martedì 19 gennaio 2016

Degustando in riva al Garda


Sulla via del ritorno da Trivero mi sono poi fermata ad Affi, in provincia di Verona, ad onorare un altro invito, quelo del Benaco 70: ho avuto così il piacere di visitare il loro punto vendita, arredato in maniera originale con tanto di sgabelli ricavati da tronchi realizzati dal padre di Erica, anima del birrificio insieme al marito Riccardo (nella foto: Enrico provato dai kilometri alla guida, e bisognoso di ristoro nonché di un cambio al volante).

Altra curiosità del luogo è la sala cotta a vista, dietro ad un vetro: sono evidentemente passati i tempi in cui, come Teo Musso ama raccontare, vedere come si fa la birra metteva in fuga gli avventori (anche se è pur sempre vero che dietro ad un vetro gli odori non si sentono). Anzi, a detta di Erica è una curiosità apprezzata, e stimola a volerne sapere di più sull'arte brassicola. Il punto vendita espone diverse confezioni regalo, prodotti realizzati con la birra in determinati periodi dell'anno (pare che i panettoni alla porter siano stati un particolare successo, e per Pasqua sono in elaborazione le colombe), e gadget come le felpe con il logo del birrificio.

Dato che le birre di Benaco 70 le avevo già provate tutte, Erica ci ha tirato fuori dal cappello una bottiglia risalente ad una cotta elaborata specificatamente per un cliente. Trattasi di una ricetta che ha come base quella della loro Porter, ma a cui - come da richiesta dell'acquirente - hanno aggiunto una dose generosa di malto torbato. Notevole sia la schiuma, ben densa e persistente, che l'aroma: della serie "scordatevi la porter", qui siamo molto più vicini ad una rauchbier pur essendo partiti da un'alta fermentazione - nonché, molto più genericamente, da un qualcosa di completamente diverso. A dominare è infatti il malto peated, che sovrasta gli altri profumi e aromi tipici delle porter. Rispetto ad una rauchbier il corpo rimane più robusto, esaltando ancora di più la componente dei malti; per chiudere poi con un torbato ben persistente, che "chiama" magari dello speck o altri affettati simili. Personalmente avrei fatto anche il bis perché amo il torbato, ma devo concedere che non è una birra semplice e che potrebbe risultare eccessiva per chi non è abituato a questi sapori.

Per quanto dopo un birra del genere sia difficile pensare a bere altro vista la persistenza, ci siamo comunque "concessi" una delle certezze del Benaco 70, la Honey Ale: la loro birra con miele di castagno, che - data la componente amarognola di questo tipo di miele e alla dosatura equilibrata - viene incontro anche ai gusti di chi tende a trovare questi tipi di birra eccessivamente dolci. Una chiusura in gloria - e in piccole dosi, dati i km che ancora mancavano a casa...- di un piacevole weekend.




lunedì 18 gennaio 2016

Una visita in quel del Jeb

Ho approfittato del fine settimana per cogliere l'invito di Chiara Baù - pioniera delle quote rosa nel settore con l'apertura del microbirrificio Jeb nel 2008 (per chi volesse approfondire, suggerisco questo intereressante articolo di Nonsolobirra.net) - a farle visita in quel di Zegna, frazione di Trivero (Biella), posizionata in un punto panoramicamente strategico - con vista sul Monte Rosa a Nord, e Appennino e Alpi liguri a sud. Temevo ormai di essermi persa, complici le bellezze del luogo che distraggono l'attenzione dalle indicazioni del navigatore, quando due furgoni "griffati" e un cartello ben visibile mi hanno confermato che ero arrivata alla meta.

All'esterno ad accogliere i visitatori c'è un gazebo ispirato all'Osteria senz'oste, idea nata nel valdobbiadenese, in cui è possibile servirsi direttamente dal frigorifero lasciando il relativo importo in una cassetta - tutto è già scontrinato, non c'è spazio per i dubbi sull'importo. Un rischio d'impresa e una fiducia nei clienti che pare comunque essere stato premiato dato che, a quanto mi ha riferito Chiara stessa, gli episodi "spiacevoli" - definiamoli così - sono stati pochi, e il giro di persone che in tutta onestà approfitta di questa opportunità è buono.

Lo spazio degustazione interno è allestito con gusto, nonché con bottiglie della casa - c'è anche la versione da due litri, vuoto a rendere, anzi a ri-riempire - e gelatine alla birra e prodotti da forno realizzati da una pasticceria del luogo. L'attenzione ai prodotti locali è uno dei fili conduttori che si colgono durante la visita, e non solo perché la birra è prodotta con l'acqua della sorgente vicina.

