Per terminare il mio panorama sulle birre artigianali presenti a Zugliano, non posso non menzionare lo stand della Brasserie; che peraltro da qualche tempo a questa parte si sta facendo onore nelle varie manifestaizoni come distributore di marchi di tutto rispetto, da Toccalmatto al Birrificio del Ducato. E appunto da queste due scuderie sono usciti due dei "cavalli di battaglia" che Matilde e Norberto hanno messo alla spina per l'occasione, la Sally Brown del Ducato e la Salty Angel di Toccalmatto.
A leggere la descrizione della Sally Brown c'è da che rimanere a bocca aperta: una oatmeal stout con ben undici tipi di malto - vi suggerisco peraltro di leggere come è nata sulla relativa pagina del birrificio - che promette di conseguenza aromi e sapori tra il tostato, il caffè e il cacao davvero decisi. In realtà, almeno per quella che è stata la mia impressione, risulta assai più delicata di quanto ci si aspetterebbe: gli undici tipi di malto di cui sopra si armonizzano infatti in una maniera che non dà sentori particolarmente intensi né al naso né al palato, amalgamando il tostato e il caffè - non ho sentito un granché il cacao, lo ammetto - fino a risultare in un finale amaro e quasi affumicato. Anche il corpo l'ho trovato più leggero e vellutato rispetto alla media delle stout, quasi più simile a quello di una porter, tanto che risulta discretamente beverina per il genere. Insomma, pare essere fatta per stupire più la descrizione che la birra in sé, che rimane una buona stout ma senza forzare in alcun modo la mano.
La Salty Angel a dire il vero è stata una sorpresa, perché Enrico mi ha messo in mano un bicchiere sfidandomi ad indovinare quale birra fosse tra le tante disponibili sotto il tendone di Zugliano. Beh, devo ammettere che ho avuto gioco facile, perché avevo nel bicchiere l'unica gose: e una signora gose, devo dire, con un equilibrio encomiabile tra l'acidità tipica del genere e il sale ed una delicatezza che la rende quasi vellutata - che sembrerebbe quasi una contraddizione per una gose. Ho scoperto poi leggendo la scheda che viene usato sale Maldon - un sale originario dell'omonima cittadina inglese che, secondo diverse schede che ho trovato in giro per il web, è considerato un sale da gourmet perché stimola in maniera particolare le papille gustative grazie alla particolare forma delle scaglie....mah - e che viene aggiunto anche del ribes: ecco così spiegato il tocco dolce fruttato che avevo sentito nel finale, insieme ad una leggera nota agrumata.
Ammetto, personalmente, di aver apprezzato di più la Salty Angel - senza nulla togliere al fatto che la Sally Brown rimanga una buona birra -; che suggerisco in particolare a chi non si fosse mai accostato al genere, perché più delicata di altre gose.
Il mio blog di avventure birrarie, descrizioni di birre, degustazioni, e notizie dal mondo della birra artigianale.
giovedì 28 maggio 2015
mercoledì 27 maggio 2015
Aria d'estate in casa Garlatti Costa
Sempre a Zugliano ho ritrovato il caro vecchio (non mi riferisco all'età, è un'espressione amichevole....) Severino Garlatti Costa - il primo a sinistra nella foto, insieme agli altri birrai partecipanti. "Vecchio" anche nel senso che, insieme a Gino Perissutti - grande assente in questa immagine, dato che anche il Foglie d'Erba era presente - è stato il primo birraio che ho conosciuto: per cui, se non altro dal punto di vista del mio personale percorso di conoscenza delle birrre, merita una menzione particolare.
Delle sue birre ho già parlato in più occasioni, e non contavo di scriverne ancora a breve; e invece a Zugliano ho trovato la sorpresa, perché tra le solite spine ce n'erano anche due che non avevo mai visto prima. Trattasi della nuova linea estiva che Severino ha battezzato "Funky", "per indicare che sono birre facili": in vista dell'estate, insomma ci vuole qualcosa che - pur senza scadere nella banalità - scenda e rinfreschi che è un piacere. Per ora sono due, la "Riff" e la "Slap", e devo dire che a colpirmi sono state prima di tutto le descrizioni assai curiose (che trovate in foto): vedere una birra paragonata ad un "riff" di chitarra o a uno "slap" di basso fa quantomeno sorridere. Al di là degli scherzi sono andata ad assaggiarle, così da testare di persona la corrispondenza tra descrizione, aromi e sapori.
Sono partita dalla Riff, che colpisce subito per l'intenso aroma floreale, con qualche nota citrica; ben presente anche il profumo di crosta di pane del lievito, in cui personalmente ho sentito anche una leggera punta speziata che mi ha ricordato le blanche - e qui Severino magari mi smentirà perché ha usato un lievito che non c'entra nulla, ma, ahò, io l'ho sentita. Contrariamente ad alcune summer ale che tendono ad essere piuttosto annacquate, la Riff mantiene un corpo con un certo carattere in cui la crosta di pane di cui sopra, pur rimanendo delicata, va ad accompagnarsi alla perfezione con l'agrumato che rimane nel finale, lasciando il palato ben fresco - e la gola dissetata. Se l'intenzione era quella di fare una birra da bere senza troppi pensieri, ma comunque con una sua personalità, direi che Severino ci è riuscito.
La stessa filosofia sta alla base della Slap, naturalmente, che però è di tutt'altro genere. Qui l'aroma balsamico e resinoso è assai più delicato, e anche le note caramellate del malto che caratterizzano il corpo rotondo lasciano poi spazio con la stessa delicatezza alla chiusura amara, tra l'erbaceo il terroso. Ammetto che non la penserei come una birra "estiva", non perché non sia fresca, ma perché - personalmente - associo al sole e alla calura sapori più simili a quelli della Riff; però la filosofia di base è comunque rispettata, e la Riff ha il merito di soddisfare - e dissetare - anche chi ama sapori diversi da quelli comuni alle birre considerate "estive". Insomma, era da un po' che non c'era aria di novità in casa Garlatti Costa: ed ora che è arrivata, insieme all'estate, posso dire di averla apprezzata...
