Si sa che uno dei grandi mali nel giornalismo è l'autocitazione; e in effetti, al di là del narcisismo connaturato alla nostra razza, riconosco che non è una gran bella abitudine. Dato che ho però ricevuto diversi solleciti in questo senso, vengo meno ai miei principi postando qui un articolo scritto per Città Nuova: Udine, il tempo del silenzio.
Sono righe nate dall'esperienza fatta questa settimana, in seguito all'omicidio di Mirco Sacher: una storia poco chiara, sulla quale ancora non si è fatta luce. Come spiego nel testo, mi era stato chiesto un articolo in merito, ma ho ritenuto che, in questo caso di specie, fosse meglio tacere - leggendo capirete il perché.
Per carità, non pretendo di pontificare su come i giornali molto spesso farebbero meglio a stare zitti, sulla sovraesposizione mediatica delle famose tre S - sesso, soldi e sangue - e via discorrendo: se ne è parlato già troppo, e non avrei nulla da aggiungere. L'intento è solo quello di condividere le ragioni di una scelta, perché credo che anche questo sia un contributo valido verso i lettori di un giornale. Buona lettura.
Il mio blog di avventure birrarie, descrizioni di birre, degustazioni, e notizie dal mondo della birra artigianale.
domenica 14 aprile 2013
venerdì 12 aprile 2013
Tasse alle imprese, quando le percentuali non tornano
Complice la campagna elettorale di fatto mai conclusa, e diversi avvenimenti sia di cronaca che nell'agone politico legati a questioni fiscali, da qualche tempo la tassazione che pesa sulle tasche degli italiani - e soprattutto delle imprese - sta tornando a ricevere i più o meno meritati strali. Le stime sulla pressione fiscale non sono sempre concordi, anche perché i metodi usati per calcolarla non sempre coincidono; ammetto, non avendo fatto studi di economia, di non avere la competenza per giudicare quali siano più o meno attendibili, per cui non azzardo pareri su quale di queste percentuali sia più vicina alla realtà.
Ho trovato tuttavia particolarmente istruttivo andare a spulciare il rapporto Paying taxes 2013 di Doing Business, progetto della Banca Mondiale, sul carico fiscale alle imprese. Lo studio mette a confronto i vari Paesi del mondo, raggruppati per area geografica, prendendo in considerazione tre aspetti: il numero medio di pagamenti che un'impresa deve effettuare, le ore di lavoro necessarie a tal fine, e il carico fiscale complessivo in percentuale. Secondo quanto si legge, a livello mondiale un'azienda si trova a fare in media 27 pagamenti all'anno, impiegando 267 ore di lavoro, per un carico fiscale medio del 44%; ce la passiamo un po' meglio in Europa, dove bastano in media 13 pagamenti e 184 ore, devolvendo al fisco "solo" il 42% della base imponibile.
Andando a vedere l'Italia, però, c'è di che stupirsi: se infatti il numero di pagamenti annuali è 15 - quindi non singificativamente sopra la media -, deve essere particolarmente difficile districarsi tra le scartoffie, dato che servono 269 ore. Ancor più strabiliante è la pressione fiscale sulle imprese, che la Banca Mondiale stima addirittura al 68%, la più alta del continente: a titolo di esempio - al di là dell'isola felice del Lussemburgo con il 21%, e di Cipro, il cui 23% non ha risparmiato ben altri guai - la Germania è al 46,8%, il Regno Unito al 35,5%, la Spagna al 38,7%; solo la Francia e l'Estonia ci sono vicine, con il 66 e 67% rispettivamente, tutti gli altri ci staccano di almeno 10 punti.
Ancor più istruttivo è però forse andare a vedere la scomposizione di queste tasse: a fare la parte del leone sono infatti le imposte sul lavoro, che pesano da sole per il 43,4%. Vero è che Francia e Belgio arrivano al 50%; ma tutti gli altri Paesi hanno tassazioni nettamente inferiori sulle buste paga, fino al 3,6% della Danimarca. Relativamente alte anche le imposte sugli utili, con il 22,9% - soltanto Malta e la Norvegia le hanno poco più alte. Ribadisco, mi esimo da giudizi perché non ne ho le competenze; ma, appunto per la mia ignoranza, il fatto che ci discostiamo significativamente da buona parte d'Europa con queste percentuali, qualche domanda me la fa nascere.
