Mi ero sempre annoverata, se non tra le fila dei no Expo, quantomeno tra quelle dgli scettici; sabotare no, per carità, ma nemmeno andarci, a vedere sto carrozzone mettendosi in fila come pecoroni - ho maniere migliori di impiegare il mio tempo, grazie. Alla fine però mi sono fatta trascinare, e così mercoledì scorso mi sono trovata allegramente non "tra" le fila ma "in" fila, insieme a tanti altri - no, l'accredito stampa non fa miracoli, inutile che inveiate contro i soliti giornalisti che entrano gratis ovunque senza problemi.
Vi risparmio il resoconto dei vari padiglioni con più o meno coda (anche se il criterio di scelta è stato rigorosamente quello del "no o ai timp di piardi", come dicono i friulani, "non ho tempo da perdere"); fatto sta che, quando ormai stanchi e in calo di entusiasmo stavamo per intraprendere la lunga camminata verso l'uscita, Enrico ha proposto di entrare in uno dei padiglioni vicini a palazzo Italia, in cui erano esposti e venduti alcuni prodotti tipici. Ed è stato lì che è finalmente comparso ciò che già da qualche ora agognavamo per ristorarci, ossia la birra. Abbiamo infatti conosciuto l'agribirrificio Le Fate di Comunanza (Ascoli Piceno), che prende il nome da una leggenda dei Monti Sibillini, dove il birrificio è nato quattro anni fa. Ad unirsi è stata l'esperienza del birraio e sommelier Mauro Masacci e dell'agricoltore Antonio Dionisi, che appoggiandosi alla malteria Cobi di Ancona utilizzano l'orzo coltivato in loco per brassare - 700 ettolitri annui circa.
Ad accogliermi allo stand sono stati i simpaticissimi Roberto Testa e Fabio Gabrielli, che mi hanno illustrato le birre disponibili - oltre che coinvolta in un'appassionata discussione sull'ortodossia degli stili, che penso ricorderò a lungo con piacere. Abbiamo iniziato con La Sibilla, una ale chiara e semplice, dagli aromi floreali e corpo leggero. La chiusura è pulita, complice anche una punta di acido che accompagna la luppolatura delicata. Abbiamo poi proseguito con la Ladeisi, un'altra ale chiara aromatizzata alla mela rosa. L'acido leggero al naso, in cui il luppolo è pressoché assente, apre ad un corpo ben pieno - grazie anche all'aggiunta di grano - in cui la mela non è affatto sovrastante, ma contrbuisce ad una nota elegante tra il dolce e l'acido che ben si armonizza con l'insieme. Oltretutto la mela rosa dei Sibillini è presidio Slow Food, e la stessa Slow Food ha dato alla Ladeisi il titolo di Birra Quotidiana. Da ultimo la Lalcina, una ale dal colore ramato, che presenta degli aromi speziati dal lievito a cui si aggiungono quelli della buccia di bergamotto. Il corpo caldo conduce ad una chiusura caramellata ma non stucchevole, complice anche il bilanciamento dato dall'agrume.
Nel complesso, tre birre che ho gradito; e che mi hanno lasciato un buon ricordo di una giornata passata a sgomitare a fare code tra i padiglioni...
Il mio blog di avventure birrarie, descrizioni di birre, degustazioni, e notizie dal mondo della birra artigianale.
venerdì 30 ottobre 2015
Le fatine dell'Expo
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mercoledì 28 ottobre 2015
E' arrivato il "biambasciatore"
Qualcuno di voi forse ricorderà di aver letto della mia visita al Lord Byron Pub, di cui avevo scritto in questo post; e qualche tempo fa ci sono tornata cogliendo il nuovo invito di Daniele, felice di brindare insieme al suo doppio successo. Il publican di San Michele al Tagliamento è infatti stato nominato lo scorso settembre ambasciatore mondiale Gulden Draak, e l'11 ottobre Cavaliere d'Orval - dopo aver visto sempre riconfermato il titolo di ambasciatore dal 2012. Titoli puramente onorifici, si dirà, e che prestano il fianco alla critica di voler fare puro marketing; però si tratta quantomeno di marketing "intelligente", trattandosi di riconoscimenti conferiti non in base ai volumi di vendita, ma all'attenzione che i publican riservano al servizio e alla promozione delle birre in questione - nonché al contributo che danno alla diffusione della cultura birraria in senso lato, perché chi sa "trattare" bene una Orval difficilmente sbatterà sul tavolo una weizen calda versata in un baloon.
Daniele ha - giustamente - preso a raccontare la storia sin dall'inizio,ossia dalla sua prima nomina ad ambasciatore d'Orval nel 2012 - e che, almeno i triestini e i friulani, associano anche a Daniele Stepancich del Mastro Birraio di Trieste; stesso anno in cui ha ottenuto anche la nomina ad ambasciatore Guldeen Draak, conferita invece in base ai voti degli utenti su web. Quest'anno però, tra i quasi mille ambasciatori presenti in tutto il mondo, Gulden Draak ha voluto lanciare una sorta di sfida - che andava dal cucinare piatti con la birra, all'abbinamento birra e cibo, alla valutazione più generale del locale e del servizio, fino alla "goliardica" costruzione di una drago, simbolo del marchio, usando i cartoni - per sceglierne uno a livello mondiale: sfida che ha appunto vinto Daniele, che a settembre si è recato in Belgio accolto da tutti gli onori da Jef, patron della Gulden Draak - con tanto di barbecue a casa sua, "perché i belgi sono gente semplice".
Soddisfatto di essere l'unico "biambasciatore" italiano - sia d'Orval che Gulden Draak -, ha però aggiunto un altro titolo - "per quello che i titoli possono valere: io mi considero un publican, uno che fa servizio" -. L'11 ottobre è infatti stato nominato Cavaliere d'Orval - in buona compagnia di Daniele Stepancich, come potete vedere nella foto - è stato nominato Cavaliere d'Orval - titolo conferito direttamente dalla Confrerie Sossons d'Orvaulx per meriti particolari nel campo della cultura della birra, non necessariamente legati alla gestione di un locale. Insomma, doppio colpo per i publican tra Tagliamento e confini giuliani.
Ho concluso provocandolo sulla "sottile linea rossa" che divide il marketing e la promozione della cultura della birra: "Certo la motivazione alla fonte di questi riconoscimenti e sfide, come quella della Gulden Draak, è commerciale - ha riconosciuto Daniele -, ma non è separata dal fare cultura della birra e dalla promozione della qualità. Perché sia Orval che Gulden Draak, così come tanti altri birrifici sia artigianali che industriali, cercano di fare del proprio meglio: ma se noi publican non sappiamo vendere e servire il prodotto, vanifichiamo il loro lavoro". Che dire, non resta che brindare - in questo caso con una Gulden Draak, per coerenza. Cheers!
Daniele ha - giustamente - preso a raccontare la storia sin dall'inizio,ossia dalla sua prima nomina ad ambasciatore d'Orval nel 2012 - e che, almeno i triestini e i friulani, associano anche a Daniele Stepancich del Mastro Birraio di Trieste; stesso anno in cui ha ottenuto anche la nomina ad ambasciatore Guldeen Draak, conferita invece in base ai voti degli utenti su web. Quest'anno però, tra i quasi mille ambasciatori presenti in tutto il mondo, Gulden Draak ha voluto lanciare una sorta di sfida - che andava dal cucinare piatti con la birra, all'abbinamento birra e cibo, alla valutazione più generale del locale e del servizio, fino alla "goliardica" costruzione di una drago, simbolo del marchio, usando i cartoni - per sceglierne uno a livello mondiale: sfida che ha appunto vinto Daniele, che a settembre si è recato in Belgio accolto da tutti gli onori da Jef, patron della Gulden Draak - con tanto di barbecue a casa sua, "perché i belgi sono gente semplice".
Soddisfatto di essere l'unico "biambasciatore" italiano - sia d'Orval che Gulden Draak -, ha però aggiunto un altro titolo - "per quello che i titoli possono valere: io mi considero un publican, uno che fa servizio" -. L'11 ottobre è infatti stato nominato Cavaliere d'Orval - in buona compagnia di Daniele Stepancich, come potete vedere nella foto - è stato nominato Cavaliere d'Orval - titolo conferito direttamente dalla Confrerie Sossons d'Orvaulx per meriti particolari nel campo della cultura della birra, non necessariamente legati alla gestione di un locale. Insomma, doppio colpo per i publican tra Tagliamento e confini giuliani.