Delle sue birre ho già parlato in più occasioni, e non contavo di scriverne ancora a breve; e invece a Zugliano ho trovato la sorpresa, perché tra le solite spine ce n'erano anche due che non avevo mai visto prima. Trattasi della nuova linea estiva che Severino ha battezzato "Funky", "per indicare che sono birre facili": in vista dell'estate, insomma ci vuole qualcosa che - pur senza scadere nella banalità - scenda e rinfreschi che è un piacere. Per ora sono due, la "Riff" e la "Slap", e devo dire che a colpirmi sono state prima di tutto le descrizioni assai curiose (che trovate in foto): vedere una birra paragonata ad un "riff" di chitarra o a uno "slap" di basso fa quantomeno sorridere. Al di là degli scherzi sono andata ad assaggiarle, così da testare di persona la corrispondenza tra descrizione, aromi e sapori.
Sono partita dalla Riff, che colpisce subito per l'intenso aroma floreale, con qualche nota citrica; ben presente anche il profumo di crosta di pane del lievito, in cui personalmente ho sentito anche una leggera punta speziata che mi ha ricordato le blanche - e qui Severino magari mi smentirà perché ha usato un lievito che non c'entra nulla, ma, ahò, io l'ho sentita. Contrariamente ad alcune summer ale che tendono ad essere piuttosto annacquate, la Riff mantiene un corpo con un certo carattere in cui la crosta di pane di cui sopra, pur rimanendo delicata, va ad accompagnarsi alla perfezione con l'agrumato che rimane nel finale, lasciando il palato ben fresco - e la gola dissetata. Se l'intenzione era quella di fare una birra da bere senza troppi pensieri, ma comunque con una sua personalità, direi che Severino ci è riuscito.
La stessa filosofia sta alla base della Slap, naturalmente, che però è di tutt'altro genere. Qui l'aroma balsamico e resinoso è assai più delicato, e anche le note caramellate del malto che caratterizzano il corpo rotondo lasciano poi spazio con la stessa delicatezza alla chiusura amara, tra l'erbaceo il terroso. Ammetto che non la penserei come una birra "estiva", non perché non sia fresca, ma perché - personalmente - associo al sole e alla calura sapori più simili a quelli della Riff; però la filosofia di base è comunque rispettata, e la Riff ha il merito di soddisfare - e dissetare - anche chi ama sapori diversi da quelli comuni alle birre considerate "estive". Insomma, era da un po' che non c'era aria di novità in casa Garlatti Costa: ed ora che è arrivata, insieme all'estate, posso dire di averla apprezzata...
martedì 26 maggio 2015
Sui colli orientali non c'è solo vino
Giulio ha elaborato quattro birre, ciascuna contraddistinta in etichetta da un animale: il gallo per la golden ale Aurora, l'asino per la ale bionda con dry hopping Rurale, il gatto per la ale ambrata Sore Sere, la civetta per la porter Scur di Lune. Per ora solo le prime due sono in produzione - il birrificio ha aperto da pochi mesi -, ma Giulio assicura che presto arriveranno tutte quante.
Essendo quella che tra le due mi incuriosiva di più, ho assaggiato la Rurale. L'aroma agrumato è particolarmente intenso - Giulio ammette infatti la sua grande passione per il luppolo cascade -, tanto che anche in bocca il sapore corrispondente rimane decisamente pieno e persistente. Solo alla fine si sente qualche nota più vicina all'amaro erbaceo, che però non arriva a sovrastare l'agrumato precedente. Detto così, sembrerebbe che Giulio col cascade abbia davvero esagerato: forse sì, però gli va riconosciuto che il risultato finale è comunque una birra che nel complesso non dà l'impressione di essere squilibrata, in quanto gli aromi sono intensi ma non eccessivi, e di piacevole beva per il finale fresco. Insomma, che dire: Giulio ammette di non essere né della filosofia del ritorno alla purezza né di quella del "famola strana" (la birra), ma di quella - come specifica anche nel volantino - di "rispecchiare i miei gusti personali"; essendo riuscito a non strafare pur volendo giocare su aromi e sapori forti, personalmente ho fiducia che il talento ci sia, e che le sue birre rispecchieranno anche i gusti di tanti altri.
giovedì 21 maggio 2015
Tutte le birre del signor Sez
Ok, alzate la mano: quanti di voi sono mai passati da Campea di Miane (Treviso)? Come, così pochi? Ok, non me ne meraviglio: questo ridente paesino sulle colline del Prosecco, che all'ultimo censimento contava ben 365 abitanti - tanti quanti i giorni dell'anno, guarda un po' te -, non è certo un luogo di grande passaggio. Eppure è qui che è nata quella che personalmente ritengo una buona promessa nel campo della birra artigianale, Mr. Sez: alias Enrico Selvestrel, impiegato alla Bartolini, che ha battezzato con il suo soprannome i risultati della decennale passione da homebrewer . Dopo il corso alla Dieffe e uno stage al birrificio 32, Enrico ha deciso di affiancare le cotte alle spedizioni con corriere espresso: e così è partito appoggiandosi al birrificio di Quero in beerfirm - tenendo a precisare, tuttavia, che "non sono uno che fornisce la ricetta e basta: le cotte le faccio insieme a loro, e ho sempre trovato la massima disponibilità e collaborazione". Logo della birra Mr. Sez è la pecora, animale un tempo numeroso in queste zone: che infatti campeggia in tutte le etichette, caratterizzata in maniera diversa a seconda del tipo di birra. In quanto a filosofia brassicola, "spezie, sapori troppo forti e carbonatazioni eccessive non mi appartengono": un altro sostenitore del ritorno alla semplicità.
