimane una ipa, dato che questi tocchi "eterodossi" sono comunque gestiti con parsimonia.
Al di là delle criticità a livello comunicativo che ho rilevato sopra (intendiamoci, non sto dicendo che non è legittimo fare un festival che unisca birre artigianali e non; però l'importante è la chiarezza), direi che un po' di buon materiale per appassionati c'è (gli altri birrifici artigianali presenti sono Zahre, Beerbante, Aqua Alta e Trevigiano). L'auspicio è che, anche eventualmente su impulso dei birrifici stessi, in futuro la comunicazione sia migliore.
Nella veloce toccata e fuga che ho fatto ho avuto modo di conoscere un birrificio del vicentino, il Kraken, aperto da Massimo Cracco e Nicola Randon nel 2017. I due si definiscono "birrai per passione"; tuttavia, per tornare al punto secondo cui la storia dell'homebrewer che passa direttamente dalle pentole nel garage alla sala cotta è ormai storia passata, anche in questo caso ci sono altre competenze di base oltre al saper fare la birra in casa. Massimo è infatti un tecnologo alimentare che ha studiato a Udine con il noto prof. Buiatti, mentre Nicola ha competenze in ambito commerciale. La loro filosofia è quella di fare birre che abbiano sì un tocco di originalità, principalmente orientato alla facilità di beva, ma che comunque non stravolgano gli stili; e al momento ne hanno sei a listino - di cui una stagionale, una strong ale al miele di castagno. A destare la mia attenzione per prima è stata la Horny, una Alt - stile non molto diffuso in Italia. Si tratta, come desumibile dalla filosofia del birrificio che mi era stata appena illustrata, di una Alt in stile, dagli aromi tra il biscottato e il caramellato come da manuale; e con un corpo leggermente più snello e un finale meno amaro delle Alt classiche, che lascia il maggior evidenza la componente maltata pur rimanendo secco e chiudendo la bevuta.
Su proposta di Massimo ho poi assaggiato la Saison, aromatizzata con coriandolo e arancia dolce. Correttamente per lo stile, la parte del leone nell'aroma la fa la speziatura del lievito, lasciando arancia e coriandolo solo sullo sfondo a dare una punta di ulteriore complessità; in bocca risulta poi assai più delicata di quanto il naso lascerebbe supporre, con un corpo decisamente scorrevole e forse ai limiti dell'esile - irrobustirlo un pochino credo renderebbe meglio giustizia ai cereali, ed eviterebbe il passaggio brusco rispetto alla forza dell'aroma - per poi chiudere su toni tra il dolce e lo speziato. Mi ha infine incuriosita la summer ale Frida, senza glutine grazie all'utilizzo di un enzima che lo degrada. Al naso domina l'amarillo con i suoi aromi agrumati e floreali, per poi lasciare il posto ad un corpo estremamente scorrevole senza troppe note di cereale e ben carbonato. Interessante la chiusura netta e secca ma delicata e non persistente data dal Saaz usato in amaro. Nel complesso definirei quindi il Kraken un birrificio giovane, ma che può riservare sviluppi interessanti sia in quanto a consolidamento delle birre già prodotte che a nuove produzioni.
Parlando invece di birrifici a me già noti, ho provato la nuova "sperimentale" di Cittavecchia, la "Sex-ion Ipa" (il cui nome già rivela lo stile). Non vi tedio con la lunga lista di luppoli utilizzati sia in amaro che in aroma, che Giulio mi ha elecato con dovizia (roba da far impallidire la Millemilaluppoli della Poretti, verrebbe da ironizzare); il risultato è comunque un mix ben bilanciato che all'aroma evidenzia soprattutto la componente di frutta tropicale, prima di un corpo ben carbonato e snello pur senza disdegnare qualche leggera nota tra il maltato e il caramellato; e un finale tra il citrico e l'erbaceo mediamente persistente. Fresca e beverina, in stile, ma senza voler fare i fuochi d'artificio in quanto a luppolatura come da filosofia di Cittavecchia.
Da ultimo ho ritrovato il birrificio La Ru con la sua nuova Ruby, session ipa a cui la barbabietola dona un tenue colore rosato. In realtà la barbabietola dona anche una leggerissima punta di vegetale all'aroma dai toni agrumati e una certa aura tra il dolce e l'acidulo al corpo, che smorza l'amaro finale; fondamentalmente comunque rimane una ipa, dato che questi tocchi "eterodossi" sono comunque gestiti con parsimonia.
Al di là delle criticità a livello comunicativo che ho rilevato sopra (intendiamoci, non sto dicendo che non è legittimo fare un festival che unisca birre artigianali e non; però l'importante è la chiarezza), direi che un po' di buon materiale per appassionati c'è (gli altri birrifici artigianali presenti sono Zahre, Beerbante, Aqua Alta e Trevigiano). L'auspicio è che, anche eventualmente su impulso dei birrifici stessi, in futuro la comunicazione sia migliore.
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lunedì 15 luglio 2019
Riflessioni su birre, eventi e montagna
Il primo è quello dell'ancor meno agevolmente raggiungibile Sauris, nelle sue due frazioni abbarbicate in cima a 13 km di tornanti su strada stretta e a volte pure chiusa d'inverno. Qui il birrificio Zahre, tra i pionieri in regione, già da quasi vent'anni è sostanzialmente parte del brand del Paese: sotto l'egida degli enti e associazioni locali, infatti, tutto il Comune con aspetti economico-turistici annessi e connessi si presenta sotto un unico portale - sauris.org - per promuoversi. Che si tratti di organizzare qualcosa in loco, o di fare trasferte altrove (come ad esempio alle fiere) tutti gli attori si muovono (o almeno dovrebbero muoversi) insieme, questione vitale in un Comune di poco più di 400 abitanti: insieme alla birra troverete così il celebre prosciutto, o se salite fin lassù potrete passare agevolmente da una visita al birrificio, ad un'escursione organizzata, al trovare ospitalità nell'albergo diffuso.
Naturalmente in tutto ciò si inseriscono anche gli eventi - basti dire che la Festa del Prosciutto, anch'essa in luglio, porta lassù 20.000 persone, 50 volte la popolazione residente -; ma l'idea è quella di un lavoro che vada avanti tutto l'anno e preveda continuità. Prova ne è il fatto che Zahre è tra i birrifici artigianali che contano la maggior capacità produttiva (40 hl di sala cotta e 1370 di cantina) pur producendo birre che per loro natura hanno una shelf life breve, e distribuendo per la maggior parte su corto raggio. Qui la cosa notevole è stata quindi a mio avviso la creazione del brand che - pur tra alti e bassi - ha consentito di promuovere prodotti locali, territorio e in generale tutte le attività che vi hanno sede sotto un unico pacchetto: non a caso la Zahre è conosciuta come "la birra di Sauris", il prosciutto Wolf come "il prosciutto di Sauris", e via discorrendo.