Ho concluso provocandolo sulla "sottile linea rossa" che divide il marketing e la promozione della cultura della birra: "Certo la motivazione alla fonte di questi riconoscimenti e sfide, come quella della Gulden Draak, è commerciale - ha riconosciuto Daniele -, ma non è separata dal fare cultura della birra e dalla promozione della qualità. Perché sia Orval che Gulden Draak, così come tanti altri birrifici sia artigianali che industriali, cercano di fare del proprio meglio: ma se noi publican non sappiamo vendere e servire il prodotto, vanifichiamo il loro lavoro". Che dire, non resta che brindare - in questo caso con una Gulden Draak, per coerenza. Cheers!
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martedì 27 ottobre 2015
Fiera birra Pordenone, parte seconda: i nuovi amici
Come capite già dal titolo, a Pordenone non ho soltanto trovato vecchi amici, ma ho anche avuto modo di conoscerne di nuovi. Il primo - seguendo un ordine semplicemente cronologico - è stato Alessandro Gaudenzi di Padus Cervisiae, agribirrificio piacentino (che infatti fraternizzava con il simpaticone dello stand del gnocco fritto). Alessandro da due anni a questa parte si considera "un agricoltore che fa la birra", ed è stato spinto su questa strada dalla curiosa scoperta di un acetificio dove avrebbe avuto la possibilità di maltare il suo orzo: e così, dall'iniziale idea di un brewpub - poi abbandonata perché più laboriosa dal punto di vista economico e gestionale - è passato a quella dell'agribirrificio. Sono tre le birre in repertorio: la bitter Placentia, la blanche Mater, e la Stella Alpina - che Alessandro ha definito "doppio malto": chiamiamola strong ale - aromatizzata al ginepro. Ho assaggiato la blanche, dagli aromi floreali con una speziatura leggera in cui spiccano il coriandolo e la buccia d'arancia; il corpo è abbastanza scarico, senza una gran presenza del lievito, e il finale acidulo rende giustizia al cereale - Alessandro usa peraltro il frumento maltato, come nelle weizen: in questo senso è una blanche decisamente atipica, anche se non per questo meno piacevole e fresca. Del resto, sugli stili Alessandro ha le sue idee: niente ipa e apa "modaiole", ha affermato, e per ora nemmeno la "classica" bionda, ma gli stili in cui pensa di poter fare del suo meglio.
Il secondo è stato il San Giorgio di San Giorgio di Nogaro (perdonate il gioco di parole), che già avevo avuto modo di incontrare a Gusti di Frontiera, ma di cui non avevo scritto in attesa di parlare con il birraio. Attesa che ha pagato, perché la conversazione con Renzo Comuzzi è stata decisamente interessante. Anche in questo caso si tratta di un agribirrificio aperto da un anno e mezzo - "per me è partito tutto dalla passione per l'agricoltura" -, che ha tre birre in cartellone: una ale bionda, una scura e una al castagno e achillea. Nella fattispecie ho riassaggiato la scura Otello, perché a Gorizia non mi aveva convinta, avendomi dato l'impressione di una tostatura sbilanciata che cadeva nel bruciato; in realtà mi sono ricreduta, e grazie alla descrizione che me ne ha fatto Renzo ho avuto modo anche di spiegarmi quella nota finale di un tostato di genere indescrivibile data dal farro non maltato - "non riesco a fare le cose normali", ha ammesso . Di più ho apprezzato però la Cjastine: l'amaro del miele di castagno e l'achillea si sposano perfettamente sia all'aroma che al palato, lasciando una leggera punta dolce soltanto nel corpo, per chiudere con l'amaro dato non dal luppolo ma dallo sposalizio di cui sopra. Una birra al miele alquanto originale ed equilibrata, nonché la meno dolce che abbia mai provato - e del resto devo dire che, aggiungendo anche Jeb e Benaco 70, di birre al miele ben fatte a Pordenone ce n'erano.
Il terzo birrificio in realtà l'avevo già incontrato a Milano, ma non avevo avuto modo di assaggiare le loro birre: il San Biagio di Nocera Umbra, nato al'linterno dell'azienda agricola biologica del monastero di San Biagio. Il loro panorama produttivo è abbastanza vasto e va dalla pils, alla weizen, alla strong alle; io ho provato la Monasta - che si vanta di appartenere ad un "nuovo stile birrario ispirato alle antiche tecniche produttive dei monaci trappisti" -, un'ambrata con miele e alloro. Anche in questo caso l'alloro è usato sapientemente per bilanciare il miele, che pur rimanendo preponderante sia all'aroma che nel corpo, lascia poi spazio ad una chiusura più amara e secca. Da consigliare appunto a chi ama i generi belgi, patiti dell'amaro astenersi (nonostante l'alloro).
Da ultimo mi sono fermata allo stand dei simpatici ragazzi abruzzesi che distribuivano le birre di Opperbacco, La Casa di Cura e Bibibir; più una white ipa che i due brassano in beerfirm al Bibibir con il nome di Big Hop. A questo punto non potevo non provare quella che, perdonatemi la semplicità, definirei "una birra tranquilla tranquilla": luppolatura fresca e floreale, corpo esile e beverino, e una chiusura di un discreto amaro citrico - da bere in quantità nelle giornate estive.
Che altro dire, ora mi e ci aspetta un altro weekend a Pordenone: per chi è da quelle parti, e per chi da quelle parti volesse venire di proposito, vi aspetto!
Il secondo è stato il San Giorgio di San Giorgio di Nogaro (perdonate il gioco di parole), che già avevo avuto modo di incontrare a Gusti di Frontiera, ma di cui non avevo scritto in attesa di parlare con il birraio. Attesa che ha pagato, perché la conversazione con Renzo Comuzzi è stata decisamente interessante. Anche in questo caso si tratta di un agribirrificio aperto da un anno e mezzo - "per me è partito tutto dalla passione per l'agricoltura" -, che ha tre birre in cartellone: una ale bionda, una scura e una al castagno e achillea. Nella fattispecie ho riassaggiato la scura Otello, perché a Gorizia non mi aveva convinta, avendomi dato l'impressione di una tostatura sbilanciata che cadeva nel bruciato; in realtà mi sono ricreduta, e grazie alla descrizione che me ne ha fatto Renzo ho avuto modo anche di spiegarmi quella nota finale di un tostato di genere indescrivibile data dal farro non maltato - "non riesco a fare le cose normali", ha ammesso . Di più ho apprezzato però la Cjastine: l'amaro del miele di castagno e l'achillea si sposano perfettamente sia all'aroma che al palato, lasciando una leggera punta dolce soltanto nel corpo, per chiudere con l'amaro dato non dal luppolo ma dallo sposalizio di cui sopra. Una birra al miele alquanto originale ed equilibrata, nonché la meno dolce che abbia mai provato - e del resto devo dire che, aggiungendo anche Jeb e Benaco 70, di birre al miele ben fatte a Pordenone ce n'erano.
Il terzo birrificio in realtà l'avevo già incontrato a Milano, ma non avevo avuto modo di assaggiare le loro birre: il San Biagio di Nocera Umbra, nato al'linterno dell'azienda agricola biologica del monastero di San Biagio. Il loro panorama produttivo è abbastanza vasto e va dalla pils, alla weizen, alla strong alle; io ho provato la Monasta - che si vanta di appartenere ad un "nuovo stile birrario ispirato alle antiche tecniche produttive dei monaci trappisti" -, un'ambrata con miele e alloro. Anche in questo caso l'alloro è usato sapientemente per bilanciare il miele, che pur rimanendo preponderante sia all'aroma che nel corpo, lascia poi spazio ad una chiusura più amara e secca. Da consigliare appunto a chi ama i generi belgi, patiti dell'amaro astenersi (nonostante l'alloro).
