sabato 3 ottobre 2020

Tra beerfirm, il contrario del beerfirm, e il marketing

Alcuni giorni fa mi è capitato di leggere, sulla bacheca Facebook di un birraio di mia conoscenza, questo stato: "Vedo serate di promozione della birra artigianale, dove sul palco troviamo beerfirm ("birrai" senza impianto, che fanno produrre ad altri) e il contrario dei beerfirm (che non so come definire) che invece hanno l'impianto ma chiamano un birraio esterno a fare la cotta...promuovono le "proprie" birre sfruttando il culo che si sono fatti i birrai veri negli ultimi 10-15 anni...ma il cliente preferisce sempre chi sa raccontare piuttosto che chi sa fare...".

La cosa ha naturalmente stimolato diversi commenti, più o meno infuocati. Dato che è un tema che si sta ponendo in maniera sempre più pesante, e che lavoro lavoro con tutte e tre le tipologie di realtà - birrifici propriamente detti, beerfirm, imprenditori che hanno fatto l'investimento affidando poi a qualcun altro il compito di fare la birra - azzardo anch'io alcune considerazioni.

La questione si è recentemente fatta scottante, come ben si intuisce dal post, in particolare per quanto riguarda l'ultima categoria; alla quale viene imputato non tanto il fatto di aver intrapreso un'iniziativa evidentemente legittima sotto il profilo imprenditoriale - e anzi meritoria se riesce magari a dare lavoro ad un bravo birraio disoccupato, metterlo nelle condizioni di lavorare al meglio, e fare birra buona - quanto di non comunicare correttamente il fatto di essere appunto una realtà diversa, cavalcando la stima che si sono guadagnati in questi anni tutti quei birrai-imprenditori che hanno spianato la strada allo sviluppo del settore.

A mio avviso, la considerazione sulla comunicazione è corretta, ma forse impostata nella maniera sbagliata da entrambe le parti. Da parte dei birrifici artigianali "primitivi" (passatemi l'espressione), che con questa considerazione fanno più o meno consapevolmente coincidere la meritoria opera già fatta negli anni scorsi con una vera o presunta "superiorità morale" che il pubblico dovrebbe cogliere; e da parte dei "birrifici imprenditori", che evidentemente (almeno alcuni, perché non tutti operano così) sono convinti di dover per forza nascondere il fatto di essere diversi dai birrifici di cui sopra - che sarebbero, appunto, "moralmente superiori". Ok, ho forzato i toni, ma era per rendere l'idea. Invece sono dell'opinione che entrambi, per farsi apprezzare, debbano dire le cose come stanno. I primi raccontare la storia del birraio e della sua impresa, di come questa si concretizzi nelle birre, e di come si inserisca in quella più ampia del movimento birrario artigianale italiano; i secondi quella dell'incontro, si spera virtuoso, tra le capacità economiche e manageriali di un imprenditore - sicuramente utile spunto nella gestione aziendale anche per molti birrai - e un birraio o un consulente. Che magari non avrà potuto esprimere liberamente tutto il suo estro creativo, ma magari è stato bravissimo a cogliere al meglio e con passione le richieste del mercato a cui l'imprenditore si rivolgeva. Insomma, credo che tutti e due abbiano da guadagnarci nell'impostare la comunicazione, molto banalmente, sulla trasparenza. Tanto è vero che, in altri Paesi, gli imprenditori che assumono un birraio (anche per le piccole realtà) sono figura più comune che da noi.


In secondo luogo, posto che nessun birraio della prima ora fa più il discorso secondo cui la birra buona si vende da sola, se la gente "preferisce chi sa raccontare", allora chi non lo sa fare - a qualunque delle tipologie di cui sopra appartenga - deve porsi qualche domanda. E se, statisticamente, ad essere più bravi a raccontare sono quelli della terza tipologia, allora la soluzione per i primi è imparare a raccontare meglio una storia che, almeno per il pubblico a cui loro mirano, è sicuramente più avvincente di quella dell'imprenditore che assume un birraio. Non dico che sia facile a farsi, ma col
tivare acrimonie e sfogarsi sui social non aiuta a far conoscere al pubblico questi retroscena.