Il secondo caso è appunto quello di Forni di Sopra, con il birrificio Foglie d'Erba. Anche qui esiste un portale turistico unico e una regia a livello di enti locali, anche se non si può dire che si sia creato un brand analogo a quello di Sauris; la cosa più notevole, al di là delle collaborazioni che esistono tutto l'anno tra il birrificio e gli altri attori economici locali, è appunto l'evento di luglio. Smentita qualunque teoria secondo cui "non si può portare la gente fin quassù", la gente arriva: appassionati del settore, certo, ma arrivano, dimostrazione del fatto che - vuoi per la reputazione consolidata di Gino Perissutti e della sua squadra, vuoi per la selezione di birre - il festival è considerato di qualità.
Inoltre mi sono resa conto, parlando con i presenti, che diversi di loro - anche persone che so non essere appassionate di montagna - si erano avventurate in passeggiate, escursioni, o in qualche attività organizzata in loco alla scoperta del territorio (io stessa, da montanara di lunga data, ero di ritorno da un rifugio). Una risposta calzante alla questione sollevata nell'ultimo editoriale del presidente generale del Club Alpino Italiano (Cai), Vincenzo Torti, sulla rivista Montagne 360°; lamentando come troppo spesso le montagne vengano usate da scenografia ai grandi eventi, ma senza entrare davvero nell'evento stesso - in altri termini, tenere l'evento in un qualsiasi altro luogo paesaggisticamente appetibile sarebbe stata la stessa cosa. Aggiungiamoci pure il fatto che l'evento è sì frequentato, ma non è "di massa": tutti aspetti di non secondaria importanza per un birrificio che, sin dagli inizi, ha fatto della sostenibilità ambientale e del rispetto e integrazione con il territorio uno dei principi non solo del suo lavoro, ma anche della comunicazione verso i clienti.
Questo non per tessere una lode fine a sé stessa di due birrifici che conosco: so bene che né a Sauris né a Forni tutto funziona alla perfezione, e che ci sono in Italia altri birrifici artigianali in zone montane che si stanno spendendo con altrettanta passione per una valorizzazione accorta del territorio. Però ho preso due casi che conosco perché mi hanno fatto riflettere su come nell'Italia dei campanilismi, delle montagne che spesso vivono una realtà di declino e di abbandono - e che magari tentano semplicemente di far rivivere improbabili glorie dei tempi andati, non più riproponibili oggi - non farebbe male prendere maggiore coscienza di come la collaborazione tra attori del territorio e tra birrifici artigianali possa dare un contributo. Unionbirrai, Cai, aziende di promozione turistica: le basi per lavorare insieme ci sono - ciascuna con la sua sensibilità e competenza specifica -, non serve creare attori nuovi. Anzi, proprio il Cai potrebbe essere un interlocutore rimasto sinora sullo sfondo, ma assai interessante: quale gruppo alpinistico, alla fine dell'escursione, non si ferma a reintegrare con una birra? Occasione giusta quindi per farlo in maniera consapevole, con la birra artigianale del luogo - e magari con una visita al birrificio, se possibile. Un'occasione che già c'è, non serve crearla: basta unire i pezzi del puzzle.
mercoledì 19 giugno 2019
Un altro ritorno in Valscura
Cogliendo l'occasione di una "serata spiedo" organizzata in birrificio, sono tornata dopo tanto tempo da Valscura. In realtà non è che ci siano stati stravolgimenti, né allo spazio degustazione - che continua ad ospitare anche diverse specialità del territorio, dai salumi, alle salse,alla pasta artigianale - né alle birre in listino; eccetto per un paio di novità, che mi sono naturalmente premurata di provare.
La prima è la Leale, una saison che ancor prima che una birra è una storia. E' infatti stata battezzata così in onore di un "leale" avventore e amico, purtroppo venuto a mancare; e destinata anche alla solidarietà, in quanto parte del ricavato della vendita delle bottiglie è stata devoluto in beneficenza. Si tratta appunto di una saison, dall'aroma che ho trovato incentrato soprattutto sul pepe; discretamente corposa e maltata per lo stile (non lesina nemmeno sul grado alcolico, 7) al palato esibisce toni un po' più dolci e caramellati rispetto alla media dello stile (cosa peraltro intuibile anche dal colore, tendente all'ambrato); prima di chiudere con una leggera nota alcolica e in una maniera che personalmente non ho trovato molto secca, nonostante il birrificio abbia in generale lavorato molto sul fronte attenuazione. In realtà, mi è stato spiegato poi, la cosa è anche consona all'esprimere la persona a cui è dedicata: che aveva vissuto a lungo in Belgio, ed are solita affermare che avrebbe preferito birre più alcoliche, "pastose" e strutturate (e in questo devo dire che le sue richieste sono state esaudite). E non a caso proprio in Belgio ha riscosso consensi (anche se la giuria era internazionale), con il bronzo di categoria al Brussels Beer Challenge. Forse una particolare sensibilità mia, quindi, nell'aver trovato il finale un po' "carico" dato lo stile; per una birra che del resto non voleva nemmeno essere un'interpretazione da manuale di una saison. Apprezzabile evidentemente da chi preferisce birre dai toni più robusti, pur senza sacrificare del tutto la facilità di beva.
Ho poi provato la Blend, un - appunto - blend di tre birre diverse - natalizia, rossa Santabarbara e bionda Liquentia - nato, mi è stato raccontato, quasdi per scherzo. Personalmente mi è sembrato spiccasse la natalizia, con le sue note caramellate, leggermente speziate, finanche di whisky e lievemente alcoliche; accompagnati da quelli più biscottati della Santabarbara. Decisamente più nelle retrovie la bionda, che peraltro creava anche un leggero contrasto, quasi a "cozzare" e smorzare nello stesso tempo. Per chi vuole provare qualcosa di insolito, e non ha paura di avventurarsi nel terreno del birrariamente eterodosso.
Di nuovo grazie a Gabriele e a Giampaolo, che mi hanno accolta e erudita sulle birre a disposizione e sul lavoro recentemente portato avanti in birrificio - che ha coinvolto anche le altre birre -; e a Renata.