Da ultimo mi sono fermata allo stand dei simpatici ragazzi abruzzesi che distribuivano le birre di Opperbacco, La Casa di Cura e Bibibir; più una white ipa che i due brassano in beerfirm al Bibibir con il nome di Big Hop. A questo punto non potevo non provare quella che, perdonatemi la semplicità, definirei "una birra tranquilla tranquilla": luppolatura fresca e floreale, corpo esile e beverino, e una chiusura di un discreto amaro citrico - da bere in quantità nelle giornate estive.
Che altro dire, ora mi e ci aspetta un altro weekend a Pordenone: per chi è da quelle parti, e per chi da quelle parti volesse venire di proposito, vi aspetto!
lunedì 26 ottobre 2015
Fiera birra Pordenone, parte prima: i vecchi amici
Come molti di voi già sanno, questo fine settimana sono stata impegnata - eh sì, è un lavoro sporco ma qualcuno lo deve pur fare - con la Fiera della birra artigianale di Pordenone. Una "prima" sotto un duplice punto di vista, perché è sia il debutto dell'edizione autunnale della fiera di Santa Lucia di Piave - evento ormai consolidato - che quello di una fiera di questo tipo in Friuli Venezia Giulia (dato che altri eventi simili hanno obiettivamente un taglio diverso). Tra i venti birrifici presenti ho trovato per la maggior parte vecchie conoscenze, ma di alcune ho avuto modo di provare qualcosa di nuovo; mi ispira iniziare da questi ultimi casi, per cui mettetevi comodi.
Seguendo - molto banalmente - l'ordine in cui ho trovato i vari stand, il primo è quello di Matilde e Norberto - titolari della Brasserie di Tricesimo che fanno anche da distributori di vari marchi per il Fvg, tra cui Toccalmatto, Ducato e Foglie d'Erba. Matilde mi ha messo tra le mani un bicchiere, sfidandomi ad indovinare che birra fosse. E, lo ammetto, ho sbagliato di brutto. Non diciamo a quale light ipa avessi pensato: fatto sta che si trattava della nuova versione della Hopfelia di Foglie d'Erba, con una luppolatura assai più delicata dall'amaro meno acre, in cui i toni resinosi che contraddistinguevano questa birra si armonizzano con altri più citrici. Un risultato finale che personalmente ho apprezzato, non amando gli amari troppo decisi, e che probabilmente "sposterà" un po' il pubblico di Foglie d'Erba - i patiti dell'amaro si getteranno a braccia aperte sulla Freewheelin', mentre la Hopfelia probabilmente guadagnerà consensi tra quelli come me.
Subito più avanti era posizionato L'Inconsueto, di cui il birraio Valentino mi ha presentato la novità, la ale chiara al limone. Al mio "Mica avrai fatto la radler???" ha risposto con un "Guarda che mi offendo!", perché in effetti radler non è: al di là della considerazione di base che rimane comunque birra perché l'aromatizzazione non è soverchiante, si nota bene come i limoni usati siano di qualità - di Sorrento, per la precisione - senza quel retrogusto dolciastro e stucchevole che lascia la limonata. Punto di forza de L'Inconsueto però, a detta di Valentino, è la Speciale: una "Ipa come dovrebbe essere, senza tutta quell'esagerazione di luppoli americani, che gli inglesi dell'epoca non avevano", ha sentenziato. In effetti è una birra per gli amanti dell'amaro, ma rimanendo comunque equilibrata prediligendo un erbaceo sobrio e non pungente sia nell'aroma leggero che nel resto della bevuta.
Veniamo quindi al Jeb, fresco di titolo di birrificio dell'anno a Marano Vicentino. Chiara ci ha tenuto a farmi assaggiare la "Cometa roasted", come l'ha definita, ossia l'ambrata ai tre cereali in versione affumicata. Su profumi dolci e maltati che la caratterizzano risalta bene l'affumicato, tanto da far quasi credere che si imponga poi anche in bocca; cosa che invece non è, perché al palato risulta un affumicato gentile, che non lascia poi una persistenza troppo aggressiva. Una birra complessa e forse non per tutti, ma che riesce ad armonizzare in maniera originale tutti i sapori di cereale, biscotto, miele e tostato che la caratterizzano.
Di Sognandobirra ho riprovato la brown ale Sisma (la foto col cannolo è una gentile concessione di Andrea), questa volta alla spina, perché "è tutta un'altra cosa di quella in bottiglia, assolutamente devi-devi-devi". Mi sono fidata, e in effetti è così: se la versione in bottiglia presenta un contrasto più marcato tra aroma e corpo caramellati e amaro resinoso in chiusura, quella alla spina amalgama meglio questi due poli, risultando al contempo sia meno dolce al palato che meno amara alla fine, nonché meno "traumatica" nel passaggio tra i due sapori. Più armoniosa, volendo usare un aggettivo solo, cosa che personalmente ho apprezzato.
Ho ritrovato anche l'apprezzao Mr Sez, a cui questa volta però mi sono trovata a "fare le pulci" per la sua wheat ale Santa: troppo poco pronunciato il cereale, a mio modo di vedere - il frumento è appena percepibile -, mentre la luppolatura fresca e floreale farebbe pensare più ad altri generi - mi ha ricordato la loro pale ale Furba. Una birra piacevolissima, ma che non inquadrerei del tutto nello stile. Pienamente in stile e con lode invece la imperial stout Penelope, un tripudio di caffè e cioccolata dall'inizio alla fine, con schiuma pannosa d'ordinanza ed un finale leggerissimamente acidulo da malto tostato che contribuisce notevolmente alla bevibilità. Ottima per il birramisù, come ha confermato anche la moglie del birraio Enrico.
Una parola anche per la Rudolph di Bad Attitude - una strong ale dal colore dorato, che armonizza i toni molto dolci del malto con lo speziato di ginepro, zenzero e cannella - e la blanche del San Gabriel, pienamente e piacevolmente in stile - pur essendomi apparsa più dolce al palato rispetto alla media delle blanche, complice forse l'aggiunta di farro e segale -, con il caratteristico speziato e floreale del lievito.
Da ultimo il Birrone, dove ho avuto la sorpresa di trovare nientepocodimeno che il grande boss Simone Dal Cortivo: è stato un piacere - nonché un momento decisamente istruttivo - degustare con lui la Heaven, una blanche caratterizzata dal coriandolo aggiunto a fine bollitura per dare una nota secca a contrastare il dolce del cereale e buccia di arancia amara. Una birra che ha ricevuto notevoli riconoscimenti a Rimini insieme alla sua "cugina" a bassa fermentazione, la Hell; e che conferma la filosofia di Simone secondo cui le birre si fanno equilibrate, senza voler strafare - come ha ribadito facendomi assaggiare anche la Rauch, un'ambrata dall'affumicato assai discreto.
Concludo nominando anche tutti gli amici che, pur non avendo avuto nulla di nuovo da presentarmi - detta così pare che siano degli scansafatiche, la realtà è che sono io ad essere godereccia e le ho già provate tutte - mi hanno accolta con calore: Zahre, Benaco 70, Valscura, Villa Chazil. Posso dire con piacere che mi sono sentita in famiglia, decisamente l'aspetto che apprezzo di più di queste giornate.
Seguendo - molto banalmente - l'ordine in cui ho trovato i vari stand, il primo è quello di Matilde e Norberto - titolari della Brasserie di Tricesimo che fanno anche da distributori di vari marchi per il Fvg, tra cui Toccalmatto, Ducato e Foglie d'Erba. Matilde mi ha messo tra le mani un bicchiere, sfidandomi ad indovinare che birra fosse. E, lo ammetto, ho sbagliato di brutto. Non diciamo a quale light ipa avessi pensato: fatto sta che si trattava della nuova versione della Hopfelia di Foglie d'Erba, con una luppolatura assai più delicata dall'amaro meno acre, in cui i toni resinosi che contraddistinguevano questa birra si armonizzano con altri più citrici. Un risultato finale che personalmente ho apprezzato, non amando gli amari troppo decisi, e che probabilmente "sposterà" un po' il pubblico di Foglie d'Erba - i patiti dell'amaro si getteranno a braccia aperte sulla Freewheelin', mentre la Hopfelia probabilmente guadagnerà consensi tra quelli come me.