Ho trovato tuttavia particolarmente istruttivo andare a spulciare il rapporto Paying taxes 2013 di Doing Business, progetto della Banca Mondiale, sul carico fiscale alle imprese. Lo studio mette a confronto i vari Paesi del mondo, raggruppati per area geografica, prendendo in considerazione tre aspetti: il numero medio di pagamenti che un'impresa deve effettuare, le ore di lavoro necessarie a tal fine, e il carico fiscale complessivo in percentuale. Secondo quanto si legge, a livello mondiale un'azienda si trova a fare in media 27 pagamenti all'anno, impiegando 267 ore di lavoro, per un carico fiscale medio del 44%; ce la passiamo un po' meglio in Europa, dove bastano in media 13 pagamenti e 184 ore, devolvendo al fisco "solo" il 42% della base imponibile.
Andando a vedere l'Italia, però, c'è di che stupirsi: se infatti il numero di pagamenti annuali è 15 - quindi non singificativamente sopra la media -, deve essere particolarmente difficile districarsi tra le scartoffie, dato che servono 269 ore. Ancor più strabiliante è la pressione fiscale sulle imprese, che la Banca Mondiale stima addirittura al 68%, la più alta del continente: a titolo di esempio - al di là dell'isola felice del Lussemburgo con il 21%, e di Cipro, il cui 23% non ha risparmiato ben altri guai - la Germania è al 46,8%, il Regno Unito al 35,5%, la Spagna al 38,7%; solo la Francia e l'Estonia ci sono vicine, con il 66 e 67% rispettivamente, tutti gli altri ci staccano di almeno 10 punti.
Ancor più istruttivo è però forse andare a vedere la scomposizione di queste tasse: a fare la parte del leone sono infatti le imposte sul lavoro, che pesano da sole per il 43,4%. Vero è che Francia e Belgio arrivano al 50%; ma tutti gli altri Paesi hanno tassazioni nettamente inferiori sulle buste paga, fino al 3,6% della Danimarca. Relativamente alte anche le imposte sugli utili, con il 22,9% - soltanto Malta e la Norvegia le hanno poco più alte. Ribadisco, mi esimo da giudizi perché non ne ho le competenze; ma, appunto per la mia ignoranza, il fatto che ci discostiamo significativamente da buona parte d'Europa con queste percentuali, qualche domanda me la fa nascere.
martedì 2 aprile 2013
Il diritto al numero chiuso
Parlate con un qualsiasi membro di un'associazione studentesca: nove su dieci vi dirà che il numero chiuso, previsto per sempre più facoltà, è una violazione del diritto allo studio, perché impedisce il libero accesso alle aule universitarie. Al di là dell'annoso problema dell'insufficienza di strutture e risorse che affligge molte università italiane, costringendo gli studenti a seguire le lezioni stipati come sardine in barba ad ogni norma sulla capienza massima delle aule, o addirittura - come è capitato alla sottoscritta - a sostenere un esame da non frequentante semplicemente perché non era stato possibile stipendiare un docente, a porre un limite alle iscrizioni accettate sono in molti: dagli Stati Uniti, dove la selezione è operata di solito sulla base del curriculum e dei test standardizzati, all'Australia, dove dipende dai corsi frequentati alla scuola superiore, l'intento di mantenere una buona qualità della didattica ammettendo i migliori o presunti tali - o banalmente soltanto gli studenti che si è in grado di gestire in base alle risorse disponibili - non è generalmente visto come una violazione dei diritti umani.
Eppure così la pensano alcuni in Italia: è di oggi la notizia della sentenza emessa dalla Corte Europea dei diritti umani di Starsburgo, che si è pronunciata sul ricorso di Tarantino et alteri contro il nostro Paese stabilendo che il numero chiuso non viola il diritto allo studio sancito dalla Convenzione europea dei diritti umani. E fino a qui, direte, niente di che: se ne discute da tanto, evidentemente i giudici la pensano così.