La prima è la Leale, una saison che ancor prima che una birra è una storia. E' infatti stata battezzata così in onore di un "leale" avventore e amico, purtroppo venuto a mancare; e destinata anche alla solidarietà, in quanto parte del ricavato della vendita delle bottiglie è stata devoluto in beneficenza. Si tratta appunto di una saison, dall'aroma che ho trovato incentrato soprattutto sul pepe; discretamente corposa e maltata per lo stile (non lesina nemmeno sul grado alcolico, 7) al palato esibisce toni un po' più dolci e caramellati rispetto alla media dello stile (cosa peraltro intuibile anche dal colore, tendente all'ambrato); prima di chiudere con una leggera nota alcolica e in una maniera che personalmente non ho trovato molto secca, nonostante il birrificio abbia in generale lavorato molto sul fronte attenuazione. In realtà, mi è stato spiegato poi, la cosa è anche consona all'esprimere la persona a cui è dedicata: che aveva vissuto a lungo in Belgio, ed are solita affermare che avrebbe preferito birre più alcoliche, "pastose" e strutturate (e in questo devo dire che le sue richieste sono state esaudite). E non a caso proprio in Belgio ha riscosso consensi (anche se la giuria era internazionale), con il bronzo di categoria al Brussels Beer Challenge. Forse una particolare sensibilità mia, quindi, nell'aver trovato il finale un po' "carico" dato lo stile; per una birra che del resto non voleva nemmeno essere un'interpretazione da manuale di una saison. Apprezzabile evidentemente da chi preferisce birre dai toni più robusti, pur senza sacrificare del tutto la facilità di beva.
Ho poi provato la Blend, un - appunto - blend di tre birre diverse - natalizia, rossa Santabarbara e bionda Liquentia - nato, mi è stato raccontato, quasdi per scherzo. Personalmente mi è sembrato spiccasse la natalizia, con le sue note caramellate, leggermente speziate, finanche di whisky e lievemente alcoliche; accompagnati da quelli più biscottati della Santabarbara. Decisamente più nelle retrovie la bionda, che peraltro creava anche un leggero contrasto, quasi a "cozzare" e smorzare nello stesso tempo. Per chi vuole provare qualcosa di insolito, e non ha paura di avventurarsi nel terreno del birrariamente eterodosso.
Di nuovo grazie a Gabriele e a Giampaolo, che mi hanno accolta e erudita sulle birre a disposizione e sul lavoro recentemente portato avanti in birrificio - che ha coinvolto anche le altre birre -; e a Renata.
mercoledì 12 giugno 2019
La posta dei lettori: il nuovo regime di accisa
Come avevo immaginato (e finanche auspicato, nella misura in cui potesse servire a fare chiarezza), il mio ultimo post in merito alla nuova disciplina sulle accise ha suscitato un vivo dibattito. Tra i diversi interventi, ho ricevuto in privato - e volentieri pubblico, con il suo consenso - quello di Josif Vezzoli di Birra Elvo.
Buongiorno Chiara,
ho letto il tuo ultimo post, e ammetto di aver provato sconforto nel vedere così tante posizioni allineate sul pessimismo; comprese alcune che mi portano a chiedermi se chi le ha espresse abbia letto il decreto con la dovuta attenzione.
Premetto che per noi la riduzione è un inizio di giustizia non da poco, nel quale abbiamo creduto fin dal principio quando l'onorevole Gragnarli lo ha firmato; tanto più che, ricordiamolo, la richiesta di riduzione dell'accisa ci era pervenuta dall'Ue già nel '92.
Per aderire alla riduzione viene chiesto il registro delle materie prime, che già teniamo essendo un’azienda che ha a cuore una gestione del magazzino seria, moderna e precisa; il registro del mosto, che già teniamo; e il registro del condizionato, che già facciamo sul nostro gestionale interno e che comunque consiste in un foglio semplice sul quale annotare carico e scarico. Inoltre per chi, come noi, è sotto i 3000 ettolitri annui, l’unico misuratore fiscale rimane il contalitri sul mosto: gli altri si adegueranno a mettere contalitri fiscali sull’imbottigliamento e sulla linea fusti, ma stiamo parlando di una minoranza dei birrifici che accederanno a questa riduzione.
Io sono più che contento; e in previsione di questa riduzione abbiamo comprato la linea di imbottigliamento e assunto una persona in più in produzione già da gennaio aumentando i costi.
Grazie per lo spazio dato,
Josif Vezzoli
A mia volta ringrazio Josif per il suo contributo.
Buongiorno Chiara,
ho letto il tuo ultimo post, e ammetto di aver provato sconforto nel vedere così tante posizioni allineate sul pessimismo; comprese alcune che mi portano a chiedermi se chi le ha espresse abbia letto il decreto con la dovuta attenzione.
Premetto che per noi la riduzione è un inizio di giustizia non da poco, nel quale abbiamo creduto fin dal principio quando l'onorevole Gragnarli lo ha firmato; tanto più che, ricordiamolo, la richiesta di riduzione dell'accisa ci era pervenuta dall'Ue già nel '92.
Per aderire alla riduzione viene chiesto il registro delle materie prime, che già teniamo essendo un’azienda che ha a cuore una gestione del magazzino seria, moderna e precisa; il registro del mosto, che già teniamo; e il registro del condizionato, che già facciamo sul nostro gestionale interno e che comunque consiste in un foglio semplice sul quale annotare carico e scarico. Inoltre per chi, come noi, è sotto i 3000 ettolitri annui, l’unico misuratore fiscale rimane il contalitri sul mosto: gli altri si adegueranno a mettere contalitri fiscali sull’imbottigliamento e sulla linea fusti, ma stiamo parlando di una minoranza dei birrifici che accederanno a questa riduzione.
Io sono più che contento; e in previsione di questa riduzione abbiamo comprato la linea di imbottigliamento e assunto una persona in più in produzione già da gennaio aumentando i costi.
Grazie per lo spazio dato,
Josif Vezzoli
A mia volta ringrazio Josif per il suo contributo.
Riduzione delle accise, non è tutto oro quel che luccica?
L'entrata in vigore della nuova disciplina sulle accise, che prevede una riduzione del 40% per i birrifici al di sotto dei 10.000 hl annui di produzione, mi ha spinta a chiedere ai diretti interessati che prospettive ponesse loro questa novità. In altri termini: come prevedevano di impiegare il risparmio derivante dal taglio della tassazione - che più o meno tutte le analisi sono concordi nello stimare attorno ad una media di 15.00 euro annui? Davvero, come negli auspici, prevedevano di riuscire ad investirli per la crescita dell'azienda? Ho così fatto circolare un rapido sondaggio tra i birrifici di mia conoscenza (prendetelo dunque per quello che è, dato che non si tratta di un campione statisticamente costruito).