Subito più avanti era posizionato L'Inconsueto, di cui il birraio Valentino mi ha presentato la novità, la ale chiara al limone. Al mio "Mica avrai fatto la radler???" ha risposto con un "Guarda che mi offendo!", perché in effetti radler non è: al di là della considerazione di base che rimane comunque birra perché l'aromatizzazione non è soverchiante, si nota bene come i limoni usati siano di qualità - di Sorrento, per la precisione - senza quel retrogusto dolciastro e stucchevole che lascia la limonata. Punto di forza de L'Inconsueto però, a detta di Valentino, è la Speciale: una "Ipa come dovrebbe essere, senza tutta quell'esagerazione di luppoli americani, che gli inglesi dell'epoca non avevano", ha sentenziato. In effetti è una birra per gli amanti dell'amaro, ma rimanendo comunque equilibrata prediligendo un erbaceo sobrio e non pungente sia nell'aroma leggero che nel resto della bevuta.
Veniamo quindi al Jeb, fresco di titolo di birrificio dell'anno a Marano Vicentino. Chiara ci ha tenuto a farmi assaggiare la "Cometa roasted", come l'ha definita, ossia l'ambrata ai tre cereali in versione affumicata. Su profumi dolci e maltati che la caratterizzano risalta bene l'affumicato, tanto da far quasi credere che si imponga poi anche in bocca; cosa che invece non è, perché al palato risulta un affumicato gentile, che non lascia poi una persistenza troppo aggressiva. Una birra complessa e forse non per tutti, ma che riesce ad armonizzare in maniera originale tutti i sapori di cereale, biscotto, miele e tostato che la caratterizzano.
Di Sognandobirra ho riprovato la brown ale Sisma (la foto col cannolo è una gentile concessione di Andrea), questa volta alla spina, perché "è tutta un'altra cosa di quella in bottiglia, assolutamente devi-devi-devi". Mi sono fidata, e in effetti è così: se la versione in bottiglia presenta un contrasto più marcato tra aroma e corpo caramellati e amaro resinoso in chiusura, quella alla spina amalgama meglio questi due poli, risultando al contempo sia meno dolce al palato che meno amara alla fine, nonché meno "traumatica" nel passaggio tra i due sapori. Più armoniosa, volendo usare un aggettivo solo, cosa che personalmente ho apprezzato.
Ho ritrovato anche l'apprezzao Mr Sez, a cui questa volta però mi sono trovata a "fare le pulci" per la sua wheat ale Santa: troppo poco pronunciato il cereale, a mio modo di vedere - il frumento è appena percepibile -, mentre la luppolatura fresca e floreale farebbe pensare più ad altri generi - mi ha ricordato la loro pale ale Furba. Una birra piacevolissima, ma che non inquadrerei del tutto nello stile. Pienamente in stile e con lode invece la imperial stout Penelope, un tripudio di caffè e cioccolata dall'inizio alla fine, con schiuma pannosa d'ordinanza ed un finale leggerissimamente acidulo da malto tostato che contribuisce notevolmente alla bevibilità. Ottima per il birramisù, come ha confermato anche la moglie del birraio Enrico.
Una parola anche per la Rudolph di Bad Attitude - una strong ale dal colore dorato, che armonizza i toni molto dolci del malto con lo speziato di ginepro, zenzero e cannella - e la blanche del San Gabriel, pienamente e piacevolmente in stile - pur essendomi apparsa più dolce al palato rispetto alla media delle blanche, complice forse l'aggiunta di farro e segale -, con il caratteristico speziato e floreale del lievito.
Da ultimo il Birrone, dove ho avuto la sorpresa di trovare nientepocodimeno che il grande boss Simone Dal Cortivo: è stato un piacere - nonché un momento decisamente istruttivo - degustare con lui la Heaven, una blanche caratterizzata dal coriandolo aggiunto a fine bollitura per dare una nota secca a contrastare il dolce del cereale e buccia di arancia amara. Una birra che ha ricevuto notevoli riconoscimenti a Rimini insieme alla sua "cugina" a bassa fermentazione, la Hell; e che conferma la filosofia di Simone secondo cui le birre si fanno equilibrate, senza voler strafare - come ha ribadito facendomi assaggiare anche la Rauch, un'ambrata dall'affumicato assai discreto.
Concludo nominando anche tutti gli amici che, pur non avendo avuto nulla di nuovo da presentarmi - detta così pare che siano degli scansafatiche, la realtà è che sono io ad essere godereccia e le ho già provate tutte - mi hanno accolta con calore: Zahre, Benaco 70, Valscura, Villa Chazil. Posso dire con piacere che mi sono sentita in famiglia, decisamente l'aspetto che apprezzo di più di queste giornate.
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giovedì 15 ottobre 2015
Datemi la ipa più speciale che c'è
Ieri sera ho fatto ritorno dopo tanto tempo al Samarcanda, accolta come sempre con calore da Beppe e Raffaella. Dopo i saluti si sono aperte come sempre le discussioni sul che cosa bere: che - con Beppe in particolare - finiscono spesso per diventare lunghe e dotte dissertazioni sulle birre che il locale offre, sulle birre in generale, e magari pure sui massimi sistemi. Ma va bene così, quando si entra in certi giri le riflessioni elaborate - qualcun altro le chiamerebbe seghe mentali - su ciò che si beve diventano parte del gioco. E così, dopo aver passato in rassegna buona parte del repertorio, Beppe se n'è uscito con un: "Ve la propongo io una chicca. Una delle ultime bottiglie rimaste, e non so se e quando riuscirò a farmene arrivare delle altre". Se fosse un'offerta, un ultimatum, o un'astuta tecnica di marketing, non era dato sapere; ma mi sono fidata, dato che non sono mai rimasta delusa delle sue proposte.
Trattasi della ipa dell'americana Ale Smith Brewing Company, marchio che, per quanto conoscessi di fama, non avevo mai provato (essendo appunto di non facile reperibilità). Da sotto il cappello di schiuma pannosa, densa e fine, salgono degli aromi che in prima battuta evidenziano l'erbaceo e il citrico, ma poi - e sempre più al salire della temperatura della birra - lasciano spazio a quelli di frutta tropicale, con addirittura una punta di malto che ricorda i mieli più amari, tra l'acacia e il castagno: due aspetti che raramente vengono tenuti insieme, e che, per quanto non si armonizzino, allo stesso tempo non si danno il cambio in modo "traumatico" creando l'impressione di cozzare. Anzi, la parte più dolce apre la strada al malto che predomina al palato per un brevissimo tratto, per poi virare subito sull'amaro persistente tipico delle ipa sugli stessi toni dei primi aromi. Insomma, aveva ragione Beppe, si tratta davvero di una creazione assai particolare; di quelle che ci si può aspettare di trovare in locali che, come il Samarcanda, optano per una lista birre ricercata che punta a trovare la qualità tra quelle meno diffuse e conosciute, e spesso diffficilmente reperibili.
Trattasi della ipa dell'americana Ale Smith Brewing Company, marchio che, per quanto conoscessi di fama, non avevo mai provato (essendo appunto di non facile reperibilità). Da sotto il cappello di schiuma pannosa, densa e fine, salgono degli aromi che in prima battuta evidenziano l'erbaceo e il citrico, ma poi - e sempre più al salire della temperatura della birra - lasciano spazio a quelli di frutta tropicale, con addirittura una punta di malto che ricorda i mieli più amari, tra l'acacia e il castagno: due aspetti che raramente vengono tenuti insieme, e che, per quanto non si armonizzino, allo stesso tempo non si danno il cambio in modo "traumatico" creando l'impressione di cozzare. Anzi, la parte più dolce apre la strada al malto che predomina al palato per un brevissimo tratto, per poi virare subito sull'amaro persistente tipico delle ipa sugli stessi toni dei primi aromi. Insomma, aveva ragione Beppe, si tratta davvero di una creazione assai particolare; di quelle che ci si può aspettare di trovare in locali che, come il Samarcanda, optano per una lista birre ricercata che punta a trovare la qualità tra quelle meno diffuse e conosciute, e spesso diffficilmente reperibili.
martedì 13 ottobre 2015
Da "Arte, cultura e luppolo" a "Nonsolobirra": più piccolo, ma non meno bello
Se c'era chi aveva temuto che, con la scomparsa - a livello ufficiale - del testato festival "Arte, cultura e luppolo" di Marano Vicentino si chiudesse un mondo, i timori sono stati sfatati: quest'anno infatti, sotto il nuovo nome di "Nonsolobirra festival della birra artigianale" - e in indovinato abbinamento con la Mostra del riuso creativo -, ha visto un incremento delle presenze del 40% nella sola serata di venerdì. Il fatto che si sia optato per un formato più ridotto, con 8 birrifici invece del 12 tradizionalmente presenti, non pare aver pesato; tanto più che si trattava di fatto di sette birrifici - Mastino, Jeb, Benaco 70, Il Birrone, Trami, Ofelia e Estense - più Diexe Distribuzioni, che ha portato birre di Montegioco, Zahre, Black Barrels e Fiemme. La previdente richiesta dell'organizzatore, Stefano Gasparini, di provvedere ad almeno sei vie per ciascun birrificio così da coprire più o meno tutti gli stili e tutti i gusti, ha fatto il resto; senza dimenticare il corso di homebrewing tenuto da Mobi la domenica come ciliegina sulla torta.