Chiara ci ha infatti fatto assaggiare una selezione di ciò che lo spazio degustazione offre per accompagnare le birre, e devo dire che per gli appassionati di formaggi e salumi "veraci" non mancano le opzioni interessanti. Il tagliere che vedete nella foto comprende la caciotta di un'azienda agricola locale, due tipi di robiola - una di latte vaccino e una di capra - affinate nella cantina di Chiara, formaggio Macagn - una tipicità locale presidio Slow Food -, una bresaola e uno spallaccio di maiale al pepe, salame e pancetta. Il tutto degustabile sia da solo che infilato secondo diversi abbinamenti nelle miacce (che vedete nella foto sotto), sorta di piadine sottilissime e non lievitate (di cui esiste anche la versione dolce).

A questo punto si poneva un problema davvero arduo: scegliere la birra, perché tra sapori così diversi, trovarne una che vada bene per tutto è un'impresa. Le opzioni erano sostanzialmente due: andare su qualcosa di molto "generico" (passatemi il termine), come la Bionda e la Rossa - una Blonde ale di ispirazione belga e una English Red Ale, come i nomi stessi suggeriscono; nel qual caso avrei optato decisamente per la seconda, che si accompagna meglio della prima a formaggi e insaccati di questo genere -, oppure non curarsene affatto e scegliere la birra che più mi ispirava. Ho beceramente optato per questa seconda possibilità con la Saison n.5, una girandola di cardamomo e arancia che si impongono con decisione all'olfatto, per lasciare poi spazio ad un corpo relativamente esile in cui fa il suo ingresso una nota di frumento, e ritornare in piena forza nella chiusura intensa ma non troppo persistente. Come per tutte le speziate e le aromatizzate del Jeb - dalla Brulé, alla Maya, alla Stella -, la spezia o aromatizzazione che sia c'è e si deve ben sentire; il che, se da un lato ha la controindicazione di essere magari gradita solo agli appassionati di quei sapori, ha nel contempo il pregio di non superare la sottile linea rossa dell'eccesso. Anche nella Maja al miele di rododendro, pur nella mia personale preferenza per sapori meno dolci, riassaggiandola ho trovato la conferma che si tratta comunque di una birra che non definirei stucchevole.

La giornata si è conclusa, giusto per la cronaca, al ristorante La Barrique di Guardabosone - dove ho provato (e apprezzato) per la prima volta la Bagna Cauda, tipico piatto piemontese, insieme ad un tortino di peperoni - che tiene anche le birre Jeb: abbiamo così anche avuto modo di vedere un "sistema valle" che, dal birrificio al B&B, funziona in maniera coordinata per accogliere i visitatori. E qui aggiungo un'ultima nota di ringraziamento a Chiara per l'ottima accoglienza e ospitalità, che ha decisamente scaldato l'anima (e il corpo, viste le temperature non propriamente miti) dopo il lungo viaggio fino a lì.

sabato 9 gennaio 2016

Le gioie dell'ozio

Tra gli inviti ricevuti per il periodo natalizio c'era anche quello di Birra Camerini, di cui Giampaolo, uno dei titolari, era ansioso di farmi assaggiare la novità di quest'anno. Trattasi della Oziosa, versione barricata della Gioiosa - una birra natalizia che già avevo avuto modo di assaggiare lo scorso anno, contraddistinta dall'utilizzo nel mosto di prugne e albicocche secche, zenzero, cannella e miele di melata -, fatta riposare per sei mesi in botti di amarone della Valpolicella. Inutile dire che non potevo non essere curiosa, così mi sono messa in viaggio fino a Piazzola sul Brenta.