Certo la notizia è stata in generale ben accolta, e le buone intenzioni su questo fronte ci sono: chi si propone di poter contare su ulteriore manodopera almeno nei frangenti più impegnativi, chi di investire in marketing e comunicazione, ricerca e sviluppo, cantina e attrezzature, certificazione biologica delle materie prime; chi, molto banalmente, prevede semplicemente di poter dormire sonni più tranquilli a fronte di situazioni finanziarie non sempre stabili - basti pensare a chi ha aperto da poco e deve ancora rientrare dei costi di avvio dell'attività. Solo due hanno accennato all'opportunità di ridurre anche il prezzo al consumatore (per quanto si tratti di un risparmio di pochi centesimi se quantificato sulla singola birra). Ma se diffuso è l'apprezzamento per il provvedimento, altrettanto diffuse sono le perplessità.
Molti infatti hanno evidenziato come non sia ancora chiara la modalità secondo cui questo regime fiscale più vantaggioso verrà applicato; con il rischio che possa in realtà risolversi in oneri maggiori dei risparmi. "Il mio timore è che non rimangano affatto tesoretti da investire - ha affermato Carlo Antonio Venier di Villa Chazil -: per gestire i registri di carico e scarico così come prefigurato potrebbe essere necessario impiegare part time una persona, e inoltre potrebbe anche essere necessario installare un nuovo contalitri". La questione della tipologia di contalitri richiesta, non ancora chiarita, è infatti essenziale. Come spiega Gianpaolo Tonello, tecnico consulente di numerosi birrifici sia in Italia che all'estero, "la paventata possibilità che il pagamento torni sul controllo del mosto tramite contatori MID può essere un boomerang. Se così fosse il risparmio sarà nulla a confronto delle spese che si dovranno affrontare per avere dei sistemi di conteggio del mosto certificati MID, che si aggirano sui 17.000 euro. Inoltre, operativamente parlando, la sanificazione impiantistica sarebbe più a rischio, e di conseguenza la salubrità delle birre. Ripeto che al momento si tratta soltanto di una possibilità, e come tale va considerata; ma se dovesse essere confermata, per i piccoli birrifici sarebbe un aggravio pesantissimo. Attendiamo chiarimenti".
Tutti i birrai sia friulani che veneti che mi hanno risposto si sono detti preoccupati dei costi burocratici della nuova disciplina di gestione del magazzino (l'accisa non verrà infatti più pagata sul mosto, ma sul magazzino), e appunto della questione contalitri; senza contare che, come ha osservato con cupo sarcasmo Severino Garlatti Costa del birrificio omonimo, "non è nemmeno chiaro se si possa rinunciare al nuovo regime nel caso in cui, come per molte piccole realtà potrebbe accadere, i costi di gestione del tutto siano superiori al beneficio". Commento sostanzialmente analogo è arrivato anche dalle Marche con Alessandro Dichiara del birrificio Sothis, che a fronte di queste stesse perplessità ha affermato di non voler fare alcuna previsione su futuri guadagni o perdite. Così anche i fratelli Covolan del birrificio La Ru, affermando che "non crediamo sia giusto che il beneficio economico sia solo a vantaggio dell'azienda, ma vada diviso anche con il cliente", si chiedono se questo davvero accadrà: "Abbiamo sempre detto che la birra italiana è tra le più care in Europa a causa delle accise - hanno osservato - ma adesso staremo a vedere se davvero sarà così. Prima dobbiamo capire come verrà applicata esattamente la normativa". Peraltro, ha osservato Lorenzo Serroni di The Lure, i birrifici non sono nuovi alle incertezze burocratiche: "In questi anni è stata fatta ad esempio molta confusione in tema di registri - ha spiegato -, dapprima con obbligo del solo registro cartaceo, poi duplice insieme al digitale, ma non in tutte le Regioni; con differenze tra provincia e provincia e software spesso incompatibili con lo stesso sito delle Dogane. Un bel labirinto, dove però ogni errore è punito con una multa. Per cui questa volta la speranza è quello di avere una vera spinta per il settore, non un ulteriore affossamento con la burocrazia".
Si potrà dire che stiamo al momento speculando sul nulla, dato che non sono ancora arrivati tutti i chiarimenti relativi ai punti sollevati; ma sicuramente tra i birrai la preoccupazione è palpabile,e si tratta a mio avviso di un dato di fatto che non può essere ignorato. L'auspicio è pertanto che sia fatta chiarezza quanto prima sui punti del decreto che, almeno ad alcuni birrai, risultano ancora ambigui.
Certo la notizia è stata in generale ben accolta, e le buone intenzioni su questo fronte ci sono: chi si propone di poter contare su ulteriore manodopera almeno nei frangenti più impegnativi, chi di investire in marketing e comunicazione, ricerca e sviluppo, cantina e attrezzature, certificazione biologica delle materie prime; chi, molto banalmente, prevede semplicemente di poter dormire sonni più tranquilli a fronte di situazioni finanziarie non sempre stabili - basti pensare a chi ha aperto da poco e deve ancora rientrare dei costi di avvio dell'attività. Solo due hanno accennato all'opportunità di ridurre anche il prezzo al consumatore (per quanto si tratti di un risparmio di pochi centesimi se quantificato sulla singola birra). Ma se diffuso è l'apprezzamento per il provvedimento, altrettanto diffuse sono le perplessità.
Molti infatti hanno evidenziato come non sia ancora chiara la modalità secondo cui questo regime fiscale più vantaggioso verrà applicato; con il rischio che possa in realtà risolversi in oneri maggiori dei risparmi. "Il mio timore è che non rimangano affatto tesoretti da investire - ha affermato Carlo Antonio Venier di Villa Chazil -: per gestire i registri di carico e scarico così come prefigurato potrebbe essere necessario impiegare part time una persona, e inoltre potrebbe anche essere necessario installare un nuovo contalitri". La questione della tipologia di contalitri richiesta, non ancora chiarita, è infatti essenziale. Come spiega Gianpaolo Tonello, tecnico consulente di numerosi birrifici sia in Italia che all'estero, "la paventata possibilità che il pagamento torni sul controllo del mosto tramite contatori MID può essere un boomerang. Se così fosse il risparmio sarà nulla a confronto delle spese che si dovranno affrontare per avere dei sistemi di conteggio del mosto certificati MID, che si aggirano sui 17.000 euro. Inoltre, operativamente parlando, la sanificazione impiantistica sarebbe più a rischio, e di conseguenza la salubrità delle birre. Ripeto che al momento si tratta soltanto di una possibilità, e come tale va considerata; ma se dovesse essere confermata, per i piccoli birrifici sarebbe un aggravio pesantissimo. Attendiamo chiarimenti".