Incoraggiato dal successo delle sue birre tra gli amici e alle sagre di paese - che a quanto pare rimangono un'ottima vetrina -, Enrico da un paio di mesi ha iniziato a partecipare ad alcune manifestazioni e degustazioni in zona, e a distribuire le sue bottiglie ad alcuni locali. Delle sei ricette uscite dal suo cappello di homebrewer, quella che ha sinora presentato come suo "biglietto da visita" è la Furba - "un nome nato a caso insieme alla grafica che mi ha disegnato le etichette", ammette - : una pale ale dagli aromi agrumati e dal corpo leggero tendente al resinoso, che nella chiusura secca lascia un amaro erbaceo assai persistente e al tempo stesso delicato che dà quasi l'impressione di avere in bocca un fiore di luppolo. Per gli amanti dell'amaro - come Enrico del resto dichiara apertamente di essere - ma anche per chi si accosta per la prima volta a birre di questo genere, perché la sensazione di freschezza lasciata dalla Furba la rende molto gradevole e beverina - complice anche il basso grado alcolico, 5 gradi.
L'altra birra che Enrico considera tra le meglio riuscite è la Tus, "caprone" in lingua locale, che - manco a dirlo - è una bock (per chi non lo sapesse: suddetto cornuto animale è simbolo di questo genere di birra, v. glossario). Anche qui mi è toccato dargli ragione: la schiuma fine e assai persistente racchiude un aroma tra il resinoso e il malto caramellato, mentre al palato si mischiano note liquorose, di liquirizia e di frutta secca. In chiusura ho percepito personalmente un leggero affumicato, a coronare un corpo ben pieno e complesso, che per quanto non faccia risaltare la luppolatura - come da stile - non lascia comunque alcuna persistenza dolciastra: complessità ed equilibrio al tempo stesso, direi, definendola un'altra birra ben riuscita - per quanto non di facile beva.
In vista dell'estate, la prossima cotta sarà riservata alla Santa - perché fatta assaggiare la prima volta in occasione della festa di Sant'Andrea -, una birra di frumento - "summer wheat", ci ha tenuto a precisare Enrico -, dalle note acidule. Il panorama si completa con la Orba, una pils in stile ceco - ironicamente, dato che in dialetto locale "orba" significa "cieca" - con un particolare dry hopping come nota distintiva; la 17.9 - dalla data dell'anniversario di matrimonio -, una special bitter fatta per festeggiare il primo anno di vita di coppia - e due pecorelle innamorate in etichetta, molto significativamente; e la Penelope, una imperial stour dedicata alla cognata "che assomiglia a Penelope Cruz".
Certo è buona norma andarci piano con le lodi sperticate ai "principianti", anche perché sarà il tempo a dimostrare la capacità di mantenere la qualità e di migliorare eventuali punti deboli; ma in questo caso direi che un buon incoraggiamento è del tutto meritato.
Incoraggiato dal successo delle sue birre tra gli amici e alle sagre di paese - che a quanto pare rimangono un'ottima vetrina -, Enrico da un paio di mesi ha iniziato a partecipare ad alcune manifestazioni e degustazioni in zona, e a distribuire le sue bottiglie ad alcuni locali. Delle sei ricette uscite dal suo cappello di homebrewer, quella che ha sinora presentato come suo "biglietto da visita" è la Furba - "un nome nato a caso insieme alla grafica che mi ha disegnato le etichette", ammette - : una pale ale dagli aromi agrumati e dal corpo leggero tendente al resinoso, che nella chiusura secca lascia un amaro erbaceo assai persistente e al tempo stesso delicato che dà quasi l'impressione di avere in bocca un fiore di luppolo. Per gli amanti dell'amaro - come Enrico del resto dichiara apertamente di essere - ma anche per chi si accosta per la prima volta a birre di questo genere, perché la sensazione di freschezza lasciata dalla Furba la rende molto gradevole e beverina - complice anche il basso grado alcolico, 5 gradi.
L'altra birra che Enrico considera tra le meglio riuscite è la Tus, "caprone" in lingua locale, che - manco a dirlo - è una bock (per chi non lo sapesse: suddetto cornuto animale è simbolo di questo genere di birra, v. glossario). Anche qui mi è toccato dargli ragione: la schiuma fine e assai persistente racchiude un aroma tra il resinoso e il malto caramellato, mentre al palato si mischiano note liquorose, di liquirizia e di frutta secca. In chiusura ho percepito personalmente un leggero affumicato, a coronare un corpo ben pieno e complesso, che per quanto non faccia risaltare la luppolatura - come da stile - non lascia comunque alcuna persistenza dolciastra: complessità ed equilibrio al tempo stesso, direi, definendola un'altra birra ben riuscita - per quanto non di facile beva.
In vista dell'estate, la prossima cotta sarà riservata alla Santa - perché fatta assaggiare la prima volta in occasione della festa di Sant'Andrea -, una birra di frumento - "summer wheat", ci ha tenuto a precisare Enrico -, dalle note acidule. Il panorama si completa con la Orba, una pils in stile ceco - ironicamente, dato che in dialetto locale "orba" significa "cieca" - con un particolare dry hopping come nota distintiva; la 17.9 - dalla data dell'anniversario di matrimonio -, una special bitter fatta per festeggiare il primo anno di vita di coppia - e due pecorelle innamorate in etichetta, molto significativamente; e la Penelope, una imperial stour dedicata alla cognata "che assomiglia a Penelope Cruz".
