In questo ultimo giorno dell'anno, riporto qui sotto l'intervista a Severino Garlatti Costa pubblicata ieri a mia firma su Il Giornale della Birra. Buona lettura e buon anno!
Una delle criticità che più spesso è stata lamentata dai birrai
artigiani è l’assenza di una vera e propria associazione di categoria: e
infatti in alcune Regioni ci si è mossi in questo senso, spesso grazie
anche al sostegno di Confartigianato. Tra queste c’è il Friuli Venezia
Giulia, dove nel luglio del 2015 è stata fondata l’Associazione Birrai
Artigiani Fvg: i suoi scopi, come specificato dallo statuto, vanno dalla
consulenza in campo formativo, legale e fiscale, alla promozione di
eventi e iniziative di vario genere e dei contatti tra birrai, alla
sensibilizzazione del consumatore e degli enti pubblici, alla creazione
di sorta di “gruppi di acquisto solidale” per le materie prime. Il
Giornale della Birra ha incontrato Severino Garlatti Costa, titolare del
birrificio Garlatti Costa di Forgaria, e presidente dell’Associazione –
che oggi conta una quindicina di soci, su una trentina tra birrifici e
beerfirm presenti in Regione.
Quali sono stati i principali traguardi raggiunti dall’Associazione in questo primo anno di vita?
Il risultato più immediatamente “visibile” è stato l’essere riusciti
ad organizzare numerosi eventi insieme, da Friulidoc, all’Artigiano in
Fiera; e fondamentali sono state in questo senso le collaborazioni con
Ersa (l’Ente Regionale per lo Sviluppo Rurale) e Confartigianato. Ma è
stata proficua anche la collaborazione con le istituzioni, che già da
tempo spingevano per avere un interlocutore unico: oggi abbiamo un
rapporto continuativo con diversi consiglieri regionali, che ci consente
di far presente le necessità del settore – dalle normative agricole
alla promozione del prodotto – e devo dire che abbiamo trovato ascolto.
Inoltre la Regione può porsi come mediatore tra noi e altre istituzioni,
come l’Agenzia delle Dogane.
Quali sono state invece le principali difficoltà?
Innanzitutto il fatto che ciascun birrificio, essendo tutti di
piccola dimensione, ha poco tempo da dedicare a mettere a frutto tutte
le possibilità che l’Associazione apre: senz’altro servirebbero altre
persone per sviluppare i vari progetti. Inoltre, ma non è certo un
problema dei soli birrifici, non tutti capiscono l’importanza del
mettersi insieme e fare massa critica: come singoli siamo inascoltati.
Ci sono delle specificità della Regione che possono essere utilmente messe a frutto da voi birrai artigiani?
Il fatto di essere tutti di piccola dimensione, e almeno per ora non
numerosissimi, pur essendo per certi versi un limite ci consente di
avere più agevolmente contatti diretti tra di noi. Inoltre siamo la
Regione è è partita per prima nel campo della divulgazione culturale nel
settore birrario, con la preziosa opera del prof. Buiatti
dell’Università di Udine. Altre Regioni, come la Lombardia e il Veneto,
ci hanno poi superati sotto questo profilo e mi rammarico che non si sia
cresciuti con lo stesso entusiasmo; ma rimane comunque come punto di
forza e come stimolo a dare nuovo slancio il “vantaggio d’immagine” di
essere partiti per primi.
Quali sono i progetti e prospettive per il futuro?
Senz’altro il lavoro da fare per crescere come Associazione non
manca. Alla Regione abbiamo proposto la costituzione di un tavolo
permanente con il nostro settore, e di farci conoscere attraverso le
manifestazioni a cui la Regione partecipa all’estero: il mondo del vino
già è presente, per cui possiamo esserlo anche noi. Tra i progetti che
ci sono cari c’è poi la creazione di una piccola malteria, dando seguito
alle sperimentazioni già fatte all’Università.
Come vedi invece, più al largo, il futuro del settore in Italia?
Dalle ultime analisi uscite è emerso ciò che già da qualche tempo noi
operatori avevamo visto “sul campo”, ossia che esistono tre tipologie
di birrifici artigianali: i piccoli e i brewpub, che lavorando su
piccola scala e a livello locale fanno del poter vendere direttamente
l’intera produzione il loro punto di forza; i “grandi”, che vogliono
investire per crescere pur rimanendo artigianali, e devono strutturarsi
in maniera adeguata per poter sfruttare le economie di scala; e in mezzo
i “medi”, che hanno costi fissi paragonabili a quelli dei grandi, ma
non riescono a sfruttare quelle stesse economie di scala né a basarsi
solo sulla vendita diretta come i piccoli. Per i primi vedo un buon
futuro, anche a fronte della crescita vertiginosa del numero di
birrifici artigianali, grazie al loro radicamento sul territorio; così
come sono ottimista per i secondi, purché a condurli ci sia qualcuno che
ha una visione imprenditoriale. Per i terzi, invece, vedo una
situazione più critica.