Tutti i birrai sia friulani che veneti che mi hanno risposto si sono detti preoccupati dei costi burocratici della nuova disciplina di gestione del magazzino (l'accisa non verrà infatti più pagata sul mosto, ma sul magazzino), e appunto della questione contalitri; senza contare che, come ha osservato con cupo sarcasmo Severino Garlatti Costa del birrificio omonimo, "non è nemmeno chiaro se si possa rinunciare al nuovo regime nel caso in cui, come per molte piccole realtà potrebbe accadere, i costi di gestione del tutto siano superiori al beneficio". Commento sostanzialmente analogo è arrivato anche dalle Marche con Alessandro Dichiara del birrificio Sothis, che a fronte di queste stesse perplessità ha affermato di non voler fare alcuna previsione su futuri guadagni o perdite. Così anche i fratelli Covolan del birrificio La Ru, affermando che "non crediamo sia giusto che il beneficio economico sia solo a vantaggio dell'azienda, ma vada diviso anche con il cliente", si chiedono se questo davvero accadrà: "Abbiamo sempre detto che la birra italiana è tra le più care in Europa a causa delle accise - hanno osservato - ma adesso staremo a vedere se davvero sarà così. Prima dobbiamo capire come verrà applicata esattamente la normativa". Peraltro, ha osservato Lorenzo Serroni di The Lure, i birrifici non sono nuovi alle incertezze burocratiche: "In questi anni è stata fatta ad esempio molta confusione in tema di registri - ha spiegato -, dapprima con obbligo del solo registro cartaceo, poi duplice insieme al digitale, ma non in tutte le Regioni; con differenze tra provincia e provincia e software spesso incompatibili con lo stesso sito delle Dogane. Un bel labirinto, dove però ogni errore è punito con una multa. Per cui questa volta la speranza è quello di avere una vera spinta per il settore, non un ulteriore affossamento con la burocrazia".
Si potrà dire che stiamo al momento speculando sul nulla, dato che non sono ancora arrivati tutti i chiarimenti relativi ai punti sollevati; ma sicuramente tra i birrai la preoccupazione è palpabile,e si tratta a mio avviso di un dato di fatto che non può essere ignorato. L'auspicio è pertanto che sia fatta chiarezza quanto prima sui punti del decreto che, almeno ad alcuni birrai, risultano ancora ambigui.
venerdì 24 maggio 2019
Birre e birrifici, qualche pensiero sui trend
Sono riuscita soltanto ora a sedermi a leggere con calma il Report 2018 di Unionbirrai, su cui già aveva scritto un'analisi (che sostanzialmente condivido) Andrea Turco di Cronache di Birra in questo articolo. La cosa mi ha stimolato a rivedere un'analisi uscita qualche tempo fa sui birrifici specificatamente friulani, elaborata dall'Ufficio studi di Confartigianato Udine a fine 2018. Va detto che le due indagini non sono del tutto sovrapponibili a causa di alcune differenze metodologiche: su tutto basti citare il fatto che Confartigianato conta 44 piccole imprese attive in Regione nel settore birrario, contro le 34 di Unionbirrai (differenza dovuta al diverso modo di conteggiare i beerfirm, oltre al fatto che i dati Unionbirrai sono riferiti al 2017 e quelli della Cciaa al 30 giugno 2018). Ma ad ogni modo gli spunti di riflessione principali rimangono validi.
Innanzitutto va rilevato che in Fvg il "boom" dei birrifici artigianali sembrerebbe più impetuoso rispetto al dato nazionale: se secondo i dati di Unionbirrai i birrifici sono aumentati del 55% dal 2015, in Regione dal 2015 ne hanno aperto ben 18 su 26 presenti in precedenza. Ne risulta quindi un aumento quasi del 70%. Considerando però che il dato va "corretto" per i beerfirm, che in Fvg risultano essere il 20% del totale (anche se alcuni di questi hanno aperto prima del 2015) e per le aperture dei primi sei mesi del 2018, il trend è solo di poco superiore. Anche il dato che riporta un 16% di brewpub sul totale, se corretto al netto dei beerfirm (9), si avvicina maggiormente al 24% nazionale - e qui mi sarei forse aspettata una percentuale leggermente superiore piuttosto che inferiore al dato italiano, essendo il Fvg terra di alcuni tra i primi brewpub all'inizio degli anni 90.
Il punto più significativo è il confronto per quanto riguarda quelli che nel report Unionbirrai sono classificati come birrifici agricoli, e che a livello nazionale sono il 19%. Nell'indagine Unioncamere non sono classificati a parte; tuttavia, vedendo la lista delle 44 aziende censite, personalmente ne conto una quindicina che so essere birrifici agricoli. Siamo quindi a circa un terzo delle aziende, contro un quinto nel panorama italiano. Anche questo dato, tuttavia, merita di essere ulteriormente analizzato. Innanzitutto non è vera per tutti la considerazione secondo cui quella brassicola è un'attività secondaria rispetto a quella agricola: per almeno quattro di questi la decisione di coltivare l'orzo è nata dopo l'avvio della produzione di birra (e qui sarebbe ipocrita negare che il trattamento fiscale di maggior favore per le aziende agricole possa essere una delle motivazioni), e per altri due è stata sostanzialmente concomitante. Anche per quelle aziende agricole in cui invece la birra è stata un ampliamento della precedente attività, nel prenderle in considerazione non si può prescindere dal ruolo svolto dall'Asprom - di cui ho già parlato qui: per quanto la maggior parte degli oltre ottanta retisti si limiti a fornire l'orzo poi utilizzato per la vendita di malto all'industria (cito su tutti Peroni per la "nuova" Dormisch) o per la birra a marchio "Centparcent furlane", alcuni di questi utilizzano l'impianto turnario Asprom di Pocenia - con un mastro birraio dedicato - per produrre birre a marchio proprio. Potremmo quindi definirli dei beerfirm sui generis, in quanto mettono insieme l'autoproduzione delle materie prime con l'appoggio ad un impianto esterno. Fattore determinante è ovviamente la presenza non solo di numerose aziende agricole, in quella che è una regione - appunto - storicamente agricola; ma - discorso che può essere esteso anche al Veneto - anche di tante cantine: lo sprone all'allargamento e diversificazione della produzione è infatti arrivato in molti casi in aziende che già producevano vino.