Si trattava di birrifici che già ho avuto modo di conoscere (e, avendo a disposizione la sola giornata di domenica, non me ne vorranno quelli da cui non sono passata); però è stata l'occasione per provare alcune novità, iniziando dalla nuova versione della Bitter del Benaco 70. In questa ricetta l'introduzione del dry hopping con luppolo styrian fa il suo dovere, presentando una rosa erbacea e resinosa di aromi assai più intensa che in precedenza; anche in bocca risulta più piena e calda - con una rotondità data dai fiocchi d'orzo non maltati -, senza però tradire, come da stile, un finale che ritorna sull'amaro terroso. Forse non per i puristi delle bitter inglesi, ma indubbiamente più vicina ai gusti medi del pubblico di casa nostra, costituendo un buon compromesso - sempre che di compromesso si voglia parlare - tra la tradizione e l'adattamento alle richieste del mercato.
Mi sono poi data, questa volta in casa Diexe, a due barricate, la Chellerina di Black Barrels (una "quattro mani" a onor del vero, insieme a La Piazza, San Paolo e Birrificio Torino) e l'ormai celeberrima Mummia di Montegioco. La prima è una vienna lager dal colore ramato maturata in botti di rovere; e in effetti all'acido agrumato si uniscono dei sentori di legno ben percepibili sia all'olfatto che in bocca, creando un originale contrasto tra i tre poli dell'amaro legnoso, dell'acido della fermentazione spontanea e del dolce del malto che - per quanto sovrastato - è presente. La Mummia è invece il risultato dell'assemblaggio di tre barrique - la blonde ale Runa, la Rat Weizen e la Tibir al mosto Timorasso. L'aggettivo che più calza è probabilmente "elegante", perché l'acido che la caratterizza in tutti i passaggi è tanto delicato da non ammazzare - perdonate il termine - gli altri aromi e sapori. Del resto, se lo facesse sarebbe un peccato, perché si va dalle note floreali, a quelle agrumate, fino a quelle di legno e di miele: un mix raro e peculiare, a cui questa birra riesce a rendere giustizia.
Sempre da Diexe ho poi provato una prelibatezza questa volta di pasticceria, il panettone alla rossa Larix del birrificio di Fiemme con gocce di cioccolato al posto dell'uvetta, che Roberto ha affidato alla pasticceria Pierobon. Esimendomi dalla valutazione tecnica del dolce sulla quale non ho competenze, potendo affermare al più che era proprio buono - e che non ho percepito però al sapore alcunché che mi ricordasse la birra rossa -, spendo invece qualche parola per l'abbinamento. Riccardo del Benaco 70 ha gentilmente fornito della Honey Ale, la loro birra al miele, che però, per quanto non fuori luogo, non ho trovato del tutto calzante perché l'insieme risultava tropop dolce; assai più indovinata invece la loro Porter, con le peculiari note di caffè e cioccolata e il corpo non troppo robusto che consente di godere meglio il panettone, tanto che ammetto di aver commesso - e non solo io - l'eresia di inzuppare la fetta di dolce. Anche una Lupinus di Fiemme - chi non la conosce clicchi qui - potrebbe costituire un esperimento interessante.
Altri amici ritrovati sono stati i fratelli Trami, che mi hanno presentato la loro ultima nata, la helles Lander. Amanti dell'amaro astersi, dato che ai sentori quasi aciduli di cereale all'olfatto fa seguito il dolce floreale e quasi mieloso del malto. Anche in chiusura il luppolo è del tutto assente, mentre ritorna piuttosto l'acidulo del cereale; si tratta però di una dolcezza tutt'altro che persistente e non stucchevole, per cui nel complesso risulta una birra equilibrata che personalmente ho apprezzato. Qualche osservazione l'ho invece fatta, condividendola con il birraio, sulla ipa Bleis: qui la luppolatura è di un fruttato tropicale, per passare poi a toni tendenti al caramello e al miele con una punta di mandorla al palato, e chiudere su un amaro resinoso. Una linea diversa da quella delle ipa canoniche, tanto da far apparire il risultato finale quasi contraddittorio; ma che ho visto prendere da più di un birrificio, in risposta ad un ritorno della richiesta di birre più dolci dopo l'ondata "modaiola" dell'amaro. Certo il Trami ha il merito di farlo riuscendo ad ottenere una birra piacevole da bersi - non trattandosi, anche qui come per la helles, di un dolce stucchevole - e priva di difetti se non l'opinabile aderenza allo stile; ma questo ripropone la questione dell'equilibrio tra richiesta del mercato e aderenza ai canoni e alla sensibilità del birraio, necessario ma non facile da raggiungere. Oltretutto, c'è da chiedersi se così facendo si riesca a soddisfare sia gli amanti dei toni amari che di quelli più dolci, o viceversa a scontentarli entrambi perché né l'uno né l'altro trovano fino in fondo ciò che cercano: una domanda che non vuole essere posta solo al Trami e alla sua Bleis - che in fin dei conti ho gradito -, ma agli addetti ai lavori in senso lato.
L'ultima nota la riservo al birrificio vincitore della votazione popolare via web di questo festival, il Jeb, con la sua mastra birraia Chiara Baù: una bella soddisfazione per una delle prime rappresentanti delle quote rosa in questo settore, e di cui più volte ho avuto modo di apprezzare le creazioni. Questa volta ho provato la Summer Ale, un'alta fermentazione dal colore giallo paglierino che sia all'aroma che in chiusura è un'esplosione di fiori - in questo senso mi ha ricordato la Dama Bianca di Antica Contea, pur essendo due birre assai diverse - data dai luppoli americani centennial, columbus e chinhook. Il corpo abbastanza scarico in cui predomina un cereale discreto la rende perfetta per lo scopo espresso dal suo nome, ossia dissetarsi nelle calde giornate estive: una birra semplice e senza pretese di stupire, ma pulita e ben riuscita, con la quale rinnovo i complimenti a Chiara per il riconoscimento datole dal pubblico del festival.
Si trattava di birrifici che già ho avuto modo di conoscere (e, avendo a disposizione la sola giornata di domenica, non me ne vorranno quelli da cui non sono passata); però è stata l'occasione per provare alcune novità, iniziando dalla nuova versione della Bitter del Benaco 70. In questa ricetta l'introduzione del dry hopping con luppolo styrian fa il suo dovere, presentando una rosa erbacea e resinosa di aromi assai più intensa che in precedenza; anche in bocca risulta più piena e calda - con una rotondità data dai fiocchi d'orzo non maltati -, senza però tradire, come da stile, un finale che ritorna sull'amaro terroso. Forse non per i puristi delle bitter inglesi, ma indubbiamente più vicina ai gusti medi del pubblico di casa nostra, costituendo un buon compromesso - sempre che di compromesso si voglia parlare - tra la tradizione e l'adattamento alle richieste del mercato.