Il mio blog di avventure birrarie, descrizioni di birre, degustazioni, e notizie dal mondo della birra artigianale.
sabato 31 dicembre 2016
mercoledì 28 dicembre 2016
Che anno è
Ebbene sì, anch'io sono caduta nel vizio: fine anno è tempo di bilanci, e guardando al mio blog ho sentito anch'io l'istinto a fare il punto su un anno che, almeno sotto il profilo birrario, per me si è rivelato assai più ricco dei precedenti. Per ogni mese ho individuato una birra e un birrificio che ritengo significativi - permettendomi in alcuni casi anche qualche citazione in più, se necessario. Chiedo scusa se, per ovvi motivi, non nominerò tutti: l'intenzione non è assolutamente quella di sminuire, ma le ragioni di spazio mi impongono una scelta. Vi invito quindi a seguirmi in questo mio diario del 2016.
Gennaio è stato il mese della mia trasferta al birrificio Jeb: una due giorni alla scoperta non solo della birra ma anche della gastronomia locale - per la quale ringrazio Chiara Baù - e coronata da una fugace ma piacevole sosta sul Lago di Garda a salutare gli amici del Benaco 70. Come birra del mese ne scelgo però una che non fa parte di questi viaggi, la Orodorzo di Garlatti Costa.
Febbraio è stato il mese segnato dalla conduzione delle quattro degustazioni al Cucinare in Fiera a Pordenone. Diventa difficile, tra i tanti birrifici presenti, nominare una sola birra: scelgo la Qirat, la stout alla carruba del Birrificio Tarì, che mi ha colpita per la sua originalità e "pulizia tecnica" al tempo stesso. Non posso poi non citare il Beer Attraction, all'interno del quale nomino birrificio del mese tra le nuove conoscenze il Birrificio del Doge.
Marzo ha visto tra i nuovi amici Sebastian Sauer di Freigeist Bierkultur ai Mastri d'Arme di Trieste; come birra del mese identifico però la Pat at a Tap di Antica Contea, la loro nuova oatmeal stout presentata in occasione della festa di San Patrizio.
Aprile mi ha vista presa dalla Fiera della Birra Artigianale di Santa Lucia di Piave. Anche qui scegliere diventa arduo: dopo numerosi ripensamenti ho quindi deciso di nominare birra del mese la Mutta Affumiada del Birrificio di Cagliari, una rauch alle bacche di mirto. Mi permetto però in questo caso di nominare anche il birrificio del mese, ossia il Diciottozerouno, consciuto in quella occasione: e che si era distinto in tale sede per come aveva saputo presentarsi e valorizzare la qualità complessiva dell'offerta.
Di Maggio ricordo la visita al Cooper's di Usago, piacevole sia sotto il profilo gastronomico che sotto quello birrario; e nomino di conseguenza birra del mese la loro bionda, una Helles sui generis che si pone come marchio di fabbrica del brewpub.
Giugno è stato il mese dell'Arrogant Sour Festival, e capirete come nominare una birra del mese diventi impossibile: giocoforza, ma proprio giocoforza, sceglierei la Irish Heather Sour Ale del birrificio irlandese The White Hag, ma è un proforma. Aggiungo però il birrificio del mese, il Maniago, giovane promessa a cui non posso che augurare un futuro ricco di soddisfazioni.
Luglio è stato segnato dalla conoscenza del Birrificio di Pejo; e come birra del mese mi trovo a scegliere la loro dark ale Aquila, originalissima ricetta ispirata ai vini rossi. Anche qui però devo nominare il birrificio del mese, The Lure, che si aggiudica la menzione per la qualità complessiva delle birre.
Agosto mi ha vista sconfinare fino in Svezia per la piacevolissima visita al birrificio Nils Oscar, occasione per conoscere non solo l'azienda ma anche il territorio (e anche qui continuo a ringraziare Kjell); e come birra del mese scelgo - non senza difficoltà - la Rokporter, per la maniera in cui sa unire due stili diversi (rauch e porter) senza creare pasticci ma pervenendo anzi ad un risultato originale.