Naturalmente è superflua la considerazione per cui, sia per le cantine che per le aziende agricole tout court, i risultati sono stati quantomai diversificati: chi ha fatto buoni investimenti, e soprattutto si è affidato ad un mastro birraio capace (vuoi esterno all'azienda, vuoi formando adeguatamente qualcuno all'interno), ha ottenuto birre che hanno saputo farsi apprezzare; chi viceversa non ha fatto scelte felici in termini di investimento e di personale, o (peggio) ha avuto la presunzione di fare da sé senza possedere le competenze adeguate, ha fatto uscire dai propri impianti birre discutibili. E questo al di là del fatto che la decisione di produrre birra possa aver avuto motivazioni puramente commerciali invece che di passione. Intendiamoci: non intendo qui demonizzare questa scelta, che - posto che un'azienda deve fare utili - è del tutto legittima; semplicemente stiamo parlando di un contesto imprenditoriale diverso da quello dei birrifici artigianali strettamente intesi. Certo è auspicabile, naturalmente, la trasparenza verso il consumatore: e a questo proposito apprezzo molto la scelta fatta da alcune di queste aziende di indicare chiaramente in etichetta chi e dove produce le materie prime, e chi e dove produce la birra - andando in dettaglio anche oltre gli obblighi di legge.
Alla fine di tutto questo discorso, naturalmente, c'è da chiedersi come questa peculiarità possa influire sullo sviluppo della birra artigianale in Regione. Sicuramente questo ha fatto sì che - vedi anche le leggi regionali approvate, sia in Fvg che in Veneto - ci sia un'attenzione particolare per lo sviluppo di una filiera locale delle materie prime. Questo però, come già ho osservato, lo vedrei rientrare non tanto nella promozione della birra artigianale in sé (che come tale può essere di ottima qualità anche con materie prime acquistate altrove), quanto per la promozione dei prodotti agricoli locali: se le due cose vanno di pari passo, ben venga (e anzi ci sono diversi esempi virtuosi in questo senso), ma credo sia bene tenere presente che non sono del tutto sovrapponibili. Anzi, tenere insieme questi due aspetti richiede un'ancora maggiore consapevolezza da parte dei birrai: se rifornirsi di materie prime locali implica, per forza di cose, limitare la varietà di malti e di luppoli a cui si ha accesso, è necessario lavorare di conseguenza - se non altro per l'ovvia ragione di non arrivare ad esempio alla forzatura di utilizzare luppoli autoprodotti di qualità scadente a causa delle condizioni ambientali inadeguate a quella specifica varietà, o a non usare le tipologie di malto più appropriate per un certo stile semplicemente perché queste non rientrano tra quelle prodotte con il proprio orzo. Insomma, come tutte le cose la filiera locale va usata con consapevolezza, perché sia funzionale allo sviluppo dell'azienda e non le tarpi le ali per la scarsa qualità o la scelta limitata delle materie prime. Fortunatamente Ersa e Università di Udine stanno lavorando da anni alla produzione di varietà sia di orzo che di luppolo che possano essere coltivate con successo in loco: vedremo che frutti questa ricerca porterà anche nei prossimi anni.
Innanzitutto va rilevato che in Fvg il "boom" dei birrifici artigianali sembrerebbe più impetuoso rispetto al dato nazionale: se secondo i dati di Unionbirrai i birrifici sono aumentati del 55% dal 2015, in Regione dal 2015 ne hanno aperto ben 18 su 26 presenti in precedenza. Ne risulta quindi un aumento quasi del 70%. Considerando però che il dato va "corretto" per i beerfirm, che in Fvg risultano essere il 20% del totale (anche se alcuni di questi hanno aperto prima del 2015) e per le aperture dei primi sei mesi del 2018, il trend è solo di poco superiore. Anche il dato che riporta un 16% di brewpub sul totale, se corretto al netto dei beerfirm (9), si avvicina maggiormente al 24% nazionale - e qui mi sarei forse aspettata una percentuale leggermente superiore piuttosto che inferiore al dato italiano, essendo il Fvg terra di alcuni tra i primi brewpub all'inizio degli anni 90.
Il punto più significativo è il confronto per quanto riguarda quelli che nel report Unionbirrai sono classificati come birrifici agricoli, e che a livello nazionale sono il 19%. Nell'indagine Unioncamere non sono classificati a parte; tuttavia, vedendo la lista delle 44 aziende censite, personalmente ne conto una quindicina che so essere birrifici agricoli. Siamo quindi a circa un terzo delle aziende, contro un quinto nel panorama italiano. Anche questo dato, tuttavia, merita di essere ulteriormente analizzato. Innanzitutto non è vera per tutti la considerazione secondo cui quella brassicola è un'attività secondaria rispetto a quella agricola: per almeno quattro di questi la decisione di coltivare l'orzo è nata dopo l'avvio della produzione di birra (e qui sarebbe ipocrita negare che il trattamento fiscale di maggior favore per le aziende agricole possa essere una delle motivazioni), e per altri due è stata sostanzialmente concomitante. Anche per quelle aziende agricole in cui invece la birra è stata un ampliamento della precedente attività, nel prenderle in considerazione non si può prescindere dal ruolo svolto dall'Asprom - di cui ho già parlato qui: per quanto la maggior parte degli oltre ottanta retisti si limiti a fornire l'orzo poi utilizzato per la vendita di malto all'industria (cito su tutti Peroni per la "nuova" Dormisch) o per la birra a marchio "Centparcent furlane", alcuni di questi utilizzano l'impianto turnario Asprom di Pocenia - con un mastro birraio dedicato - per produrre birre a marchio proprio. Potremmo quindi definirli dei beerfirm sui generis, in quanto mettono insieme l'autoproduzione delle materie prime con l'appoggio ad un impianto esterno. Fattore determinante è ovviamente la presenza non solo di numerose aziende agricole, in quella che è una regione - appunto - storicamente agricola; ma - discorso che può essere esteso anche al Veneto - anche di tante cantine: lo sprone all'allargamento e diversificazione della produzione è infatti arrivato in molti casi in aziende che già producevano vino.
Naturalmente è superflua la considerazione per cui, sia per le cantine che per le aziende agricole tout court, i risultati sono stati quantomai diversificati: chi ha fatto buoni investimenti, e soprattutto si è affidato ad un mastro birraio capace (vuoi esterno all'azienda, vuoi formando adeguatamente qualcuno all'interno), ha ottenuto birre che hanno saputo farsi apprezzare; chi viceversa non ha fatto scelte felici in termini di investimento e di personale, o (peggio) ha avuto la presunzione di fare da sé senza possedere le competenze adeguate, ha fatto uscire dai propri impianti birre discutibili. E questo al di là del fatto che la decisione di produrre birra possa aver avuto motivazioni puramente commerciali invece che di passione. Intendiamoci: non intendo qui demonizzare questa scelta, che - posto che un'azienda deve fare utili - è del tutto legittima; semplicemente stiamo parlando di un contesto imprenditoriale diverso da quello dei birrifici artigianali strettamente intesi. Certo è auspicabile, naturalmente, la trasparenza verso il consumatore: e a questo proposito apprezzo molto la scelta fatta da alcune di queste aziende di indicare chiaramente in etichetta chi e dove produce le materie prime, e chi e dove produce la birra - andando in dettaglio anche oltre gli obblighi di legge.