Certo è buona norma andarci piano con le lodi sperticate ai "principianti", anche perché sarà il tempo a dimostrare la capacità di mantenere la qualità e di migliorare eventuali punti deboli; ma in questo caso direi che un buon incoraggiamento è del tutto meritato.
martedì 19 maggio 2015
La prima cotta non si scorda mai...bis
Ok, tecnicamente non è stata la mia prima cotta - che avevo descritto in questo post - ; ma la volta scorsa il titolo era tanto piaciuto ai partecipanti al corso tecnico gestionale per imprenditori della birra dell'Università di Udine, e così l'ho voluto riproporre. Corso che, peraltro, continua a riscuotere successo essendo l'unico di questo genere organizzato direttamente da un ateneo: basti dire che i partecipanti più lontani arrivavano da Alberobello, in Puglia, e che stanno accarezzando l'idea di aprire un piccolo birrificio accanto al frantoio di famiglia - dato che la molitura delle olive è, per forza di cose, un lavoro stagionale. Insomma, dagli homebrewer del Tarvisiano ai molitori del Tavoliere, il panorama era assai variegato. (nella foto: il significativo cappellino che ho trovato accanto ai fermentatori. Anche docenti e ricercatori, a quanto pare, sono dei burloni)
Culmine del corso è la "cotta didattica" che si tiene nella giornata di sabato presso l'impianto sperimentale dell'azienda agraria dell'ateneo: occasione per me non solo di rivedere il già visto in quanto a "procedure standard" per fare la birra, ma soprattutto per vederlo con occhi diversi, dato che un anno dopo nascono sicuramente domande nuove e si è in grado di apprezzare aspetti che magari la prima volta non si erano notati.
Questa volta peraltro, mentre attendavamo che passassero le due ore necessarie per l'ammostamento, il prof. Buiatti ci ha accompagnati in una piacevole visita ai terreni dell'azienda agraria e in particolare ai filari di luppolo recentemente piantati: varietà americane in particolare, dato che in questo clima e su questo terreno crescono meglio i luppoli americani rispetto a quelli tedeschi. Insomma, scordatevi le pils, il saaz non rende al meglio. Interessante poi farsi spiegare come viene coltivato il luppolo e soprattutto come vengono raccolti i coni: un lavoro certosino (e costoso) da fare pazientemente a mano su piante alte anche sei metri - a meno di non meccanizzarlo, cosa però fattibile e conveniente solo su grandi estensioni. "Forse è per questo - ha osservato Buiatti - che in Italia la coltivazione non ha mai preso piede". A differenza ad esempio della Germania, dove esistono appunto luppoleti sufficientemente grandi da giustificare la coltivazione meccanizzata. Anche sull'altro fronte principale delle materie prime, ossia quello dell'orzo e della relativa maltazione, ho fatto una scoperta interessante: Buiatti ci ha infatti riferito che l'Università ha in progetto di avviare un micromaltificio, tale da soddisfare le necessità dell'ateneo - e, chissà, magari anche di qualche altro piccolo produttore locale.
Non sto a descrivervi nuovamente tutte le varie fasi della cotta, dato che abbiamo ripercorso quelle già illustrate nel post precedente; anche questa volta peraltro utilizzando il fondamentale approccio scientifico secondo cui a gettare il luppolo deve essere una donna, e con la finale ossigenazione del mosto con metodo altamente meccanizzato - ossia usando una pagaia di legno forata, sapientemente maneggiata da prof Buiatti. Insomma, c'è stato anche di che divertirsi.
Colgo l'occasione per un'ultima considerazione, stimolata tra l'alto dall'affermazione di Musso secondo cui "in Italia manca la formazione" e dai relativi commenti comparsi sui social dopo il mio post. Certo per imparare a fare la birra non bastano tre giorni, né tre mesi; ma il corso dell'Università di Udine ha quantomeno il merito di avvicinare, complice la durata contenuta e il costo tutto sommato accessibile, i potenziali futuri mastri birrai a questo mondo dal punto di vista non solo della birrificazione in sé e per sé, ma anche della gestione tecnica ed economica del birrificio - aspetto da non trascurare se non si vuol chiudere bottega nel giro di pochi mesi. Se poi questi aspiranti mastri birrai vorranno divernire tali, magari decideranno di investire in (più costosi e più lunghi) corsi organizzati da altri enti, o cercheranno di affiancare un birraio di più lunga esperienza per completare la loro formazione: ma sia che avviino un'attività, sia che decidano che la loro strada è un'altra, comuqnue un primo passo l'hanno fatto.
Ancora una volta ringrazio l'Università di Udine - e in particolare il prof. Stefano Buiatti, il mastro birraio Stefano Bertoli e il dott. Paolo Passaghe - per l'ospitalità, e i corsisti per la piacevole compagnia!
Culmine del corso è la "cotta didattica" che si tiene nella giornata di sabato presso l'impianto sperimentale dell'azienda agraria dell'ateneo: occasione per me non solo di rivedere il già visto in quanto a "procedure standard" per fare la birra, ma soprattutto per vederlo con occhi diversi, dato che un anno dopo nascono sicuramente domande nuove e si è in grado di apprezzare aspetti che magari la prima volta non si erano notati.
Questa volta peraltro, mentre attendavamo che passassero le due ore necessarie per l'ammostamento, il prof. Buiatti ci ha accompagnati in una piacevole visita ai terreni dell'azienda agraria e in particolare ai filari di luppolo recentemente piantati: varietà americane in particolare, dato che in questo clima e su questo terreno crescono meglio i luppoli americani rispetto a quelli tedeschi. Insomma, scordatevi le pils, il saaz non rende al meglio. Interessante poi farsi spiegare come viene coltivato il luppolo e soprattutto come vengono raccolti i coni: un lavoro certosino (e costoso) da fare pazientemente a mano su piante alte anche sei metri - a meno di non meccanizzarlo, cosa però fattibile e conveniente solo su grandi estensioni. "Forse è per questo - ha osservato Buiatti - che in Italia la coltivazione non ha mai preso piede". A differenza ad esempio della Germania, dove esistono appunto luppoleti sufficientemente grandi da giustificare la coltivazione meccanizzata. Anche sull'altro fronte principale delle materie prime, ossia quello dell'orzo e della relativa maltazione, ho fatto una scoperta interessante: Buiatti ci ha infatti riferito che l'Università ha in progetto di avviare un micromaltificio, tale da soddisfare le necessità dell'ateneo - e, chissà, magari anche di qualche altro piccolo produttore locale.