Settembre è il mese di Friulidoc, che mi ha vista condurre la degustazione di apertura per Confartigianato; ma è stato in generale un mese intensissimo, con Gusti di Frontiera, il BeVe, e l'apertura di Urban Farmhouse. Come birra del mese devo però identificare la Thomas Hardy's Ale, al cui ri-debutto ho assistito a Milano: e non perché sia stata quella che più ho apprezzato (e non voglio con questo far torto a chi l'ha rilanciata, ma semplicemente esprimere una mia opinione), ma perché senz'altro è stata quella che più si è imposta all'attenzione. Nomino però il birrificio del mese in quanto a presentazione e qualità complessiva dell'offerta il Couture, conosciuto al BeVe.
Anche Ottobre è stato ricchissimo di eventi, con Nonsolobirra, la Fiera della Birra Artigianale di Pordenone, e degustazioni al Palagurmé. Fare delle scelte diventa quindi anche qui difficile. Come birra del mese, dopo numerose ed attente valutazioni, nomino la Sour all'Amarone del Mastino; e come birrificio del mese, se la palma di qualità complessiva rimane appannaggio del Il Birrone a Nonsolobirra, non posso comunque non riservare una mezione a una delle nuove conoscenze, il San Giovanni, per la maniera lodevole in cui ha saputo presentarsi e valorizzare al meglio la produzione al Palagurmé.
A Novembre è proseguito Mastro Birraio, e diversi locali hanno organizzato eventi e degustazioni. Come birra del mese, dato che rivedendo i post l'ho nominata coome "una di quelle da assaggiare una volta nella vita", nomino la Maan di Galassia; mentre come birrificio del mese cito la Brasseria della Fonte, conosciuta a Pordenone, altra ottima giovane promessa che mi auguro faccia strada.
Infine, a Dicembre, la birra del mese non può che essere una natalizia ossia la xmaStrong di B2O (che ho finalmente avuto il piacere di visitare); ma non posso non citare la visita al Birrificio San Gabriel e all'Osteria della Birra, nonché la partecipazione con il titolare Gabriele Tonon e altri collaboratori alla trasmissione tv La Zanzega.
Come dicevo, sono molti gli eventi, i birrifici, le birre e le persone che ho dovuto tralasciare e che avrebbero meritato una menzione e un ringraziamento: dallo staff di Post Editori con cui ho lavorato alla Guida a Tavola delle Venezie per la sezione birrifici, a quello del Palagurmé e The Good Beer Society - con cui si apre un 2017 ricco di progetti, su tutti il corso di degustazione Beer Lover -, a locali come La Brasserie, il Monsieur D e lo Yardie che si sono impegnati con passione nella promozione della birra artigianale. Il pensiero va poi a tanti altri birrifici che non si sono imposti all'attenzione di queste righe solo perché lo stesso mese c'erano stati altri eventi o birre che per qualche motivo sono stati per me più significativi, o perché hanno lavorato "sottotraccia" ma non per questo meno bene dei birrifici citati - penso ad esempio a Zahre, al Campestre, al Legnone, a Sognandobirra, al Borderline o al Grana 40.
Per il 2017 ci sono tante idee che frullano per la testa e tanti progetti in campo: prenderanno forma man mano...per ora mi limito ad augurarvi buon anno!
Gennaio è stato il mese della mia trasferta al birrificio Jeb: una due giorni alla scoperta non solo della birra ma anche della gastronomia locale - per la quale ringrazio Chiara Baù - e coronata da una fugace ma piacevole sosta sul Lago di Garda a salutare gli amici del Benaco 70. Come birra del mese ne scelgo però una che non fa parte di questi viaggi, la Orodorzo di Garlatti Costa.
Febbraio è stato il mese segnato dalla conduzione delle quattro degustazioni al Cucinare in Fiera a Pordenone. Diventa difficile, tra i tanti birrifici presenti, nominare una sola birra: scelgo la Qirat, la stout alla carruba del Birrificio Tarì, che mi ha colpita per la sua originalità e "pulizia tecnica" al tempo stesso. Non posso poi non citare il Beer Attraction, all'interno del quale nomino birrificio del mese tra le nuove conoscenze il Birrificio del Doge.
Marzo ha visto tra i nuovi amici Sebastian Sauer di Freigeist Bierkultur ai Mastri d'Arme di Trieste; come birra del mese identifico però la Pat at a Tap di Antica Contea, la loro nuova oatmeal stout presentata in occasione della festa di San Patrizio.
