Da ragazza - o donna, fate voi...tanto la mia età la sapete - cresciuta tra le colline del Prosecco, non ho potuto non seguire con interesse la polemica seguita all'ultima puntata di Report in merito all'utilizzo dei pesticidi nei vigneti. Intendiamoci: una storia che sento fin da quando ero bambina, che pone un problema reale, ma concordo con chi dice che il servizio non ha reso giustizia ai passi avanti che sono stati compiuti e agli sforzi di quei viticoltori che già da tempo si sono presi a cuore la questione - finendo per dare un quadro falsato della realtà.
Detto ciò però, mi ha dato da pensare la risposta data da Desiderio Bortolin (nella foto) - titolare delle Cantine Angelo Bortolin - in una lettera aperta su Facebook indirizzata a Milena Gabanelli. Dopo aver ripercorso la storia dell'azienda, e rilevato alcune criticità nel servizio in merito al fatto di aver "messo nel mucchio" produttori di doc e docg - che devono sottostare ad un disciplinare più stretto e lavorare le vigne a mano data la conformazione delle colline - Bortolin scrive: "Il “fenomeno Prosecco” non appartiene a Valdobbiadene, ma è qualcosa
che a noi coltivatori di Valdobbiadene fa rabbrividire, che noi stessi
contrastiamo puntando sulla qualità dei nostri prodotti e non sul numero
di bottiglie [...] E’ da tempo che sostengo la necessità per noi viticoltori di
Valdobbiadene di sdoganarci dal nome “Prosecco” che è ormai sfruttato da
tanti come opportunità di business internazionale, data la richiesta
del mercato. E il mercato, soprattutto quello internazionale, non ha
ancora capito la differenza né è in grado di apprezzare il valore della
nostra viticoltura eroica, della nostra storia [...] E’ forse davvero arrivato il momento, come io affermo da tempo, di dire
basta al nome “Prosecco” e di chiamare i nostri vini esclusivamente
“Conegliano-Valdobbiadene”".
E cosa c'entra con la birra, direte voi, a meno di non volerci fare una Iga col Prosecco (arrivate tardi, l'hanno già fatta)? Beh, diciamo che a molti il discorso non sarà suonato del tutto nuovo: un "fenomeno" (Prosecco o birra artigianale che sia) legato ad un "nome" (Prosecco o birra artigianale che sia, e ricordo che anche quest'ultima ha ottenuto, seppure sotto forma diversa, una qualche tutela normativa) che però finisce per essere "sfruttato da tanti come opportunità di business" e ritorcersi contro chi lavora bene, tanto da far invocare l'abbandono del nome stesso. Vi dice nulla tutta ciò? Anche senza scomodare Teo Musso, che già da qualche anno preferisce parlare di "birra viva", tanti dei birrai con cui mi sono confrontata hanno espresso serie perplessità in proposito - come avevo scritto anche in questo post. Due casi molto diversi, certo, ma accomunati dal fattore "effetto nome".
"What's in a name?", "Che cosa c'è in un nome?", si chiedeva la shakespeariana Giulietta al balcone: tutto e nulla, sembrerebbe, se prima il nome pare essere il fautore di un successo e poi improvvisamente qualcosa da cui si può - e anzi è meglio - fare a meno "purché ci sia la qualità" - e si trovi il modo di far arrivare ugualmente il messaggio al consumatore, beninteso. Mi ha dato da pensare la necessità diffusa in sempre più settori, dopo anni da "sbornia da certificazioni" - ricordiamo che l'Italia è il Paese europeo con il maggior numero di prodotti agroalimentari certificati, oltre 800, dal dop, al doc, all'igp - di "ritornare alle origini" e non "aggrapparsi" ad un nome nel momento in cui questo ha perso il significato per il quale era stato inteso. Se sia per la birra che per il Prosecco ci avvieremo su questa strada, forse è presto per dirlo; ma, come mi è stato scritto in un commento privato ad un mio post, "Gli appassionati non si fanno fregare dalla dicitura "birra artigianale", che, diciamocelo francamente, non significa nulla. Non oggi". Forse continueremo a definire "artigianali" i birrifici che per dimensione e metodo di produzione rientrano in certi parametri; ma "birra artigianale", per quanto sia a rigor di logica la birra fatta da loro, non sarà più il vessillo da sbandierare.
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