Dopo la lettera da parte del comitato spontaneo dei gestori dei pubblici esercizi milanesi, ho iniziato a fare più attenzione a quelle che sono le istanze di gestori di pub e affini. In particolare dopo l'annuncio del tanto atteso decreto per la fase 2; che, tra stupori e polemiche, ha prospettato al 1 giugno la riapertura di bar e ristoranti (categoria sotto al quale ricadono la grande maggioranza dei pub).
Inizialmente le reazioni erano state di contrarietà: impossibile aspettare così a lungo, molti rischiano di chiudere, consentire soltanto l'asporto non risolve perché genera più costi che incassi. Si sono mossi presidenti di Regione - alcuni, al momento in cui scriviamo, intendono anticipare le riaperture -, associazioni di categoria e singoli gruppi, con tanto di raccolte di firme, flashmob e affini.
Nel giro di poco tempo però hanno iniziato a farsi sentire anche altre voci - che in realtà c'erano anche prima, semplicemente erano passate più in sordina: ossia quelle che sostengono che riaprire in una fase in cui è ancora necessario osservare pesanti misure per evitare la ripresa del contagio sia in realtà, come si dice dalle mie parti, "un tacòn pedo del sbrech" (per i non venetosinistrapiavofoni: una toppa peggiore dello strappo). Posti a sedere ridotti anche di oltre la metà, spese per l'adeguamento dei locali a fronte di pesanti incertezze su quali saranno effettivamente le normative di sicurezza, prospettive di un flusso di clienti assai ridotto: tutti elementi che, secondo i sostenitori di questa tesi, condannerebbero ugualmente gli esercizi pubblici al fallimento. Meglio a questo punto, dicono, prevedere adeguate misure di sostegno pubblico per qualche mese in più (e che queste misure arrivino sul serio, senza i pesanti ritardi visti finora), e per poi ripartire a pieno regime o quasi. Tra queste voci c'è stata ad esempio quella del Comitato HoReCa Lombardia, che la settimana scorsa ha simbolicamente consegnato le chiavi dei propri locali al sindaco di Milano con questa richiesta.
Si può dire che siano due facce della stessa medaglia, e non solo nella misura in cui sono due punti di vista (diversi ma altrettanto legittimi) su come affrontare un problema che è lo stesso per tutti; ma anche perché è ragionevole credere che, a seconda dei singoli casi, possa essere più adatto l'uno o l'altro approccio. Credo ad esempio non sia un caso che il primo punto di vista sia più diffuso in quelle zone che sono state meno pesantemente colpite dall'epidemia, o che comunque vi hanno fatto meglio fronte (e lo vedo concretamente qui a Nordest); nonché che siano evidentemente molti i fattori da prendere in considerazione per valutare se la riapertura convenga o se la chiusura sia ancora sostenibile (l'essere più o meno grandi e strutturati, l'avere più o meno dipendenti, l'avere o meno cucina, essere proprietari o affittuari della struttura, trovarsi in un luogo con più o meno afflusso di pubblico, ed altro ancora). Questo per dire che, come sempre nelle situazioni complesse, sarebbe illusorio voler cercare una soluzione semplice (che sia il "riapriamo tutto senza se e senza ma" o la chiusura ad oltranza).
Senza però voler giudicare le singole posizioni (visto che non sono publican e quindi non potrei mai permettermi di farlo), una considerazione mi sento di farla. Ossia quella che mi dispiacerebbe vedere spuntare i coltelli tra chi vuole riaprire subito, e chi invece invoca il prosieguo della chiusura con sostegno statale. Già ho sentito qualche espressione di astio di una corrente di pensiero verso l'altra, e non vorrei si andasse in peggio. Andare divisi come categoria è spesso (per non dire sempre) pericoloso, e a rischio di trovarsi "cornuti e mazziati" (e no, questo non è un modo di dire veneto). Mi chiedo se sia possibile trovare una posizione di sintesi; o una sorta di soluzione flessibile per cui si possa optare, per un periodo di tempo definito, per l'apertura oppure per la chiusura sostenuta da apposite misure. Sarei felice di ricevere l'opinione di qualche publican o ristoratore in merito.
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