 

Mi ha anche dato da pensare il fatto che alcuni, nei commenti, abbiano lamentato il fatto che la birra artigianale sia diventata "un prodotto". A mio parere, dobbiamo definire che cosa intendiamo per "prodotto". Se intendiamo qualcosa che viene fatto per poi essere venduto, allora ovviamente sì, la birra artigianale fatta da un birraio è un prodotto, perché se la fa per non venderla allora si chiama homebrewer e lo fa per hobby e non per lavoro. A meno che, appunto, non vogliamo dare un'accezione diversa al termine, ammettendo che all'interno del concetto stesso di prodotto c'è anche la motivazione che porta a farlo: chi, ad esempio, si sognerebbe di mettere sullo stesso piano un frigorifero e un'opera d'arte venduta in una qualche casa d'aste? Eppure entrambe sono fatte per essere vendute, e dare la giusta (si spera) remunerazione a chi ci ha lavorato. A fare la differenza è, appunto, la motivazione e il processo che porta a questi "prodotti". Se vogliamo fare questa distinzione allora sì, birra artigianale fatta dai birrai "classici", birra fatta da queste altre realtà, e birra fatta dall'industria sono "prodotti" diversi nella misura in cui nascono in maniera differente, cosa che va appunto comunicata correttamente. Ma forse chi lamentava questa "prodottificazione" lamentava in realtà che la birra artigianale sia diventata una sorta di moda, in cui la qualità del (appunto) prodotto finisce per passare in secondo piano rispetto alle dinamiche di marketing e di tendenza - al di là di quale categoria di birrificio l'abbia prodotta. E questo è un problema di non facile risoluzione perché implica il fatto di incentrare la propria comunicazione e le proprie vendite sul rendere il consumatore consapevole, e non sul semplice accattivarsi i suoi gusti.

Detto ciò: capisco benissimo la critica che ha fatto partire questo post, e sì, vedere chi non è trasparente sul dove e /o da chi si fa fare la birra o le ricette mi dà estremamente fastidio - e cerco di fare quello che posso per comunicare correttamente le varie realtà. Ma una delle cose che mi porto dietro dalla mia precedente esperienza giornalistica è che qualsiasi storia, se lo si vuole e lo si sa fare, può essere raccontata mettendo in luce nel migliore dei modi anche quegli aspetti che potrebbero altrimenti risultare critici. Facciamolo.

2 commenti:

  1. Ho letto con interesse le riflessioni, come sempre molto attente, di Chiara su BBERFIRM & Co.. In particolare mi piace la frase "...entrambe sono fatte per essere vendute, e dare la giusta (si spera) remunerazione a chi ci ha lavorato" , che ricorda il celebre detto di Adam Smith "Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dalla cura che essi hanno per il proprio interesse". Personalmente trovo che troppe polemiche sono fuori luogo: l'importante è che la birra sia buona, genuina,trattata bene lungo tutta la filiera! E tanto meglio se anche "ben comunicata". Cordiali saluti, Tullio Zangrando

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  2. Bisogna sempre ricordare a chi produce birra che non sta salvando il mondo, e lo stesso vale - sia chiaro - per chi la vende, per chi la beve e per chi ne scrive. In Italia il livello medio delle birre sta crescendo a una velocità straordinaria e molti di quelli che entrano oggi sul mercato lo fanno con prodotti di alta qualità. Ciò che li differenzia dai "pionieri" è che spesso comunicano nel modo corretto, in termini di packaging, identità visiva e comunicazione social. Non basta più fare birra buona, per fortuna. La devi saper raccontare in diversi modi e se non sei capace forse è il caso che ti affidi a qualche professionista che lo sa fare. Meno male che la birra artigianale è sempre più un "prodotto": finiamola con questo approccio snob che non fa altro che limitare enormemente le potenzialità di un settore che, così com'è, mostra delle terribili fragilità.

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