Lì Giampaolo e Franco mi hanno accolta allo stand di Camerini al Christmas Village, nella splendida cornice di Villa Contarini; e, giusto per non farmi mancare nulla, mi hanno fatto anche assaggiare la birra brulé - la loro belgian dubbel Bisbetica, scaldata e aromatizzata con anice, chiodi di garofano, pepe, cannella e buccia d'arancia. Siamo però presto venuti al dunque con la Oziosa, nome che Giampaolo ha giustificato con l'ispirazione al concetto latino di otium: il tempo cioè dedicato al riposo, allo svago, alla ricerca intellettuale. Non a caso le bottiglie di Oziosa sono accompagnate da un collarino descrittivo in forma di segnalibro, come invito a sorsegiare un bicchiere mentre ci si diletta con una buona lettura. A colpire è in primo luogo l'aroma: l'amarone ha lasciato in eredità alla birra delle note liquorose di marasca, oltre che un leggero sentore tannico e "legnoso" - come l'ho definito scherzosamente - del barrique, che sembra quasi di avere lì sotto il naso. In bocca è molto calda, unendo sia le note maltate più vicine al whisky a quelle alcoliche più proprie del brandy; che, pur essendo tanto forti da coprire quasi del tutto le spezie presenti originariamente nel mosto, non risultano invadenti nel finale, chiudendo in maniera "coerente" una birra dal corpo sorprendentemente esile per questo genere e per questa gradazione - 9 gradi -, e dalla carbonatazione lievissima. Anche la persistenza è meno lunga di quanto ci si aspetterebbe; per cui, giusto per avere un termine di paragone, è decisamente più delicata e beverina di un classico barley wine.


Una barricata "abbordabile" anche a chi non fosse troppo avvezzo ai sapori forti - personalmente ho trovato assai più impegnativa la Gioiosa -; da bere magari davanti al caminetto, pur in questo inverno in cui il freddo pare non voler arrivare.

venerdì 8 gennaio 2016

Il mais cinquantino e la Birra di Naon

Lo scorso anno al Cucinare in Fiera a Pordenone avevo avuto modo di conoscere la locale Birra di Naon, beer firm di cui avevo parlato in questo post; all'epoca avevo assaggiato la lager chiara e la ale ambrata, mentre era ancora in fase di elaborazione la blonde ale in stile belga al mais cinquantino. Ho quindi colmato questa lacuna dopo aver fatto visita a titolare, Paolo Costalonga, che mi ha tra le altre cose mostrato l'ingegnosa macina che utilizza per il mais di questa particolare qualità - una vera e propria riscoperta di una varietà un tempo coltivata e poi dimenticata, che diverse realtà stanno portando avanti in regione.

All'aroma il mais è percepibile, pur in maniera molto delicata; man mano che la birra si scalda compare poi un lieve profumo di miele sui toni del millefiori, mentre è praticamente assente il luppolo. Il corpo è decisamente scarico per una blonde ale, complice anche la gradazione alcolica contenuta per una birra del genere - 5 gradi -; il finale è molto evanescente, con una lieve punta tra l'acidulo e il dolce del cereale, ed un'ancor più lieve nota erbacea del luppolo, che a me ha quasi ricordato il fieno (no, non l'ho mai mangiato il fieno, ma a giudicare dall'odore dev'essre così).

Nel complesso l'ho trovata una birra semplice e delicata - anche il mais è discreto e ben dosato -, che - fatta eccezione per la luppolatura che caratterizza le lager chiare sia di scuola tedesca che quelle di scuola ceca - probabilmente viene più incontro ai gusti di chi preferisce i tratti meno robusti di questi stili piuttosto che a chi ama quelli più forti delle blonde ale belghe.

Da ultimo, una curiosità: tutte e tre le birre di Naon sono provviste di collarino in cartoncino, in cui, oltre alla descrizione della birra, c'è una breve storia di fantastici cavalieri medievali che abitavano la zona. Storie che, manco a dirlo, hanno a che fare con la birra, tanto che quella riportata sul collarino della blonde ale si conclude con una bevuta di birra al mais cinquantino. Tra arte brassicola e arte narrativa, insomma, il nesso si può trovare.

martedì 5 gennaio 2016

Birra vegana e pensieri in libertà

Premessa: ho amici sia vegerariani che vegani, e rispetto pienamente la loro scelta. Però, dopo l'ennesimo post pubblicitario sulla "birra vegana" che oggi mi è capitato di vedere, non sono proprio riuscita a tacermi. Ohibò, verrebbe da dire: che cosa ci sarà mai di origine animale tra malto d'orzo (o altri cereali), acqua, luppolo e lievito (sempre di non voler considerare i microrganismi responsabili della fermentazione degli animali, ma allora staremmo parlando di un vegano astemio e il problema non si porrebbe)? Va bene, esistono le milk stout - che contengono lattosio, escluso dalla dieta vegana in quanto estratto dal latte - e le birre al miele - pur sempre di origine animale -, ma si tratta di casi limitati e facilmente identificabili da chi segue una dieta di questo genere; per cui non si vedrebbe la necessità di specificare che una tal birra è vegana, perché si tratta né più né meno che della norma.