Aprile mi ha vista presa dalla Fiera della Birra Artigianale di Santa Lucia di Piave. Anche qui scegliere diventa arduo: dopo numerosi ripensamenti ho quindi deciso di nominare birra del mese la Mutta Affumiada del Birrificio di Cagliari, una rauch alle bacche di mirto. Mi permetto però in questo caso di nominare anche il birrificio del mese, ossia il Diciottozerouno, consciuto in quella occasione: e che si era distinto in tale sede per come aveva saputo presentarsi e valorizzare la qualità complessiva dell'offerta.
Di Maggio ricordo la visita al Cooper's di Usago, piacevole sia sotto il profilo gastronomico che sotto quello birrario; e nomino di conseguenza birra del mese la loro bionda, una Helles sui generis che si pone come marchio di fabbrica del brewpub.
Giugno è stato il mese dell'Arrogant Sour Festival, e capirete come nominare una birra del mese diventi impossibile: giocoforza, ma proprio giocoforza, sceglierei la Irish Heather Sour Ale del birrificio irlandese The White Hag, ma è un proforma. Aggiungo però il birrificio del mese, il Maniago, giovane promessa a cui non posso che augurare un futuro ricco di soddisfazioni.
Luglio è stato segnato dalla conoscenza del Birrificio di Pejo; e come birra del mese mi trovo a scegliere la loro dark ale Aquila, originalissima ricetta ispirata ai vini rossi. Anche qui però devo nominare il birrificio del mese, The Lure, che si aggiudica la menzione per la qualità complessiva delle birre.
Agosto mi ha vista sconfinare fino in Svezia per la piacevolissima visita al birrificio Nils Oscar, occasione per conoscere non solo l'azienda ma anche il territorio (e anche qui continuo a ringraziare Kjell); e come birra del mese scelgo - non senza difficoltà - la Rokporter, per la maniera in cui sa unire due stili diversi (rauch e porter) senza creare pasticci ma pervenendo anzi ad un risultato originale.
Settembre è il mese di Friulidoc, che mi ha vista condurre la degustazione di apertura per Confartigianato; ma è stato in generale un mese intensissimo, con Gusti di Frontiera, il BeVe, e l'apertura di Urban Farmhouse. Come birra del mese devo però identificare la Thomas Hardy's Ale, al cui ri-debutto ho assistito a Milano: e non perché sia stata quella che più ho apprezzato (e non voglio con questo far torto a chi l'ha rilanciata, ma semplicemente esprimere una mia opinione), ma perché senz'altro è stata quella che più si è imposta all'attenzione. Nomino però il birrificio del mese in quanto a presentazione e qualità complessiva dell'offerta il Couture, conosciuto al BeVe.
Anche Ottobre è stato ricchissimo di eventi, con Nonsolobirra, la Fiera della Birra Artigianale di Pordenone, e degustazioni al Palagurmé. Fare delle scelte diventa quindi anche qui difficile. Come birra del mese, dopo numerose ed attente valutazioni, nomino la Sour all'Amarone del Mastino; e come birrificio del mese, se la palma di qualità complessiva rimane appannaggio del Il Birrone a Nonsolobirra, non posso comunque non riservare una mezione a una delle nuove conoscenze, il San Giovanni, per la maniera lodevole in cui ha saputo presentarsi e valorizzare al meglio la produzione al Palagurmé.
A Novembre è proseguito Mastro Birraio, e diversi locali hanno organizzato eventi e degustazioni. Come birra del mese, dato che rivedendo i post l'ho nominata coome "una di quelle da assaggiare una volta nella vita", nomino la Maan di Galassia; mentre come birrificio del mese cito la Brasseria della Fonte, conosciuta a Pordenone, altra ottima giovane promessa che mi auguro faccia strada.
Infine, a Dicembre, la birra del mese non può che essere una natalizia ossia la xmaStrong di B2O (che ho finalmente avuto il piacere di visitare); ma non posso non citare la visita al Birrificio San Gabriel e all'Osteria della Birra, nonché la partecipazione con il titolare Gabriele Tonon e altri collaboratori alla trasmissione tv La Zanzega.
Come dicevo, sono molti gli eventi, i birrifici, le birre e le persone che ho dovuto tralasciare e che avrebbero meritato una menzione e un ringraziamento: dallo staff di Post Editori con cui ho lavorato alla Guida a Tavola delle Venezie per la sezione birrifici, a quello del Palagurmé e The Good Beer Society - con cui si apre un 2017 ricco di progetti, su tutti il corso di degustazione Beer Lover -, a locali come La Brasserie, il Monsieur D e lo Yardie che si sono impegnati con passione nella promozione della birra artigianale. Il pensiero va poi a tanti altri birrifici che non si sono imposti all'attenzione di queste righe solo perché lo stesso mese c'erano stati altri eventi o birre che per qualche motivo sono stati per me più significativi, o perché hanno lavorato "sottotraccia" ma non per questo meno bene dei birrifici citati - penso ad esempio a Zahre, al Campestre, al Legnone, a Sognandobirra, al Borderline o al Grana 40.
