Per una volta andiamo oltre la questione birra, anche se sempre di enogastronomia - per così dire - si tratta. Risale a pochi giorni fa la notizia che McDonald's aprirà il prossimo anno il primo ristorante a Ho Chi Min: il Vietnam diventerà così il 123° Paese al mondo ad avere almeno un posto dove andare a procurarsi un BigMac, con relative prolusioni sull'egemonia culturale americana sul resto del mondo. Ora, al di là del fatto che se esistono oltre 200 Stati ciò significa che per più tenaci avversari della grande M c'è ancora speranza, la notizia mi ha stimolato qualche ulteriore considerazione rispetto ai torrenti di parole già scritti sul legame tra fast food e cultura gastronomica locale.
Innanzitutto, mi ha fatto venire alla mente per contrasto il caso boliviano: lì McDonald's, dopo 14 anni di onorata attività, nel 2002 ha deciso di lasciare il Paese semplicemente perché questa non era economicamente sostenibile: in sostanza, come diversi giornali e blog hanno riferito, il menù proposto era "l'esatto contrario di ciò che un buon pasto dovrebbe essere secondo un boliviano", e quindi erano rimasti in pochi appassionati a frequentare i fast food. A quanto pare non sono bastati gli sforzi che la multinazionale californiana da tempo compie per adattare le proprie proposte a ciascun Paese, così da intercettare al meglio il segmento di mercato in questione.
E in effetti ce ne siamo ben resi conto in Italia, dato che il potenziale enogastronomico del Bel Paese non è certo sfuggito ai piani alti dell'azienda: dall'hamburger fatto unicamente con carne italiana (basti pensare al tanto pubblicizzato McItaly), ai panini con formaggi tipici locali, non si può dire che la buona volontà di venire incontro ai gusti degli italiani sia mancata. Solo che, in un Paese come il nostro, c'è un'altra questione da considerare, fattami notare già qualche anno fa dalla mia buona amica australiana Laura Bonacci.
Ci trovavamo a Roma, vicino al Pantheon. Lì a poca distanza campeggiava l'insegna di un McDonald's, ubicato - si leggeva - a soli cinque minuti da lì. Ma come, ha chiesto Laura, permettono che venga aperto un McDonald's qui? L'ho guardata stupita: perché non dovrebbero? Beh, ha spiegato lei, la legge australiana non consente di aprire nelle città storiche esercizi commerciali che non siano "in armonia": a Beechworth, ad esempio, non c'è nessun fast food. Notare che la cittadina in questione, da cui Laura proviene, è stata fondata nel 1853: un'inezia dal nostro punto di vista, ma sufficiente secondo i canoni australiani per essere considerata patrimonio storico nazionale e soggiacere alla legislazione relativa.
Non ho potuto non pensare che, se così stessero le cose anche qui, McDonald's si troverebbe a dover chiudere buona parte dei suoi 450 ristoranti in Italia: un bel colpo sui 972 milioni di euro di giro d'affari che l'azienda ha dichiarato per il 2011 nel nostro Paese. Forse una parte relativamente poco significativa rispetto al fatturato totale di 8,6 miliardi di dollari e ai 34 mila ristoranti a livello mondiale; ma stiamo comunque parlando di un gruppo che dà lavoro a 16 mila dipendenti, e che a quanto pare mantiene comunque un certo appeal sui nostri compatrioti se serve 700 mila pasti ogni giorno (su 69 milioni a livello globale).
Certo, si dirà, specie nelle località turistiche, un luogo in cui mangiare velocemente e a buon mercato fa comodo, al di là di quanto possa contrastare con i monumenti che vi stanno accanto. Ma a voler ben vedere l'Italia - e non solo - pullula di esempi di cibo da strada che soddisfa questi requisiti da ben prima che la M sbarcasse da noi nel 1985: dalle pizze al taglio ai chioschi di panini, non c'è che l'imbarazzo della scelta. Inoltre, è un fatto che il cibo offerto in ciascuna città è una vera e propria questione immagine: Napoli non sarebbe pensabile senza le pizzerie o i banchetti che servono sfogliatelle in strada, né Palermo senza i venditori ambulanti di arancini e cannoli, per cui un fast food nel posto "sbagliato" può avere un impatto non trascurabile - appunto - sull'immagine complessiva della città stessa. Insomma, la questione non è solo gastronomica, ma investe più in largo la gestione del patrimonio storico e culturale del nostro Paese.
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