Più istruttivo è però andare a leggere il testo del ricorso. Si scopre così che gli otto ricorrenti sono nati «tra il 1966 e il 1988»: ohibò, mi sono detta: o il caso va avanti dalla notte dei tempi, o si tratta di gente - esclusi i più giovani - che l'età dello studio l'ha passata da un pezzo. Proseguiamo nella lettura: no, costoro avevano sostenuto l'esame di ammissione a medicina e a odontoiatria tra il 2007 e il 2009, quindi abbastanza recentemente. Vedendo poi le violazioni lamentate, oltre a quella già citata del diritto allo studio, c'è anche quella del diritto ad un equo processo perché il giudice italiano non aveva investito della questione la Corte europea, nonché del principio di non discriminazione, in quanto «gli studenti più giovani sarebbero più avvantaggiati nei test di ammissione» (forse perché più freschi di studi? Non si sa, il ricorso non lo dice). Insomma, gli otto si sono forse un po' allargati.
E vedendo ciò che i giornali dicono su questi otto, in effetti, c'è di che rimanere perplessi: uno avrebbe fallito per tre volte l'ammissione a medicina a Palermo, altri sei quello ad odontoiatria, e uno sarebbe stato allontanato dalla stessa facoltà dopo non aver dato esami per otto anni. Insomma, non propriamente un campione statistico significativo per giudicare se il numero chiuso sia o meno un reale ostacolo al diritto allo studio.
Tutto questo per dire che forse non dobbiamo lasciarci distrarre da casi come questo nel dibattito sulla questione, dimenticando i veri nodi da sciogliere: il diritto allo studio rimarrà ben poco effettivo finché le aule saranno così affollate - tanto più se da gente che non sosterrà mai un singolo esame - da non riuscire nemmeno ad entrarvi fisicamente, né un'eventuale selezione sarà efficace finché nei test di ammissione a medicina verrà chiesto il nome dell'ultima miss Italia. Insomma, le questioni di principio servono a poco, finché si scontrano con una realtà di questo genere.
Eppure così la pensano alcuni in Italia: è di oggi la notizia della sentenza emessa dalla Corte Europea dei diritti umani di Starsburgo, che si è pronunciata sul ricorso di Tarantino et alteri contro il nostro Paese stabilendo che il numero chiuso non viola il diritto allo studio sancito dalla Convenzione europea dei diritti umani. E fino a qui, direte, niente di che: se ne discute da tanto, evidentemente i giudici la pensano così.
Più istruttivo è però andare a leggere il testo del ricorso. Si scopre così che gli otto ricorrenti sono nati «tra il 1966 e il 1988»: ohibò, mi sono detta: o il caso va avanti dalla notte dei tempi, o si tratta di gente - esclusi i più giovani - che l'età dello studio l'ha passata da un pezzo. Proseguiamo nella lettura: no, costoro avevano sostenuto l'esame di ammissione a medicina e a odontoiatria tra il 2007 e il 2009, quindi abbastanza recentemente. Vedendo poi le violazioni lamentate, oltre a quella già citata del diritto allo studio, c'è anche quella del diritto ad un equo processo perché il giudice italiano non aveva investito della questione la Corte europea, nonché del principio di non discriminazione, in quanto «gli studenti più giovani sarebbero più avvantaggiati nei test di ammissione» (forse perché più freschi di studi? Non si sa, il ricorso non lo dice). Insomma, gli otto si sono forse un po' allargati.
E vedendo ciò che i giornali dicono su questi otto, in effetti, c'è di che rimanere perplessi: uno avrebbe fallito per tre volte l'ammissione a medicina a Palermo, altri sei quello ad odontoiatria, e uno sarebbe stato allontanato dalla stessa facoltà dopo non aver dato esami per otto anni. Insomma, non propriamente un campione statistico significativo per giudicare se il numero chiuso sia o meno un reale ostacolo al diritto allo studio.
Tutto questo per dire che forse non dobbiamo lasciarci distrarre da casi come questo nel dibattito sulla questione, dimenticando i veri nodi da sciogliere: il diritto allo studio rimarrà ben poco effettivo finché le aule saranno così affollate - tanto più se da gente che non sosterrà mai un singolo esame - da non riuscire nemmeno ad entrarvi fisicamente, né un'eventuale selezione sarà efficace finché nei test di ammissione a medicina verrà chiesto il nome dell'ultima miss Italia. Insomma, le questioni di principio servono a poco, finché si scontrano con una realtà di questo genere.
Iscriviti a:
Post (Atom)