Per il 2017 ci sono tante idee che frullano per la testa e tanti progetti in campo: prenderanno forma man mano...per ora mi limito ad augurarvi buon anno!
Etichette:
2016,
anno,
Antica Contea,
B2O,
Benaco /0,
bilancio,
birra artigianale,
Birrificio di Cagliari,
cuc,
Diciotto Zerouno,
Galassia,
garlatti costa,
jeb,
mastino,
Nils Oscar,
nonsolobirra,
Palagurmé,
Tarì
venerdì 16 dicembre 2016
Birra artigianale, del doman non v'è certezza?
E' uscito questa mattina - 16 dicembre - su La Tribuna di Treviso un articolo, a firma di Federico Cipolla, che fa il punto sul panorama della birra artigianale in provincia di Treviso; e in particolar modo sui passi fatti dalla categoria dei birrai al'interno di Confartigianato, dando voce al presidente regionale Ivan Borsato - che già avevo interpellato in questo post sia a proposito della costituzione dell'associazione, che della proposta di legge regionale avanzata per la tutela della birra artigianale.
Al di là dei contenuti dell'articolo, ad attirare la mia attenzione è stato il sommario: Da Camalò la previsione: "Viviamo gli anni che precedono il boom dei ricavi". Dopo anni in cui si parla di una torta che rimane sempre uguale e che bisogna spartirsi in sempre più persone, e di ricerche che non mostrano dati propriamente confortanti nonostante la vertiginosa crescita del numero di birrifici - o forse proprio a causa di questa vertiginosa crescita -, si tratta quantomeno di una voce fuori dal coro. Certo: da quella di MoBi a quella di Assobirra, sono indagini che sin dalla premessa dichiarano il loro limite di prendere in considerazione soltanto una piccola parte dei birrifici artigianali italiani; e che non rispondono in maniera precisa a quella che è "la" domanda, ossia quale sia la quota di mercato che la birra artigianale sta "erodendo" a quella industriale - Unionbirrai ha stimato per il 2015 una quota di mercato del 3% per la birra artigianale, in crescita del 2,2% dal 2011: se i consumi sono rimasti gli stessi, dovrebbe essere gioco forza calata nella stessa misura la quota di mercato dei birrifici industriali. Però è sensazione diffusa nel settore che non si possa parlare di un futuro tutto rose e fiori, anche senza voler tirare in ballo i numeri.
Dato che nell'articolo non veniva approfondita la ragione di questa affermazione, ho contattato il diretto interessato; chiedendogli quali fossero le ragioni che lo portavano a questa previsione. "Innanzitutto mi preme precisare che, dalle discussioni con i miei colleghi dell'associazione, è uscito che il campione di analisi è troppo esiguo e discontinuo nelle caratteristiche per essere di riferimento - ha affermato -. Quando parlo con loro mi rendo conto che siamo tutti in difficoltà a soddisfare le richieste di produzione, senza birra e di corsa, lavoriamo male perché c'è la voglia di accontentare il cliente spesso a discapito della qualità. E questo non è un bene, sia chiaro".
Torniamo quindi alla sorta di paradosso per cui tutti si scagliano contro i birrifici che spuntano come funghi, però allo stesso tempo - come avevo scritto in un mio precedente post - si pensa ad ingrandirsi perché le richieste dei clienti sono superiori alla propria capacità produttiva? Dove sta l'inghippo nel ragionamento? "Il problema sono quelli che si stanno attrezzando con grandi impianti al posto di seguire un graduale percorso - sostiene Borsato -, gli
speculatori, quelli che vedono l'opportunità di guadagno e fondamentalmente della birra gli interessa ben poco. Se ti fai un impianto da 20 ettolitri e vuoi sopravvivere e pagare il leasing ... devi scendere a compromessi".
Evidentemente non serve essere analisti per capire che è facile essere saturi con un impianto poco più che da homebrewer, altra cosa è il caso di chi - invece di partire con una struttura piccola, per limitare i costi e le eventuali perdite se l'avventura non va a buon fine - ha deciso di fare l'investimento "in crescita" e si trova a doverlo ammortizzare pur non avendo ancora i volumi per mandarlo a regime - e qui si innestano spesso i beerfirm. Entrambe scelte legittime, naturalmente, ma che pongono i produttori davanti ad esigenze diverse che si ripercuotono poi sul loro modo di affrontare il mercato.