In realtà, come diversi siti di associazioni vegetariane e affini si premurano di precisare, è possibile che vengano usati elementi di origine animale nella chiarificazione e filtrazione: ad esempio colla di pesce, gelatina, caseina, carbone, terra di diatomee, insetti come la cocciniglia (un colorante), glicerilmonostearato, pepsina, zucchero bianco (il processo di sbiancamento può comportare l’impiego di ossa animali); e la stessa Guinness ha annunciato di aver eliminato l'uso della colla di pesce nei filtri. Una questione che parrebbe riguardare essenzialmente l'industria, non la birra aritigianale; e anche per quanto riguarda i grandi produttori, lo stesso direttore di Assobirra Filippo Terzaghi si era premurato di dichiarare a La Stampa che «soltanto in Irlanda e Inghilterra si usa la colla di pesce nei filtri per la birrificazione, in Italia e nei Paesi dell’Europa continentale non si è mai usata. La birra italiana è da sempre vegana».

Torniamo quindi alla domanda iniziale: posto che creare consapevolezza sul fatto che vengono usati anche questi processi di lavorazione è cosa buona, ha senso specificare che la birra è vegana, dato che si tratta della normalità? Non avrebbe forse più senso indicare chiaramente in etichetta (che comunque deve riportare gli ingredienti) quei pochi casi in cui non è così? Non stiamo forse correndo il rischio di sacrificare il buonsenso e la credibilità sul'altare del marketing? Domande che giro, in primo luogo, proprio a quei birrai che producono birra presentata come vegan: sarò felice di capirne qualcosa di più.

sabato 2 gennaio 2016

Buon anno con Orodorzo

Ebbene sì, lo ammetto: avevo pensato di intitolare il post "Happy New Beer", sulla scia di quanti tra gli appassionati di birra hanno fatto gli auguri così; ma poi ho sentito risuonare in testa la voce della mia prof di italiano del liceo, che dispensava insufficienze ai nostri temi al suon di "Hai usato espressioni trite e ritrite!", per cui ho desistito. Così ho molto più semplicemente fatto il nome della birra che ho stappato per festeggiare l'anno nuovo, ossia la quasi introvabile Orodorzo di Garlatti Costa. Dico "quasi introvabile" perché si tratta di una golden strong ale stagionale, prodotta solitamente per l'inizio della primavera e in quantità limitate, per cui non ero mai riuscita a procacciarmela in tempo utile. Questa volta però, chissà come, alla Brasserie ce n'era ancora una bottiglia (e dico una), per cui mi sono fatta il regalo di Natale per stapparlo a Capodanno e colmare questa lacuna formativa.

Come il nome stesso lascia intuire si tratta di una birra di colore dorato e decisamente velata, con una schiuma bianca di grana abbastanza sottile che all'addentarla dà una sensazione tra il velluto e la panna (no, non ho mai addentato il velluto. Però mi ha ricordato questo, che ci posso fare). All'aroma risaltano bene il lievito e la crosta di pane, insieme ad una decisa nota speziata - personalmente l'ho identificata con lo zenzero -; mentre, al salire della temperatura, compaiono man mano il miele sui toni dell'acacia e la frutta tropicale. In bocca è ben calda e rotonda, e vellutata nonostante la carbonatazione importante; e per quanto lo zucchero candito faccia il suo lavoro nel conferire toni dolci, non risulta comunque eccessivo, e le note maltate - nonché alcoliche, considerando i nove gradi - non sono invadenti. Mi sono trovata a definirlo "un corpo relativamente scarico per una birra del genere": nel senso che, pur essendo in realtà ben pieno, mi sono trovata a confrontarmi con birre dello stesso stile che già al secondo sorso risultano "troppo impegnative"; mentre un calice di Orodorzo scende sì con calma, ma anche con facilità. Complice anche il finale in cui l'amaro erbaceo del luppolo fa quasi inaspettatamente il suo ingresso, facendo seguire un'ultima nota rinfrescante di zenzero (che non compare tra gli ingredienti, e suppongo quindi sia dovuto al lievito): tutti sapori ben persistenti, che contrastando il dolce del corpo preparano il sorso successivo - almeno finché il grado alcolico non comincia a farsi sentire.

Una birra che, in conclusione, coniuga in maniera equilibrata tratti più impegnativi - dal grado alcolico al corpo pieno -, con una relativa facilità di beva e la delicatezza di toni di per sé forti: si riconosce la scuola belga a cui tutte le birre di Severino fanno riferimento, ma si nota anche una rielaborazione personale volta a "smussare" certi eccessi di robustezza che tanto piacciono in quel di Bruxelles. Non mi resta che augurarvi un buon inizio anno, e passare alle prossime birre che ho in lizza...