Mi sono poi data, questa volta in casa Diexe, a due barricate, la Chellerina di Black Barrels (una "quattro mani" a onor del vero, insieme a La Piazza, San Paolo e Birrificio Torino) e l'ormai celeberrima Mummia di Montegioco. La prima è una vienna lager dal colore ramato maturata in botti di rovere; e in effetti all'acido agrumato si uniscono dei sentori di legno ben percepibili sia all'olfatto che in bocca, creando un originale contrasto tra i tre poli dell'amaro legnoso, dell'acido della fermentazione spontanea e del dolce del malto che - per quanto sovrastato - è presente. La Mummia è invece il risultato dell'assemblaggio di tre barrique - la blonde ale Runa, la Rat Weizen e la Tibir al mosto Timorasso. L'aggettivo che più calza è probabilmente "elegante", perché l'acido che la caratterizza in tutti i passaggi è tanto delicato da non ammazzare - perdonate il termine - gli altri aromi e sapori. Del resto, se lo facesse sarebbe un peccato, perché si va dalle note floreali, a quelle agrumate, fino a quelle di legno e di miele: un mix raro e peculiare, a cui questa birra riesce a rendere giustizia.
Sempre da Diexe ho poi provato una prelibatezza questa volta di pasticceria, il panettone alla rossa Larix del birrificio di Fiemme con gocce di cioccolato al posto dell'uvetta, che Roberto ha affidato alla pasticceria Pierobon. Esimendomi dalla valutazione tecnica del dolce sulla quale non ho competenze, potendo affermare al più che era proprio buono - e che non ho percepito però al sapore alcunché che mi ricordasse la birra rossa -, spendo invece qualche parola per l'abbinamento. Riccardo del Benaco 70 ha gentilmente fornito della Honey Ale, la loro birra al miele, che però, per quanto non fuori luogo, non ho trovato del tutto calzante perché l'insieme risultava tropop dolce; assai più indovinata invece la loro Porter, con le peculiari note di caffè e cioccolata e il corpo non troppo robusto che consente di godere meglio il panettone, tanto che ammetto di aver commesso - e non solo io - l'eresia di inzuppare la fetta di dolce. Anche una Lupinus di Fiemme - chi non la conosce clicchi qui - potrebbe costituire un esperimento interessante.
Altri amici ritrovati sono stati i fratelli Trami, che mi hanno presentato la loro ultima nata, la helles Lander. Amanti dell'amaro astersi, dato che ai sentori quasi aciduli di cereale all'olfatto fa seguito il dolce floreale e quasi mieloso del malto. Anche in chiusura il luppolo è del tutto assente, mentre ritorna piuttosto l'acidulo del cereale; si tratta però di una dolcezza tutt'altro che persistente e non stucchevole, per cui nel complesso risulta una birra equilibrata che personalmente ho apprezzato. Qualche osservazione l'ho invece fatta, condividendola con il birraio, sulla ipa Bleis: qui la luppolatura è di un fruttato tropicale, per passare poi a toni tendenti al caramello e al miele con una punta di mandorla al palato, e chiudere su un amaro resinoso. Una linea diversa da quella delle ipa canoniche, tanto da far apparire il risultato finale quasi contraddittorio; ma che ho visto prendere da più di un birrificio, in risposta ad un ritorno della richiesta di birre più dolci dopo l'ondata "modaiola" dell'amaro. Certo il Trami ha il merito di farlo riuscendo ad ottenere una birra piacevole da bersi - non trattandosi, anche qui come per la helles, di un dolce stucchevole - e priva di difetti se non l'opinabile aderenza allo stile; ma questo ripropone la questione dell'equilibrio tra richiesta del mercato e aderenza ai canoni e alla sensibilità del birraio, necessario ma non facile da raggiungere. Oltretutto, c'è da chiedersi se così facendo si riesca a soddisfare sia gli amanti dei toni amari che di quelli più dolci, o viceversa a scontentarli entrambi perché né l'uno né l'altro trovano fino in fondo ciò che cercano: una domanda che non vuole essere posta solo al Trami e alla sua Bleis - che in fin dei conti ho gradito -, ma agli addetti ai lavori in senso lato.
L'ultima nota la riservo al birrificio vincitore della votazione popolare via web di questo festival, il Jeb, con la sua mastra birraia Chiara Baù: una bella soddisfazione per una delle prime rappresentanti delle quote rosa in questo settore, e di cui più volte ho avuto modo di apprezzare le creazioni. Questa volta ho provato la Summer Ale, un'alta fermentazione dal colore giallo paglierino che sia all'aroma che in chiusura è un'esplosione di fiori - in questo senso mi ha ricordato la Dama Bianca di Antica Contea, pur essendo due birre assai diverse - data dai luppoli americani centennial, columbus e chinhook. Il corpo abbastanza scarico in cui predomina un cereale discreto la rende perfetta per lo scopo espresso dal suo nome, ossia dissetarsi nelle calde giornate estive: una birra semplice e senza pretese di stupire, ma pulita e ben riuscita, con la quale rinnovo i complimenti a Chiara per il riconoscimento datole dal pubblico del festival.
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lunedì 12 ottobre 2015
Da tutto l'universo..."Beviamo in pace"
No, non sono impazzita: è semplicemente lo slogan di "Birra Galassia", giovane beerfirm pordenonese che ha storpiato il "veniamo in pace" di ipotetici alieni per lanciare il suo brand - perché adesso si chiama brand, come osservavo in un post precedente. Scherzi a parte, ho avuto qualche tempo fa il piacere di essere invitata da uno dei giovani birrai, Davide Bernardini, ad assaggiare le creazioni di questa nuova realtà che - pur essendo formalmente nata da meno di un anno - si basa comunque su una decennale esperienza di homebrewing, nonché su quella consolidata del birrificio Acelum a cui si appoggiano.
Sono per ora due le birre nel repertorio del Galassia, entrambe ispirate al mondo stellare. La prima che ho assaggiato è la Nova, una summer ale dal colore dorato torbido contraddistinta dal luppolo mosaic. Da sotto la schiuma ben compatta sale un'aroma dai toni decisamente tendenti all'agrumato, con un leggero tocco di frutta tropicale; nel corpo dominano - seppur in maniera delicata - i malti, tanto che personalmente ho percepito addirittura un leggero sentore di miele, che va però subito a chiudere su un luppolato floreale che lascia la bocca pulita. Una birra che si distingue non solo per la facilità di beva - considerato anche il basso grado alcolico, meno di 5 gradi -, ma anche per l'equilibrio ben riuscito tra le varie componenti di aromi e sapori che sarebbero di per sé abbastanza eterogenei.
Di tutt'altro genere la Galassia, una "saison - e non session - ipa", così battezzata perché utilizza lieviti da saison. E qui è arrivata la sorpresa, perché Davide ce ne ha stappate due bottiglie: la prima più giovane, imbottigliata da pochi mesi, e la seconda dello scorso anno. La prima, che qui vedete sulla sinistra (con Davide in osservazione), ha un colore nettamente più scuro ed una schiuma più persistente; e all'aroma rivela bene lo speziato della saison - con i caratteristici toni di pepe, tanto che Davide ha raccontato che il suo socio l'ha usata con successo per cucinare le cozze -, unito anche qui a qualche nota di frutta tropicale. Il corpo rende giustizia al sapore ben pieno dei malti - i ragazzi hanno usato anche quello di frumento -, per poi chiudere su toni leggermente più amari.
La vera sorpresa è stata però la seconda, quella sulla destra, di coloire nettamente più chiaro: qui ho sentito aromi tra il torbato e il liquoroso tipici delle birre invecchiate, se non addirittura barricate, e anche in bocca risultava calda e con toni di frutta sotto spirito, facendo ben sentire anche l'alcol - qui siamo già sugli otto gradi. Se non s'è capito, personalmente m'è davvero piaciuta, in barba all'ortodossia che la etichetterebbe come completamente fuori stile. Insomma, una birra di cui fare una sorta di verticale, comprandone un po' di bottiglie e provandole col passare del tempo: chissà, potrebbero nascere delle belle sorprese.
Sono per ora due le birre nel repertorio del Galassia, entrambe ispirate al mondo stellare. La prima che ho assaggiato è la Nova, una summer ale dal colore dorato torbido contraddistinta dal luppolo mosaic. Da sotto la schiuma ben compatta sale un'aroma dai toni decisamente tendenti all'agrumato, con un leggero tocco di frutta tropicale; nel corpo dominano - seppur in maniera delicata - i malti, tanto che personalmente ho percepito addirittura un leggero sentore di miele, che va però subito a chiudere su un luppolato floreale che lascia la bocca pulita. Una birra che si distingue non solo per la facilità di beva - considerato anche il basso grado alcolico, meno di 5 gradi -, ma anche per l'equilibrio ben riuscito tra le varie componenti di aromi e sapori che sarebbero di per sé abbastanza eterogenei.
