martedì 2 aprile 2013

Il diritto al numero chiuso

Parlate con un qualsiasi membro di un'associazione studentesca: nove su dieci vi dirà che il numero chiuso, previsto per sempre più facoltà, è una violazione del diritto allo studio, perché impedisce il libero accesso alle aule universitarie. Al di là dell'annoso problema dell'insufficienza di strutture e risorse che affligge molte università italiane, costringendo gli studenti a seguire le lezioni stipati come sardine in barba ad ogni norma sulla capienza massima delle aule, o addirittura - come è capitato alla sottoscritta - a sostenere un esame da non frequentante semplicemente perché non era stato possibile stipendiare un docente, a porre un limite alle iscrizioni accettate sono in molti: dagli Stati Uniti, dove la selezione è operata di solito sulla base del curriculum e dei test standardizzati, all'Australia, dove dipende dai corsi frequentati alla scuola superiore, l'intento di mantenere una buona qualità della didattica ammettendo i migliori o presunti tali - o banalmente soltanto gli studenti che si è in grado di gestire in base alle risorse disponibili - non è generalmente visto come una violazione dei diritti umani.

Eppure così la pensano alcuni in Italia: è di oggi la notizia della sentenza emessa dalla Corte Europea dei diritti umani di Starsburgo, che si è pronunciata sul ricorso di Tarantino et alteri contro il nostro Paese stabilendo che il numero chiuso non viola il diritto allo studio sancito dalla Convenzione europea dei diritti umani. E fino a qui, direte, niente di che: se ne discute da tanto, evidentemente i giudici la pensano così.

Più istruttivo è però andare a leggere il testo del ricorso. Si scopre così che gli otto ricorrenti sono nati «tra il 1966 e il 1988»: ohibò, mi sono detta: o il caso va avanti dalla notte dei tempi, o si tratta di gente - esclusi i più giovani - che l'età dello studio l'ha passata da un pezzo. Proseguiamo nella lettura: no, costoro avevano sostenuto l'esame di ammissione a medicina e a odontoiatria tra il 2007 e il 2009, quindi abbastanza recentemente. Vedendo poi le violazioni lamentate, oltre a quella già citata del diritto allo studio, c'è anche quella del diritto ad un equo processo perché il giudice italiano non aveva investito della questione la Corte europea, nonché del principio di non discriminazione, in quanto «gli studenti più giovani sarebbero più avvantaggiati nei test di ammissione» (forse perché più freschi di studi? Non si sa, il ricorso non lo dice). Insomma, gli otto si sono forse un po' allargati.

E vedendo ciò che i giornali dicono su questi otto, in effetti, c'è di che rimanere perplessi: uno avrebbe fallito per tre volte l'ammissione a medicina a Palermo, altri sei quello ad odontoiatria, e uno sarebbe stato allontanato dalla stessa facoltà dopo non aver dato esami per otto anni. Insomma, non propriamente un campione statistico significativo per giudicare se il numero chiuso sia o meno un reale ostacolo al diritto allo studio.

Tutto questo per dire che forse non dobbiamo lasciarci distrarre da casi come questo nel dibattito sulla questione, dimenticando i veri nodi da sciogliere: il diritto allo studio rimarrà ben poco effettivo finché le aule saranno così affollate - tanto più se da gente che non sosterrà mai un singolo esame - da non riuscire nemmeno ad entrarvi fisicamente, né un'eventuale selezione sarà efficace finché nei test di ammissione a medicina verrà chiesto il nome dell'ultima miss Italia. Insomma, le questioni di principio servono a poco, finché si scontrano con una realtà di questo genere.

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