Non sto a descrivervi nuovamente tutte le varie fasi della cotta, dato che abbiamo ripercorso quelle già illustrate nel post precedente; anche questa volta peraltro utilizzando il fondamentale approccio scientifico secondo cui a gettare il luppolo deve essere una donna, e con la finale ossigenazione del mosto con metodo altamente meccanizzato - ossia usando una pagaia di legno forata, sapientemente maneggiata da prof Buiatti. Insomma, c'è stato anche di che divertirsi.
Colgo l'occasione per un'ultima considerazione, stimolata tra l'alto dall'affermazione di Musso secondo cui "in Italia manca la formazione" e dai relativi commenti comparsi sui social dopo il mio post. Certo per imparare a fare la birra non bastano tre giorni, né tre mesi; ma il corso dell'Università di Udine ha quantomeno il merito di avvicinare, complice la durata contenuta e il costo tutto sommato accessibile, i potenziali futuri mastri birrai a questo mondo dal punto di vista non solo della birrificazione in sé e per sé, ma anche della gestione tecnica ed economica del birrificio - aspetto da non trascurare se non si vuol chiudere bottega nel giro di pochi mesi. Se poi questi aspiranti mastri birrai vorranno divernire tali, magari decideranno di investire in (più costosi e più lunghi) corsi organizzati da altri enti, o cercheranno di affiancare un birraio di più lunga esperienza per completare la loro formazione: ma sia che avviino un'attività, sia che decidano che la loro strada è un'altra, comuqnue un primo passo l'hanno fatto.
Ancora una volta ringrazio l'Università di Udine - e in particolare il prof. Stefano Buiatti, il mastro birraio Stefano Bertoli e il dott. Paolo Passaghe - per l'ospitalità, e i corsisti per la piacevole compagnia!
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lunedì 18 maggio 2015
E' tornato il trovatore
Già lo scorso anno avevo parlato - in questo post - della tradizionale visita di Teo Musso, pioniere della birra artigianale in Italia e fondatore del birrificio Le Baladin, al corso tecnico gestionale per imprenditori della birra dell'Università di Udine; e anche quest'anno, come ha osservato il coordinatore prof. Buiatti, "Teo non ha voluto mancare: siamo alle sedicesima edizione, ed è l'unico ospite che ha presenziato a tutte".
Musso ha naturalmente ripercorso la storia di Le Baladin (che non sto a ripertervi, avendola già illustrata nel precedente post); ma ha anche lanciato alcune nuove provocazioni, che non hanno mancato di stimolare il dibattito. Curioso innanzitutto che Musso, già nel descrivere gli inizi della sua avventura, abbia affermato che "se potessi tornare indietro non userei più la parola artigianale, perché credo sia uno dei più grossi problemi che abbiamo oggi". Se quello che è considerato il fondatore del movimento ne rinnega in maniera così decisa l'etichetta, chiederne la ragione è il minimo: "Perché è una parola che diventa un punto debole - ha spiegato -, e non solo se riferita alla birra, ma a qualsiasi prodotto artigianale. Siamo qui a discutere su che cosa significhi "birra artigianale", su che cosa la distingua dalle altre, e intanto il consumatore nemmeno sa davvero cos'è - tanto che è quasi diventato un marchio, e c'è gente che al pub chiede "mi dia una birra artigianale" -, mentre per legge non ci è nemmeno consentito usare questa dicitura nell'etichetta. Meglio un logo a difesa del prodotto "vivo", della "birra viva", che identifichi quella prodotta secondo certe metodologie".
Impossibile poi non toccare la questione del fiorire impetuoso dei birrifici artigianali in Italia: nel post sulla sua visita dello scorso anno avevo parlato di 706 attività aperte, oggi siamo attorno a quota 900. Inevitabile quindi trovare un po' di tutto in quanto a qualità della birra e competenze dei birrai, tanto che Musso si è sbilanciato ad affermare che "in Italia ci sono forse venti mastri birrai a cui darei questo titolo. Nel nostro Paese sono pochi gli enti che fanno formazione: ad un giovane consiglierei di andare in Germania o in Belgio a studiare tecnologia della birra, perché l'Italia della birra artigianale ne ha bisogno". Oltretutto, in quanto a stili e aromatizzazioni, già è stato sperimentato lo sperimentabile, tanto che Musso ha consigliato agli aspiranti imprenditori del settore di fare piuttosto una sola birra, ma che li contraddistingua: "Solo nel 2014 sono nate 840 nuove etichette, davvero andare in cerca della novità che stupisce a tutti i costi non ha più senso".
900 produttori, inoltre, significa frammentazione del mercato e piccole dimensioni aziendali: Baladin, che con una produzione di 50 mila ettolitri annui è uno dei maggiori marchi, copre il 2,5% del mercato italiano. Per questo Musso ha ribadito la sua idea che "Vincerà chi ha il dimensionamento sufficiente per stare sul mercato: soprattutto se vogliano confrontarci con l'estero, cosa che praticamente nessun birrificio italiano ancora fa davvero. Basti dire che negli Usa ci sono birrifici considerati artigianali che fanno anche un milione di ettolitri: è chiaro che non possiamo competere alla pari". Anche per il peso dell'accisa, naturalmente, che per Musso fino a mille ettolitri annui "dovrebbe essere forfettaria: sotto quella soglia è più alto il costo degli accertamenti e della burocrazia che l'introito".
Da ultimo, una parola sugli orizzonti futuri: in occasione dei 30 anni del locale di Piozzo e dei 20 del birrificio nel 2016 Musso ha in progetto di inaugurare il nuovo birrificio attivo da marzo dell'anno prossimo, e di avviare un progetto più ampio di espansione articolato su un paio d'anni. Obiettivo ultimo, per il quale Musso si è posto il termine del 2022, è chiudere la filiera - che già include 200 ettari di terreno che forniscono l'85% delle materie prime, secondo quanto ha riferito - con l'autosufficienza energetica da fonti rinnovabili: "Saremo il primo birrificio al mondo totalmente indipendente", ha affermato con orgoglio. Da parte nostra, non ci resta che augurargli il successo.