Di tutt'altro genere la Galassia, una "saison - e non session - ipa", così battezzata perché utilizza lieviti da saison. E qui è arrivata la sorpresa, perché Davide ce ne ha stappate due bottiglie: la prima più giovane, imbottigliata da pochi mesi, e la seconda dello scorso anno. La prima, che qui vedete sulla sinistra (con Davide in osservazione), ha un colore nettamente più scuro ed una schiuma più persistente; e all'aroma rivela bene lo speziato della saison - con i caratteristici toni di pepe, tanto che Davide ha raccontato che il suo socio l'ha usata con successo per cucinare le cozze -, unito anche qui a qualche nota di frutta tropicale. Il corpo rende giustizia al sapore ben pieno dei malti - i ragazzi hanno usato anche quello di frumento -, per poi chiudere su toni leggermente più amari.
La vera sorpresa è stata però la seconda, quella sulla destra, di coloire nettamente più chiaro: qui ho sentito aromi tra il torbato e il liquoroso tipici delle birre invecchiate, se non addirittura barricate, e anche in bocca risultava calda e con toni di frutta sotto spirito, facendo ben sentire anche l'alcol - qui siamo già sugli otto gradi. Se non s'è capito, personalmente m'è davvero piaciuta, in barba all'ortodossia che la etichetterebbe come completamente fuori stile. Insomma, una birra di cui fare una sorta di verticale, comprandone un po' di bottiglie e provandole col passare del tempo: chissà, potrebbero nascere delle belle sorprese.
venerdì 9 ottobre 2015
Gusti di Frontiera, capitolo terzo: dalla stevia all'ortica
Ulteriore nuovo incontro fatto a Gorizia è stato quello di uno stand "associato", ossia quello tra il cuneese Birrificio Della Granda - che già conoscevo di fama - e il beerfirm Cervogia, che vi si appoggia. Ad illustrarmi le numerose birre disponibili è stato il gentilissimo Davide, che mi ha messo sostanzialmente nell'imbarazzo della scelta; e non è stato per pregiudizio verso il Della Granda - che peraltro conto di aver modo di assaggiare alla Fiera della birra artigianale di Pordenone, dove sarà presente nel secondo weekend dal 30 ottobre al 1 novembre -, ma per pura curiosità, che la mia scelta è caduta su due birre del Cerevogia.
La prima, la Celtic Stevia, è una new entry del beerfirm; una ale chiara caratterizzata appunto dall'utilizzo della stevia, che potrebbe far temere un risultato finale eccessivamente dolce - cosa che, specie in una bionda, risulterebbe abbastanza sgradevole. Invece il bilanciamento tra aroma floreale del luppolo, corpo in cui il dolce del cereale si armonizza con quello della stevia, e chiusura in cui la punta amarognola del luppolo torna a farsi sentire creando un contrasto delicato, la rende una birra che ha il merito di essere equilibrata e gradevole nel suo complesso, senza risultare stucchevole. Per quanto sconsigliabile ai patiti dell'amaro, dunque, invito a non temere anche coloro che generalmente sono scettici verso sperimentazioni che tendono allo zuccherino.
In seconda battuta sono invece andata sull'amaro erbaceo con la Celtic Ortic, sempre una ale chiara, che vanta un infuso di ortica fresca, canapa, equiseto e menta. Detta così, ci si potrebbe aspettare una tisana: invece anche qui, in ossequio al principio per cui la birra - anche se aromatizzata - deve rimanere birra, l'aroma in cui spiccano le erbe fa poi spazio in bocca ad un gioco interessante tra queste e il luppolo, lasciando una persistenza fresca e quasi balsamica, e con un amaro deciso ma non invadente. Due birre certo peculiari, ma di tutto rispetto; che mi hanno lasciato la curiosità per l'altra aromatizzata del cerevogia, quella all'erica. Che dire, se non "alla prossima"...
La prima, la Celtic Stevia, è una new entry del beerfirm; una ale chiara caratterizzata appunto dall'utilizzo della stevia, che potrebbe far temere un risultato finale eccessivamente dolce - cosa che, specie in una bionda, risulterebbe abbastanza sgradevole. Invece il bilanciamento tra aroma floreale del luppolo, corpo in cui il dolce del cereale si armonizza con quello della stevia, e chiusura in cui la punta amarognola del luppolo torna a farsi sentire creando un contrasto delicato, la rende una birra che ha il merito di essere equilibrata e gradevole nel suo complesso, senza risultare stucchevole. Per quanto sconsigliabile ai patiti dell'amaro, dunque, invito a non temere anche coloro che generalmente sono scettici verso sperimentazioni che tendono allo zuccherino.
In seconda battuta sono invece andata sull'amaro erbaceo con la Celtic Ortic, sempre una ale chiara, che vanta un infuso di ortica fresca, canapa, equiseto e menta. Detta così, ci si potrebbe aspettare una tisana: invece anche qui, in ossequio al principio per cui la birra - anche se aromatizzata - deve rimanere birra, l'aroma in cui spiccano le erbe fa poi spazio in bocca ad un gioco interessante tra queste e il luppolo, lasciando una persistenza fresca e quasi balsamica, e con un amaro deciso ma non invadente. Due birre certo peculiari, ma di tutto rispetto; che mi hanno lasciato la curiosità per l'altra aromatizzata del cerevogia, quella all'erica. Che dire, se non "alla prossima"...
martedì 6 ottobre 2015
Gusti di Frontiera, capitolo secondo: vecchie conoscenze, nuove birre
A Gusti di Frontiera non poteva naturalmente mancare lo stand dell'Associazione Birrai Artigiani Fvg, che come a Friulidoc presentava otto birrifici ciascuno con due birre alla spina: tra questi Antica Contea e Birrificio Campestre, dei quali ho avuto occasione di assaggiare due birre mai provate in precedenza.
Per quanto riguarda Antica Contea, Costantino mi ha spillato la loro ultima nata, la Gorzer: una birra dal colore ramato e "ibrida", con un lievito da Kolsch fatto lavorare a 16 gradi - ossia ad una temperatura leggermente più bassa di quella normalmente utilizzata per le alte fermentazioni -, così che il lievito lasciasse una peculiarità al sapore nel risultato finale. L'aroma è pungente, tra l'agrumato e l'acidulo, e al corpo abbastanza esile - complice anche la gradazione alcolica bassa, 5 gradi - e tendente al cereale fa da contrappunto l'acido persistente dato dal lievito. Personalmente non mi è dipiaciuto, ma Costantino ha tenuto a sottolineare la volontà di migliorarla cambiando lievito, perché il risultato finale era divrso da quello che volevano ottenere; riconosco che si tratta di una birra piuttosto "spigolosa", diciamo così, ma che probabilmente non dispiace a chi già si è avvicinato ai toni acidi tipici di ben altri generi.
Del Birrificio Campestre ho invece provato la Sore Sere, un'ambrata dagli aromi caramellati che rivelano anche le sfumature date dai malti tostati - che ritornano però soprattutto in chiusura, lasciando anche una breve persistenza. Il corpo risulta assai meno robusto di quanto ci si aspetterebbe da una birra di questo genere, pur rimanendo rotondo ed armonioso; e infatti, come mi ha raccontato il birraio Giulio, nel brassarla ha preso ispirazione da un birrificio di Norimberga, che pur facendo alte fermentazioni - contrariamente alla maggior parte delle birre tedesche - rimane comunque di tradizione germanica, prediligendo birre dai toni non eccessivamente forti al palato. Personalmente avrei gradito maggior vigore, come da scuola di pensiero belga per quanto riguarda le ambrate, ma si tratta appunto di un'osservazione del tutto personale data la volontà del birraio di cercare altre strade - "unico caso - ha ammesso - in cui non ho preso ispirazione dalle birre inglesi".