Alla fine di tutto questo discorso, naturalmente, c'è da chiedersi come questa peculiarità possa influire sullo sviluppo della birra artigianale in Regione. Sicuramente questo ha fatto sì che - vedi anche le leggi regionali approvate, sia in Fvg che in Veneto - ci sia un'attenzione particolare per lo sviluppo di una filiera locale delle materie prime. Questo però, come già ho osservato, lo vedrei rientrare non tanto nella promozione della birra artigianale in sé (che come tale può essere di ottima qualità anche con materie prime acquistate altrove), quanto per la promozione dei prodotti agricoli locali: se le due cose vanno di pari passo, ben venga (e anzi ci sono diversi esempi virtuosi in questo senso), ma credo sia bene tenere presente che non sono del tutto sovrapponibili. Anzi, tenere insieme questi due aspetti richiede un'ancora maggiore consapevolezza da parte dei birrai: se rifornirsi di materie prime locali implica, per forza di cose, limitare la varietà di malti e di luppoli a cui si ha accesso, è necessario lavorare di conseguenza - se non altro per l'ovvia ragione di non arrivare ad esempio alla forzatura di utilizzare luppoli autoprodotti di qualità scadente a causa delle condizioni ambientali inadeguate a quella specifica varietà, o a non usare le tipologie di malto più appropriate per un certo stile semplicemente perché queste non rientrano tra quelle prodotte con il proprio orzo. Insomma, come tutte le cose la filiera locale va usata con consapevolezza, perché sia funzionale allo sviluppo dell'azienda e non le tarpi le ali per la scarsa qualità o la scelta limitata delle materie prime. Fortunatamente Ersa e Università di Udine stanno lavorando da anni alla produzione di varietà sia di orzo che di luppolo che possano essere coltivate con successo in loco: vedremo che frutti questa ricerca porterà anche nei prossimi anni.
martedì 14 maggio 2019
Birre "ancestrali"
La seconda tappa del mio tour nelle Marche è stata al birrificio IBEER di Fabriano, che già avevo visitato un paio d'anni fa in occasione dell'assemblea annuale dell'associazione Le Donne della Birra; e da allora sono rimasta in contatto con Giovanna Merloni, la birraia, avendo modo di apprezzare sia le sue creazioni brassicole che la sua notevole inventiva nel promuoverle - cito su tutte "La Borsa della Birra", con le quotazioni delle diverse birre che variano nel corso della serata. E' stato quindi un onore per me essere invitata da lei, da poco diventata campionessa italiana dei biersommelier, a condurre una degustazione a Lo Sverso - locale in centro città: diciamo che ero incerta se sentirmi come ai tempi dell'università, davanti ad una professoressa all'esame, o estremamente soddisfatta di essere stata ammessa nel vip club. Scherzi a parte, davvero è stato un piacere; e preparare e condurre la degustazione con lei è stata una preziosa occasione di scambio e di apprendimento da qualcuno che ha un'esperienza più lunga della mia e un bagaglio di conoscenze più vasto.
Il tema scelto per la degustazione è stato "Birre ancestrali", facendo rientrare in questa definizione sia alcune di quelle che il Bjcp inserisce nella categoria delle birre storiche, sia alcuni stili o metodi di produzione poco utilizzati; e facendo riferimento sia a birre di IBEER che di altri birrifici. A ciascuna è stato poi accostato un abbinamento gastronomico, preparato dalle abili mani di Donatella Bartolomei. Hanno così "sfilato" nell'ordine la Grodziskie di B2O abbinata ad un tipico salume locale, la Gose all'ananas di Evoqe con un'insalata di legumi e mango, la Never Mild - una mild, naturalmente - di IBEER accanto ad un crostino con burro e alici, il Sahti di Bionoc'-Asso di Coppe accostato a dei bocconcini di cinghiale, e la Iga "A testa in giù" con Lacrima di Moro d'Alba, sempre di IBEER, con una mousse al cioccolato bianco e frutti di bosco.
Della Grodziskie di B2O ho già parlato diverse volte: semplice e beverina per lo stile, con una componente affumicata tutto sommato delicata, ha aggiunto una leggera nota di carattere al salume contribuendo allo stesso tempo a "sgrassarlo" con il suo tono acidulo. Più "originale" la Gose di Evoqe, che riprendendo la tradizione di salare la frutta tipica di alcune tradizione culinarie ha, per così dire, salato l'ananas con un finale del tutto peculiare molto rinfrescante; e che si amalgamava bene con l'insalata, unendo anch'essa fruttato e salato. Nel caso dell'abbinamento tra Mild e crostino il "rapporto di forza" tra birra e cibo tornava di nuovo a favore del cibo, essendo la Never Mild - come da stile - di una dolcezza biscottato-caramellata elegante e non invadente; che ha fatto da buono "sfondo" alla sapidità delle alici sul crostino, con la dolcezza salata del burro a fare da legante.
Due parole a parte merita il Sahti di Bionoc'-Asso di Coppe, realizzato appunto da Nicola Coppe all'interno del progetto portato avanti congiuntamente da lui e dal birrificio. Pur essendo realizzato nella maniera quanto più tradizionale possibile - cereali misti cotti per ore ad un singolo step di temperatura, senza mai arrivare ad ebollizione, in una botte di rovere per simulare i tronchi anticamente usati; e filtrata con i rami di ginepro lasciati in infusione - è stato poi fatto fermentare con miele di melata di bosco e maturato per oltre un anno in botti di rovere, dove ha continuato a fermentare per ben otto mesi raggiungendo il ragguardevole traguardo degli oltre dieci gradi alcolici. Il risultato è quindi un Sahti sui generis, molto diverso da altri che mi era capitato di assaggiare in precedenza; in quanto a dominare sulla notevole complessità sia del corpo che dell'aroma - dal cereale puro, a note quasi caramellate, a quelle balsamiche - sono i toni elegantemente aciduli del legno. Indovinato anche l'accostamento al cinghiale, in quanto la robustezza sia della birra che del cibo andavano di pari passo.