Musso ha naturalmente ripercorso la storia di Le Baladin (che non sto a ripertervi, avendola già illustrata nel precedente post); ma ha anche lanciato alcune nuove provocazioni, che non hanno mancato di stimolare il dibattito. Curioso innanzitutto che Musso, già nel descrivere gli inizi della sua avventura, abbia affermato che "se potessi tornare indietro non userei più la parola artigianale, perché credo sia uno dei più grossi problemi che abbiamo oggi". Se quello che è considerato il fondatore del movimento ne rinnega in maniera così decisa l'etichetta, chiederne la ragione è il minimo: "Perché è una parola che diventa un punto debole - ha spiegato -, e non solo se riferita alla birra, ma a qualsiasi prodotto artigianale. Siamo qui a discutere su che cosa significhi "birra artigianale", su che cosa la distingua dalle altre, e intanto il consumatore nemmeno sa davvero cos'è - tanto che è quasi diventato un marchio, e c'è gente che al pub chiede "mi dia una birra artigianale" -, mentre per legge non ci è nemmeno consentito usare questa dicitura nell'etichetta. Meglio un logo a difesa del prodotto "vivo", della "birra viva", che identifichi quella prodotta secondo certe metodologie".
Impossibile poi non toccare la questione del fiorire impetuoso dei birrifici artigianali in Italia: nel post sulla sua visita dello scorso anno avevo parlato di 706 attività aperte, oggi siamo attorno a quota 900. Inevitabile quindi trovare un po' di tutto in quanto a qualità della birra e competenze dei birrai, tanto che Musso si è sbilanciato ad affermare che "in Italia ci sono forse venti mastri birrai a cui darei questo titolo. Nel nostro Paese sono pochi gli enti che fanno formazione: ad un giovane consiglierei di andare in Germania o in Belgio a studiare tecnologia della birra, perché l'Italia della birra artigianale ne ha bisogno". Oltretutto, in quanto a stili e aromatizzazioni, già è stato sperimentato lo sperimentabile, tanto che Musso ha consigliato agli aspiranti imprenditori del settore di fare piuttosto una sola birra, ma che li contraddistingua: "Solo nel 2014 sono nate 840 nuove etichette, davvero andare in cerca della novità che stupisce a tutti i costi non ha più senso".
900 produttori, inoltre, significa frammentazione del mercato e piccole dimensioni aziendali: Baladin, che con una produzione di 50 mila ettolitri annui è uno dei maggiori marchi, copre il 2,5% del mercato italiano. Per questo Musso ha ribadito la sua idea che "Vincerà chi ha il dimensionamento sufficiente per stare sul mercato: soprattutto se vogliano confrontarci con l'estero, cosa che praticamente nessun birrificio italiano ancora fa davvero. Basti dire che negli Usa ci sono birrifici considerati artigianali che fanno anche un milione di ettolitri: è chiaro che non possiamo competere alla pari". Anche per il peso dell'accisa, naturalmente, che per Musso fino a mille ettolitri annui "dovrebbe essere forfettaria: sotto quella soglia è più alto il costo degli accertamenti e della burocrazia che l'introito".
Da ultimo, una parola sugli orizzonti futuri: in occasione dei 30 anni del locale di Piozzo e dei 20 del birrificio nel 2016 Musso ha in progetto di inaugurare il nuovo birrificio attivo da marzo dell'anno prossimo, e di avviare un progetto più ampio di espansione articolato su un paio d'anni. Obiettivo ultimo, per il quale Musso si è posto il termine del 2022, è chiudere la filiera - che già include 200 ettari di terreno che forniscono l'85% delle materie prime, secondo quanto ha riferito - con l'autosufficienza energetica da fonti rinnovabili: "Saremo il primo birrificio al mondo totalmente indipendente", ha affermato con orgoglio. Da parte nostra, non ci resta che augurargli il successo.
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giovedì 14 maggio 2015
La terza zanna
Di Zanna Beer e delle sue prime due creazioni - la Savinja e la Polaris - avevo già parlato, e con grande piacere, in questo post; così ieri sera alla Brasserie di Tricesimo ho colto l'occasione per provare la terza nata di casa Zanolin, la Triple Z. A dire il vero, io e Enrico ci siamo alambiccati sul significato del nome - che magari il birraio vorrà chiarire -: forse perché, abbiamo osservato scherzosamente, dopo una bottiglia da mezzo di una birra di 7,5 gradi non puoi far altro che metterti a dormire? Sia come sia, l'importante non è il nome ma la sostanza - "Che cosa c'è in un nome"?, diceva anche il buon Romeo di Shakespeare - e così siamo passati all'assaggio.
Già all'aroma, in cui predomina la frutta matura, si intuisce che è una birra piuttosto dolce per il genere; e al palato viene infatti confermata questa impressione, con un corpo pieno e caramellato che con l'alzarsi della temperatura vira verso la mandorla. Anche il finale rimane dolce, con dei sentori quasi tendenti al whisky, e discretamente persistente. Ottimo anche l'abbinamento proposto dalla Brasserie con albicocche secche e mandorle, che si armonizzano perfettamente con i sapori dolci della Triple Z.
Posso dire di confermare quanto avevo scritto nello scorso post, ossia che quelle di Zanna sono "birre non fatte per stupire per la loro intensità o particolarità, ma che nei fatti stupiscono per la qualità raggiunta all'interno di canoni di pulizia e di equilibrio": ed in effetti anche questa è una tripel che non cerca "l'effetto speciale", ma che vuole, molto semplicemente, essere "ben fatta". Certo la Savinja e la Polaris hanno una nota di originalità e di unicità in più dati anche i particolari luppoli utilizzati, ma - sempre che vi piaccia il dolce, beninteso - anche la Triple Z è una carta ben giocata nell'ottica di diversificare il panorama offerto da Zanna. A questo punto, non mi resta che invitare ad una quarta birra...