E Borsato è tra i fautori convinti di un limite stringente di produzione massima per chi davvero voglia curare la qualità - e qui potremmo discutere a lungo sul significato che vogliamo dare a questa parola - del prodotto finale: "Io vedo la birra artigianale come una piccola iniziativa artigiana, che può crescere ma rimanere entro certi limiti: superati quelli le cose si complicano. Il lavoro deve essere locale, incentrato sul territorio; e poi magari, ma solo in un secondo tempo, guardare al mercato nazionale e all'export. Abbiamo bisogno però di un grande spartiacque, dividere la birra artigianale cattiva, da quella buona e fatta col cuore e con le mani ... il marchio di qualità è una oggettiva medicina".
In altri termini, secondo il birraio di Casa Veccia la saturazione a cui si grida c'è sì, ma solo se si pretende di crescere troppo di corsa; e si dice addirittura convinto che "per chi cresce secondo questa formula la saturazione non arriva mai", perché, anche a fronte dei consumi medi di birra che non accennano a crescere, il potenziale per ampliare la quota di mercato rispetto alla birra industriale c'è. "La gente si spaventa ogni volta che esce qualche dato, ma abbiamo oltre il 90% del mercato su cui espanderci. L'importante è crescere con gradualità. Sarà naturale che la gente tenderà sempre di più a bere artigianale e di qualità, spostandosi dall'industria all'artigianato. Bisogna però trovare il modo di regolamentare le cose, se il marchio di qualità ci servirà per distinguerci e orientare la scelta ben venga. Poi ci inventeremo qualcos'altro: manifestazioni degli associati, corsi di formazione, birroteca regionale,m laboratorio analisi interno, e via discorrendo".
Insomma, una convinzione animata da un lato dalla constatazione empirica che molti birrifici stanno aumentando la produzione - cosa che in effetti diversi birrai di mia conoscenza mi riferiscono - e dall'altro da una passione che stimola a puntare in alto sempre e comunque. Non sono titolare di un birrificio né di un centro studi, però a livello di pura opinione personale mi sembra che la verità stia, come sempre, da qualche parte nel mezzo: se il fiorire dei microbirrifici pone oggettivi problemi di "sovraffollamento" di questo specifico segmento di mercato che non possono essere ignorati - e che credo costituiscano una barriera all'ingresso a nuovi birrifici -, dall'altro non è irragionevole pensare ad un proseguimento nella crescita dei consumi della birra artigianale rispetto a quella industriale. Abbastanza da sostenete oltre mille piccoli produttori? Magari no. Ma qui bisognerà vedere fin dove entrerà effettivamente in gioco lo "spartiacque" di cui parlava Borsato.
Al di là dei contenuti dell'articolo, ad attirare la mia attenzione è stato il sommario: Da Camalò la previsione: "Viviamo gli anni che precedono il boom dei ricavi". Dopo anni in cui si parla di una torta che rimane sempre uguale e che bisogna spartirsi in sempre più persone, e di ricerche che non mostrano dati propriamente confortanti nonostante la vertiginosa crescita del numero di birrifici - o forse proprio a causa di questa vertiginosa crescita -, si tratta quantomeno di una voce fuori dal coro. Certo: da quella di MoBi a quella di Assobirra, sono indagini che sin dalla premessa dichiarano il loro limite di prendere in considerazione soltanto una piccola parte dei birrifici artigianali italiani; e che non rispondono in maniera precisa a quella che è "la" domanda, ossia quale sia la quota di mercato che la birra artigianale sta "erodendo" a quella industriale - Unionbirrai ha stimato per il 2015 una quota di mercato del 3% per la birra artigianale, in crescita del 2,2% dal 2011: se i consumi sono rimasti gli stessi, dovrebbe essere gioco forza calata nella stessa misura la quota di mercato dei birrifici industriali. Però è sensazione diffusa nel settore che non si possa parlare di un futuro tutto rose e fiori, anche senza voler tirare in ballo i numeri.
Dato che nell'articolo non veniva approfondita la ragione di questa affermazione, ho contattato il diretto interessato; chiedendogli quali fossero le ragioni che lo portavano a questa previsione. "Innanzitutto mi preme precisare che, dalle discussioni con i miei colleghi dell'associazione, è uscito che il campione di analisi è troppo esiguo e discontinuo nelle caratteristiche per essere di riferimento - ha affermato -. Quando parlo con loro mi rendo conto che siamo tutti in difficoltà a soddisfare le richieste di produzione, senza birra e di corsa, lavoriamo male perché c'è la voglia di accontentare il cliente spesso a discapito della qualità. E questo non è un bene, sia chiaro".