Tornando per un attimo alla Gorzer, invece, devo dire che l'avrei portata volentieri con me nel mio passaggio allo stand della pasticceria Mirandò, dove la sempre gentilissima pasticcera Mirena Morocutti - di cui avevo già parlato in questo post, di cui consiglio la lettura in virtù di quello che la signora mi aveva detto allora - mi ha fatto assaggiare una delle loro novità, un dolce soffice allo yogurt e pere. Al di là della bontà del dolce in questione, ho trovato che il balletto tra il dolce e l'acidulo dato sia dallo yogurt che dalla frutta si sarebbe accompagnato benissimo alla Gorzer, ottima peraltro per "sgrassare" - pur trattandosi di un dolce senza burro e decisamente leggero - data la sua acidità. Chissà che non possano nascere altri abbinamenti interessanti....
Per quanto riguarda Antica Contea, Costantino mi ha spillato la loro ultima nata, la Gorzer: una birra dal colore ramato e "ibrida", con un lievito da Kolsch fatto lavorare a 16 gradi - ossia ad una temperatura leggermente più bassa di quella normalmente utilizzata per le alte fermentazioni -, così che il lievito lasciasse una peculiarità al sapore nel risultato finale. L'aroma è pungente, tra l'agrumato e l'acidulo, e al corpo abbastanza esile - complice anche la gradazione alcolica bassa, 5 gradi - e tendente al cereale fa da contrappunto l'acido persistente dato dal lievito. Personalmente non mi è dipiaciuto, ma Costantino ha tenuto a sottolineare la volontà di migliorarla cambiando lievito, perché il risultato finale era divrso da quello che volevano ottenere; riconosco che si tratta di una birra piuttosto "spigolosa", diciamo così, ma che probabilmente non dispiace a chi già si è avvicinato ai toni acidi tipici di ben altri generi.
Del Birrificio Campestre ho invece provato la Sore Sere, un'ambrata dagli aromi caramellati che rivelano anche le sfumature date dai malti tostati - che ritornano però soprattutto in chiusura, lasciando anche una breve persistenza. Il corpo risulta assai meno robusto di quanto ci si aspetterebbe da una birra di questo genere, pur rimanendo rotondo ed armonioso; e infatti, come mi ha raccontato il birraio Giulio, nel brassarla ha preso ispirazione da un birrificio di Norimberga, che pur facendo alte fermentazioni - contrariamente alla maggior parte delle birre tedesche - rimane comunque di tradizione germanica, prediligendo birre dai toni non eccessivamente forti al palato. Personalmente avrei gradito maggior vigore, come da scuola di pensiero belga per quanto riguarda le ambrate, ma si tratta appunto di un'osservazione del tutto personale data la volontà del birraio di cercare altre strade - "unico caso - ha ammesso - in cui non ho preso ispirazione dalle birre inglesi".
Tornando per un attimo alla Gorzer, invece, devo dire che l'avrei portata volentieri con me nel mio passaggio allo stand della pasticceria Mirandò, dove la sempre gentilissima pasticcera Mirena Morocutti - di cui avevo già parlato in questo post, di cui consiglio la lettura in virtù di quello che la signora mi aveva detto allora - mi ha fatto assaggiare una delle loro novità, un dolce soffice allo yogurt e pere. Al di là della bontà del dolce in questione, ho trovato che il balletto tra il dolce e l'acidulo dato sia dallo yogurt che dalla frutta si sarebbe accompagnato benissimo alla Gorzer, ottima peraltro per "sgrassare" - pur trattandosi di un dolce senza burro e decisamente leggero - data la sua acidità. Chissà che non possano nascere altri abbinamenti interessanti....
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lunedì 5 ottobre 2015
Gusti di Frontiera, capitolo primo: ricordati di santificare le feste...e anche il sabato
Già il fatto che il titolo del post dica "Capitolo primo" potrebbe farvi temere una lunga e tediosa serie; ma non preoccupatevi, le telenovelas le ho sempre odiate, per cui cercherò di mantenermi nei limiti dell'umano. In ordine rigorosamente casuale inizio quindi da una delle nuove conoscenze, il birrificio Sante Sabide di Fraforeano. Il nome deriva, come illustra a dovere il sito del birrificio agricolo in questione - nasce infatti dall'azienda agricola Bull DecArt - da "un'antica e ingenua santificazione
dell'osservanza del sabato come giorno di festa in uso nelle campagne
del Friuli, osservanza repressa in seguito nel XVII e nel XVIII secolo
nella zona di Aquileia dai "Sabatari", pubblici ufficiali che
comminavano multe ai contadini sorpresi ad osservare il riposo di sabato": e, incredibile a dirsi, "a Sante Sabide sono intitolati quasi
una trentina di luoghi di culto sparsi per le campagne del territorio
friulano, in genere collocati presso corsi d’acqua o sorgenti". Insomma, un birrificio che pur essendo giovane - ha infatti iniziato la produzione a marzo scorso - ha in qualche modo una storia dietro di sé.
Il Sante Sabide produce al momento tre birre (più una quarta stagionale, la birra alla zucca, che però non era disponibile in quel momento). La prima che ho assaggiato è stata la Blonde Ale, una bionda ad alta fermentazione - come dice il nome stesso - dal colore giallo dorato, leggermente opaca e con un buon cappello di schiuma. La luppolatura fresca e l'aroma floreale fanno da apertura al sorso che in bocca rimane delicato con una punta di dolce da malto, e che chiude poi con un amaro leggero e pulito: una birra semplice dai toni sobri e nel contempo decisamente piacevole, da bere in quantità nelle giornate assolate.
Diverso il discorso per le altre due birre, la Ipa e la Amber Ale. Anche qui la volontà è quella di "evitare gli eccessi" - nella fattispecie non avere una amber ale troppo dolce, né una ipa troppo amara -; ma si tratta di una ricerca di equilibrio ancora in corso, come del resto mi ha confermato anche il birraio. La amber ale infatti, pur mantenendo un corpo rotondo e con sentori di biscotto e caramello come da stile, pecca forse di toni erbacei e resinosi un po' troppo pungenti per quanto riguarda sia la luppolatura in aroma che quella in amaro; mentre la ipa predilige luppolature più dolci che danno sentori di frutta tropicale ed esaltano la maltatura che la discostano un po' dallo stile - per quanto le ipa siano ultimamente terreno delle sperimentazioni più audaci. Dato l'equilibrio già raggunto dalla Blonde Ale, comunque, le premesse per una promettente evoluzione anche delle altre due ci sono: sarà un piacere fare un nuovo pellegrinaggio alla "santa del sabato" tra qualche tempo...
Il Sante Sabide produce al momento tre birre (più una quarta stagionale, la birra alla zucca, che però non era disponibile in quel momento). La prima che ho assaggiato è stata la Blonde Ale, una bionda ad alta fermentazione - come dice il nome stesso - dal colore giallo dorato, leggermente opaca e con un buon cappello di schiuma. La luppolatura fresca e l'aroma floreale fanno da apertura al sorso che in bocca rimane delicato con una punta di dolce da malto, e che chiude poi con un amaro leggero e pulito: una birra semplice dai toni sobri e nel contempo decisamente piacevole, da bere in quantità nelle giornate assolate.
Diverso il discorso per le altre due birre, la Ipa e la Amber Ale. Anche qui la volontà è quella di "evitare gli eccessi" - nella fattispecie non avere una amber ale troppo dolce, né una ipa troppo amara -; ma si tratta di una ricerca di equilibrio ancora in corso, come del resto mi ha confermato anche il birraio. La amber ale infatti, pur mantenendo un corpo rotondo e con sentori di biscotto e caramello come da stile, pecca forse di toni erbacei e resinosi un po' troppo pungenti per quanto riguarda sia la luppolatura in aroma che quella in amaro; mentre la ipa predilige luppolature più dolci che danno sentori di frutta tropicale ed esaltano la maltatura che la discostano un po' dallo stile - per quanto le ipa siano ultimamente terreno delle sperimentazioni più audaci. Dato l'equilibrio già raggunto dalla Blonde Ale, comunque, le premesse per una promettente evoluzione anche delle altre due ci sono: sarà un piacere fare un nuovo pellegrinaggio alla "santa del sabato" tra qualche tempo...
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