Già all'aroma, in cui predomina la frutta matura, si intuisce che è una birra piuttosto dolce per il genere; e al palato viene infatti confermata questa impressione, con un corpo pieno e caramellato che con l'alzarsi della temperatura vira verso la mandorla. Anche il finale rimane dolce, con dei sentori quasi tendenti al whisky, e discretamente persistente. Ottimo anche l'abbinamento proposto dalla Brasserie con albicocche secche e mandorle, che si armonizzano perfettamente con i sapori dolci della Triple Z.
Posso dire di confermare quanto avevo scritto nello scorso post, ossia che quelle di Zanna sono "birre non fatte per stupire per la loro intensità o particolarità, ma che nei fatti stupiscono per la qualità raggiunta all'interno di canoni di pulizia e di equilibrio": ed in effetti anche questa è una tripel che non cerca "l'effetto speciale", ma che vuole, molto semplicemente, essere "ben fatta". Certo la Savinja e la Polaris hanno una nota di originalità e di unicità in più dati anche i particolari luppoli utilizzati, ma - sempre che vi piaccia il dolce, beninteso - anche la Triple Z è una carta ben giocata nell'ottica di diversificare il panorama offerto da Zanna. A questo punto, non mi resta che invitare ad una quarta birra...
martedì 12 maggio 2015
Tre chicche da oltreoceano
Chiedendo scusa per il ritardo, trovo giusto e doveroso rendere conto della degustazione "Oak barrel aged" organizzata dall'associazione culturale Fermenti di Mestre in collaborazione con l'Hoppiness Beershop di Capodistria; perché, se si dice spesso che una delle ricchezze del nostro Paese sotto il profilo birrario è la vasta rete di homebrewers, anche le associazioni che creano una cultura in questo senso non sono una risorsa meno importante. Soprattutto se, come in questo caso, riescono a portare tre birre non presenti sul mercato italiano: la Saint's Devotion di The Lost Abbey e la Luciernaga e Madrugada Oscura di Jolly Pumpkin Artisan Ales, entrambi birrifici americani. Tre birre con un tratto comune, quello che il buon prof. Buiatti aveva una volta scherzosamente definito "Il mio buon amico Brett Pitt" - il lievito brettanomyces, v. glossario.
Sotto la guida esperta del buon Miro - meglio noto come Truk Drake - abbiamo iniziato dalla Saint's Devotion, una Belgian Blonde Ale a cui viene aggiunto appunto il brett per la rifermentazione, e maturata in botti di chardonnay. All'aroma ho trovato risaltassero più di tutto le note di frutta esotica e di crosta di pane - che si ritrova poi ben percepibile nel corpo -, mentre il brett rimane molto delicato sia all'olfatto che al palato; più percepibile nel finale, insieme ad una luppolatura fresca e citrica.
Sullo stesso stile la Luciernaga ("lucciola"), stagionale del Jolly Pumpkin. Dici stagionale e dici Saison: qui la parte del leone la fanno le spezie, dal pepe ai chiodi di garofano, che giocano sul contrasto con la dolcezza del malto e una persistenza assai decisa in cui il brett - qui sì - si fa sentire in pieno, mischiandosi con il sentore di spezie quasi piccante ancora rimasto sul palato. Una birra per chi ama i sapori forti, ma che era ancora nulla in confronto a ciò che ci aspettava dopo.
A chiudere il tris di birre americane è stata infatti la Madrugada Obscura ("alba oscura", un nome, un programma), una imperial stout del tutto originale appunto perché ai sapori di caffè e cioccolata tipici del genere va ad unirsi quello del brett. Il risultato è una birra assai peculiare, che a me ha ricordato l'asprezza dei semi di cacao e di caffè ancora verdi che ho - a mio rischio e pericolo, dato che mi avevano avvisata che "sono proprio acidi" - masticato in Guatemala; ma è ben percepibile anche l'amaro del tostato, che crea un gioco di contrasti a prova di palato forte. Gioco, devo dire, ben riuscito, perché per quanto assai impegnativa non è affatto una birra sgradevole - occhio però agli otto gradi alcolici - in uanto nessuno di questi sapori arriva ad essere eccessivo e sovrastare gli altri.
Ultima nota al di là della degustazione da oltreoceano, Miro ha portato "per gli amici" la sua saison, maturata in botte e imbottigliata in bottiglie recuperate di Rosée de Gambrinus di Cantillon con ancora i lieviti: tanto di cappello al nostro homebrewer, che ha ottenuto un risultato finale che non ha nulla da invidiare a quello di tanti birrifici...
Sotto la guida esperta del buon Miro - meglio noto come Truk Drake - abbiamo iniziato dalla Saint's Devotion, una Belgian Blonde Ale a cui viene aggiunto appunto il brett per la rifermentazione, e maturata in botti di chardonnay. All'aroma ho trovato risaltassero più di tutto le note di frutta esotica e di crosta di pane - che si ritrova poi ben percepibile nel corpo -, mentre il brett rimane molto delicato sia all'olfatto che al palato; più percepibile nel finale, insieme ad una luppolatura fresca e citrica.
Sullo stesso stile la Luciernaga ("lucciola"), stagionale del Jolly Pumpkin. Dici stagionale e dici Saison: qui la parte del leone la fanno le spezie, dal pepe ai chiodi di garofano, che giocano sul contrasto con la dolcezza del malto e una persistenza assai decisa in cui il brett - qui sì - si fa sentire in pieno, mischiandosi con il sentore di spezie quasi piccante ancora rimasto sul palato. Una birra per chi ama i sapori forti, ma che era ancora nulla in confronto a ciò che ci aspettava dopo.