Da ultimo la Iga di IBEER, inserita nella degustazione non perché si tratti di uno stile storico, quanto perché è storico il procedimento con cui Giovanna l'ha realizzata: la birra ha infatti riposato "a testa in giù", come nel metodo classico di produzione dei vini spumanti, sulle fecce del vitigno, per oltre un anno. Il risultato è stata una birra intrigante e complessa, in cui la Lacrima di Moro d'Alba - vitigno a bacca rossa tipico della zona di Jesi - si fa sentire bene ed è chiaramente distinguibile, pur ben armonizzato nell'insieme, anche da chi - come me - non l'avesse mai provato prima. L'abbinamento con il dolce ha fatto il paio in particolare con i frutti rossi, nel gioco di contrasti tra l'acidulo fruttato e la dolcezza grassa del cioccolato bianco.
A conclusione del tutto, un piacevole finale con i cocktail elaborati con la Mild di Giovanna da Silvia Piergigli, del Corallino Coffe'n'cocktails di Falconara Marittima: un capitolo, quello della mixology, che per quanto riguarda la birra mi ha sempre lasciata personalmente un po' sulla difensiva; ma che si sta rivelando terreno fertile per le idee di chi si occupa di questo settore e ci sa fare.
Nell'insieme devo dire di aver trovato un pubblico decisamente interessato - oltre che "fidelizzato", essendo questo incontro parte di un ciclo organizzato da Giovanna a Lo Sverso - , anche se non necessariamente esperto di birra nel senso tecnico del termine; che infatti si è accostato con spirito di curiosità a birre anche non facili. Sicuramente anche il contesto è stato adatto, in quanto Lo Sverso è un locale accogliente ma non troppo grande, che si presta a simili eventi essendo strutturato su due sale. Una formula che mi è sembrata insomma ben riuscita, e che sicuramente può offrire in futuro altre occasioni per fare cultura birraria.
Ringrazio di nuovo Giovanna e tutto lo staff de Lo Sverso per la cordiale ospitalità!
Il tema scelto per la degustazione è stato "Birre ancestrali", facendo rientrare in questa definizione sia alcune di quelle che il Bjcp inserisce nella categoria delle birre storiche, sia alcuni stili o metodi di produzione poco utilizzati; e facendo riferimento sia a birre di IBEER che di altri birrifici. A ciascuna è stato poi accostato un abbinamento gastronomico, preparato dalle abili mani di Donatella Bartolomei. Hanno così "sfilato" nell'ordine la Grodziskie di B2O abbinata ad un tipico salume locale, la Gose all'ananas di Evoqe con un'insalata di legumi e mango, la Never Mild - una mild, naturalmente - di IBEER accanto ad un crostino con burro e alici, il Sahti di Bionoc'-Asso di Coppe accostato a dei bocconcini di cinghiale, e la Iga "A testa in giù" con Lacrima di Moro d'Alba, sempre di IBEER, con una mousse al cioccolato bianco e frutti di bosco.
Della Grodziskie di B2O ho già parlato diverse volte: semplice e beverina per lo stile, con una componente affumicata tutto sommato delicata, ha aggiunto una leggera nota di carattere al salume contribuendo allo stesso tempo a "sgrassarlo" con il suo tono acidulo. Più "originale" la Gose di Evoqe, che riprendendo la tradizione di salare la frutta tipica di alcune tradizione culinarie ha, per così dire, salato l'ananas con un finale del tutto peculiare molto rinfrescante; e che si amalgamava bene con l'insalata, unendo anch'essa fruttato e salato. Nel caso dell'abbinamento tra Mild e crostino il "rapporto di forza" tra birra e cibo tornava di nuovo a favore del cibo, essendo la Never Mild - come da stile - di una dolcezza biscottato-caramellata elegante e non invadente; che ha fatto da buono "sfondo" alla sapidità delle alici sul crostino, con la dolcezza salata del burro a fare da legante.
Due parole a parte merita il Sahti di Bionoc'-Asso di Coppe, realizzato appunto da Nicola Coppe all'interno del progetto portato avanti congiuntamente da lui e dal birrificio. Pur essendo realizzato nella maniera quanto più tradizionale possibile - cereali misti cotti per ore ad un singolo step di temperatura, senza mai arrivare ad ebollizione, in una botte di rovere per simulare i tronchi anticamente usati; e filtrata con i rami di ginepro lasciati in infusione - è stato poi fatto fermentare con miele di melata di bosco e maturato per oltre un anno in botti di rovere, dove ha continuato a fermentare per ben otto mesi raggiungendo il ragguardevole traguardo degli oltre dieci gradi alcolici. Il risultato è quindi un Sahti sui generis, molto diverso da altri che mi era capitato di assaggiare in precedenza; in quanto a dominare sulla notevole complessità sia del corpo che dell'aroma - dal cereale puro, a note quasi caramellate, a quelle balsamiche - sono i toni elegantemente aciduli del legno. Indovinato anche l'accostamento al cinghiale, in quanto la robustezza sia della birra che del cibo andavano di pari passo.
Da ultimo la Iga di IBEER, inserita nella degustazione non perché si tratti di uno stile storico, quanto perché è storico il procedimento con cui Giovanna l'ha realizzata: la birra ha infatti riposato "a testa in giù", come nel metodo classico di produzione dei vini spumanti, sulle fecce del vitigno, per oltre un anno. Il risultato è stata una birra intrigante e complessa, in cui la Lacrima di Moro d'Alba - vitigno a bacca rossa tipico della zona di Jesi - si fa sentire bene ed è chiaramente distinguibile, pur ben armonizzato nell'insieme, anche da chi - come me - non l'avesse mai provato prima. L'abbinamento con il dolce ha fatto il paio in particolare con i frutti rossi, nel gioco di contrasti tra l'acidulo fruttato e la dolcezza grassa del cioccolato bianco.
A conclusione del tutto, un piacevole finale con i cocktail elaborati con la Mild di Giovanna da Silvia Piergigli, del Corallino Coffe'n'cocktails di Falconara Marittima: un capitolo, quello della mixology, che per quanto riguarda la birra mi ha sempre lasciata personalmente un po' sulla difensiva; ma che si sta rivelando terreno fertile per le idee di chi si occupa di questo settore e ci sa fare.
Nell'insieme devo dire di aver trovato un pubblico decisamente interessato - oltre che "fidelizzato", essendo questo incontro parte di un ciclo organizzato da Giovanna a Lo Sverso - , anche se non necessariamente esperto di birra nel senso tecnico del termine; che infatti si è accostato con spirito di curiosità a birre anche non facili. Sicuramente anche il contesto è stato adatto, in quanto Lo Sverso è un locale accogliente ma non troppo grande, che si presta a simili eventi essendo strutturato su due sale. Una formula che mi è sembrata insomma ben riuscita, e che sicuramente può offrire in futuro altre occasioni per fare cultura birraria.
Ringrazio di nuovo Giovanna e tutto lo staff de Lo Sverso per la cordiale ospitalità!
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