Torniamo quindi alla sorta di paradosso per cui tutti si scagliano contro i birrifici che spuntano come funghi, però allo stesso tempo - come avevo scritto in un mio precedente post - si pensa ad ingrandirsi perché le richieste dei clienti sono superiori alla propria capacità produttiva? Dove sta l'inghippo nel ragionamento? "Il problema sono quelli che si stanno attrezzando con grandi impianti al posto di seguire un graduale percorso - sostiene Borsato -, gli
speculatori, quelli che vedono l'opportunità di guadagno e fondamentalmente della birra gli interessa ben poco. Se ti fai un impianto da 20 ettolitri e vuoi sopravvivere e pagare il leasing ... devi scendere a compromessi".
Evidentemente non serve essere analisti per capire che è facile essere saturi con un impianto poco più che da homebrewer, altra cosa è il caso di chi - invece di partire con una struttura piccola, per limitare i costi e le eventuali perdite se l'avventura non va a buon fine - ha deciso di fare l'investimento "in crescita" e si trova a doverlo ammortizzare pur non avendo ancora i volumi per mandarlo a regime - e qui si innestano spesso i beerfirm. Entrambe scelte legittime, naturalmente, ma che pongono i produttori davanti ad esigenze diverse che si ripercuotono poi sul loro modo di affrontare il mercato.
E Borsato è tra i fautori convinti di un limite stringente di produzione massima per chi davvero voglia curare la qualità - e qui potremmo discutere a lungo sul significato che vogliamo dare a questa parola - del prodotto finale: "Io vedo la birra artigianale come una piccola iniziativa artigiana, che può crescere ma rimanere entro certi limiti: superati quelli le cose si complicano. Il lavoro deve essere locale, incentrato sul territorio; e poi magari, ma solo in un secondo tempo, guardare al mercato nazionale e all'export. Abbiamo bisogno però di un grande spartiacque, dividere la birra artigianale cattiva, da quella buona e fatta col cuore e con le mani ... il marchio di qualità è una oggettiva medicina".
In altri termini, secondo il birraio di Casa Veccia la saturazione a cui si grida c'è sì, ma solo se si pretende di crescere troppo di corsa; e si dice addirittura convinto che "per chi cresce secondo questa formula la saturazione non arriva mai", perché, anche a fronte dei consumi medi di birra che non accennano a crescere, il potenziale per ampliare la quota di mercato rispetto alla birra industriale c'è. "La gente si spaventa ogni volta che esce qualche dato, ma abbiamo oltre il 90% del mercato su cui espanderci. L'importante è crescere con gradualità. Sarà naturale che la gente tenderà sempre di più a bere artigianale e di qualità, spostandosi dall'industria all'artigianato. Bisogna però trovare il modo di regolamentare le cose, se il marchio di qualità ci servirà per distinguerci e orientare la scelta ben venga. Poi ci inventeremo qualcos'altro: manifestazioni degli associati, corsi di formazione, birroteca regionale,m laboratorio analisi interno, e via discorrendo".
Insomma, una convinzione animata da un lato dalla constatazione empirica che molti birrifici stanno aumentando la produzione - cosa che in effetti diversi birrai di mia conoscenza mi riferiscono - e dall'altro da una passione che stimola a puntare in alto sempre e comunque. Non sono titolare di un birrificio né di un centro studi, però a livello di pura opinione personale mi sembra che la verità stia, come sempre, da qualche parte nel mezzo: se il fiorire dei microbirrifici pone oggettivi problemi di "sovraffollamento" di questo specifico segmento di mercato che non possono essere ignorati - e che credo costituiscano una barriera all'ingresso a nuovi birrifici -, dall'altro non è irragionevole pensare ad un proseguimento nella crescita dei consumi della birra artigianale rispetto a quella industriale. Abbastanza da sostenete oltre mille piccoli produttori? Magari no. Ma qui bisognerà vedere fin dove entrerà effettivamente in gioco lo "spartiacque" di cui parlava Borsato.
giovedì 15 dicembre 2016
Il Natale quando arriva arriva...anche per gli homebrewers
Il 14 dicembre si è tenuta, in quel della Brasserie di Tricesimo, la tradizionale cena natalizia dell'Associazione Homebrewers Fvg. Il sodalizio è ormai arrivato al terzo anno di vita; tre anni in cui i rapporti tra gli associati si sono senz'altro consolidati, rendendo questi incontri occasione non solo di confrontarsi sull'homebrewing in senso stretto, ma anche sull'arte brassicola in generale nonché di passare una serata tra amici. Il Natale che si avvicina è stato poi l'occasione per una piccola sfida a due tra birre invernali (uso il termine "invernali" nel senso che una delle due non era stata pensata come propriamente natalizia), che ha aggiunto un po' di sapore alla serata.