A chiudere il tris di birre americane è stata infatti la Madrugada Obscura ("alba oscura", un nome, un programma), una imperial stout del tutto originale appunto perché ai sapori di caffè e cioccolata tipici del genere va ad unirsi quello del brett. Il risultato è una birra assai peculiare, che a me ha ricordato l'asprezza dei semi di cacao e di caffè ancora verdi che ho - a mio rischio e pericolo, dato che mi avevano avvisata che "sono proprio acidi" - masticato in Guatemala; ma è ben percepibile anche l'amaro del tostato, che crea un gioco di contrasti a prova di palato forte. Gioco, devo dire, ben riuscito, perché per quanto assai impegnativa non è affatto una birra sgradevole - occhio però agli otto gradi alcolici - in uanto nessuno di questi sapori arriva ad essere eccessivo e sovrastare gli altri.
Ultima nota al di là della degustazione da oltreoceano, Miro ha portato "per gli amici" la sua saison, maturata in botte e imbottigliata in bottiglie recuperate di Rosée de Gambrinus di Cantillon con ancora i lieviti: tanto di cappello al nostro homebrewer, che ha ottenuto un risultato finale che non ha nulla da invidiare a quello di tanti birrifici...
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lunedì 4 maggio 2015
Cerveza y arena
So che non è bene fare i titoli in lingua straniera, ma come meglio introdurre un post su un birrificio spagnolo? (Per i non bilingui, "birra e sabbia", allusione al più celebre "sangre y arena", "sangue e sabbia", che descrive le corride). A Santa Lucia ho infatti avuto per la prima volta l'occasione di assaggiare birre spagnole allo stand Carpano, dove erano presenti distributori di bottiglie iberiche. Mi sono preventivamente fatta una chiacchierata con Andrea, il ragazzo allo stand, sul panorama birrario in Spagna: una nazione, a suo dire, "che è un po' come l'Italia dell'inizio degli anni 2000: i birrifici stanno iniziando a fiorire e crescere, indubbiamente qualcuno di questi ha molto da dire, e c'è tanta voglia di sperimentare. Qui in Italia, dopo la sperimentazione, si sta un po' rientrando nei ranghi, mentre lì si cerca di colpire".
E infatti il panorama offerto a Santa Lucia, per quanto diversificato, per era piuttosto sbilanciato verso le Ipa, genere per eccellenza atto a stupire: su tutte mi ha incuriosita la Devil's Ipa del birrificio Marina, una botta di amaro da 130 ibu - per i non adepti: l'ibu è l'unità di misurazione dell'amaro, vedi glossario. 130, credetemi, sono tanti - dal colore ramato. "Tranquilla, il palato dopo i 100 ibu non snete più nulla" mi ha rassicurata andrea; e in effetti, dopo la rosa di aromi di luppoli americani all'aroma, al palato ritorna il malto (crystal, per la precisione) e l'amaro arriva netto soltanto in chiusura. Per chi ama le ipa, ma non disdegna nemmeno una bitter di quelle toste. Altra curiosità che ho trovato al banco di Carpano è la Vinya Hop - sempre di Marina, una birra chiara a fermentazione semispontanea con aggiunta di uva spina, in cui sono preponderanti gli aromi e i sapori della frutta.
Non mancava comunque qualcosa di più classico nella linea del birrificio Espiga: assai rinfrescante con i suoi profumi tra il floreale e l'agrumato la bonde ale, leggera e con un finale di un amaro citrico delicato; così come la pale ale dal colore tra il dorato e il ramato, in cui le note dolci del malto nel corpo si equilibrano bene con il finale luppolato.
Ultima nota: al banco dello stesso distributore ho trovato anche le birre del tedesco Crew Republic, di cui ho provato la Imperial Stout Roundhouse Kick: 9 gradi e mezzo - e non sentirli da quanto è piacevole berla, per quanto l'alcol sia ben percepibile - di caffè, cioccolato e tostato come nella migliore tradizione del genere, con un corpo tanto pieno da sembrare cremoso, e una chiusura di amaro da malto tanto decisa da preparare il sorso successivo. Ruffiana finché volete, per carità: ma se non fosse per il grado alcolico, la pinta intera scenderebbe che è un piacere...
E infatti il panorama offerto a Santa Lucia, per quanto diversificato, per era piuttosto sbilanciato verso le Ipa, genere per eccellenza atto a stupire: su tutte mi ha incuriosita la Devil's Ipa del birrificio Marina, una botta di amaro da 130 ibu - per i non adepti: l'ibu è l'unità di misurazione dell'amaro, vedi glossario. 130, credetemi, sono tanti - dal colore ramato. "Tranquilla, il palato dopo i 100 ibu non snete più nulla" mi ha rassicurata andrea; e in effetti, dopo la rosa di aromi di luppoli americani all'aroma, al palato ritorna il malto (crystal, per la precisione) e l'amaro arriva netto soltanto in chiusura. Per chi ama le ipa, ma non disdegna nemmeno una bitter di quelle toste. Altra curiosità che ho trovato al banco di Carpano è la Vinya Hop - sempre di Marina, una birra chiara a fermentazione semispontanea con aggiunta di uva spina, in cui sono preponderanti gli aromi e i sapori della frutta.
Non mancava comunque qualcosa di più classico nella linea del birrificio Espiga: assai rinfrescante con i suoi profumi tra il floreale e l'agrumato la bonde ale, leggera e con un finale di un amaro citrico delicato; così come la pale ale dal colore tra il dorato e il ramato, in cui le note dolci del malto nel corpo si equilibrano bene con il finale luppolato.
Ultima nota: al banco dello stesso distributore ho trovato anche le birre del tedesco Crew Republic, di cui ho provato la Imperial Stout Roundhouse Kick: 9 gradi e mezzo - e non sentirli da quanto è piacevole berla, per quanto l'alcol sia ben percepibile - di caffè, cioccolato e tostato come nella migliore tradizione del genere, con un corpo tanto pieno da sembrare cremoso, e una chiusura di amaro da malto tanto decisa da preparare il sorso successivo. Ruffiana finché volete, per carità: ma se non fosse per il grado alcolico, la pinta intera scenderebbe che è un piacere...
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