Ad essere onesti il "sapore" non mancava: la cucina della Brasserie si è fatta onore con gnocchi di semolino alla zucca e grana, polpette al sugo con la polenta, e torta alla crema e cioccolata - tutto buonissimo, applauso ai cuochi. E con la carne non stava male la prima delle birre giunte a singolar tenzone, la Red Ipa, dai profumi tostati e di frutti rossi; che, pur non contrastando troppo il sapore della carne dato il corpo relativamente scarico, non "moriva" però in bocca grazie al finale in cui tornavano sia la componente amara che quella di cereale. Decisamente equilibrata e delicata per una birra fatta in casa - c'è infatti da tener conto che gli homebrewers scontano più difficoltà dei birrifici nel "lavorare con precisione", ottenendo magari risultati sbilanciati.
La seconda, la birra di Natale, è invece andata perfettamente a braccetto con il dolce: profumi di cannella e cioccolato, un corpo robusto ma decisamente secco e beverino nonostante i suoi nove gradi, che man mano che la temperatura saliva rivelava sempre più le note tostate, di caffè e liquorose. Anche questa ha avuto il pregio di non "strafare" pur giocando con sapori molto forti, e di chiudere in maniera pulita. Alle votazioni - palesi, per alzata di mano - l'ha spuntata per un solo voto quest'ultima: e indovinate un po' chi erano gli autori, i pluripremiati Walter Cainero e Luca Dalla Torre. C'è da dire però che per l'autore della Red Ipa, Davide Bombardier, che si cimenta con l'homebrewing da meno di un anno, trovarsi praticamente alla pari con loro è un ottimo traguardo.
Ora l'associazione, forte della sua ottantina di iscritti, guarda al nuovo anno: e personalmente sono certa che con le sue inziative farà ancora parlare di sé.
Ad essere onesti il "sapore" non mancava: la cucina della Brasserie si è fatta onore con gnocchi di semolino alla zucca e grana, polpette al sugo con la polenta, e torta alla crema e cioccolata - tutto buonissimo, applauso ai cuochi. E con la carne non stava male la prima delle birre giunte a singolar tenzone, la Red Ipa, dai profumi tostati e di frutti rossi; che, pur non contrastando troppo il sapore della carne dato il corpo relativamente scarico, non "moriva" però in bocca grazie al finale in cui tornavano sia la componente amara che quella di cereale. Decisamente equilibrata e delicata per una birra fatta in casa - c'è infatti da tener conto che gli homebrewers scontano più difficoltà dei birrifici nel "lavorare con precisione", ottenendo magari risultati sbilanciati.
La seconda, la birra di Natale, è invece andata perfettamente a braccetto con il dolce: profumi di cannella e cioccolato, un corpo robusto ma decisamente secco e beverino nonostante i suoi nove gradi, che man mano che la temperatura saliva rivelava sempre più le note tostate, di caffè e liquorose. Anche questa ha avuto il pregio di non "strafare" pur giocando con sapori molto forti, e di chiudere in maniera pulita. Alle votazioni - palesi, per alzata di mano - l'ha spuntata per un solo voto quest'ultima: e indovinate un po' chi erano gli autori, i pluripremiati Walter Cainero e Luca Dalla Torre. C'è da dire però che per l'autore della Red Ipa, Davide Bombardier, che si cimenta con l'homebrewing da meno di un anno, trovarsi praticamente alla pari con loro è un ottimo traguardo.
Ora l'associazione, forte della sua ottantina di iscritti, guarda al nuovo anno: e personalmente sono certa che con le sue inziative farà ancora parlare di sé.
mercoledì 14 dicembre 2016
Il Natale quando arriva arriva
Eh già, ormai è ora di pensare anche alle birre di Natale; e se gli anni scorsi mi sono dilettata con piacere tra nomi come la Rudolph di Garlatti Costa e la Gioiosa di Camerini (per citarne solo due), quest'anno ho invece provato la xmaStrong del B2O. Devo dire che Gianluca, il birraio, non mi aveva anticipato molto; per cui è stato interessante bere prima "alla cieca" e confrontarsi poi sulle impressioni.
A colpirmi, appena stappata la bottiglia, è stato l'aroma particolarmente intenso tra il maltato, uno speziato delicato, la frutta sotto spirito, finanche al chinotto: ed è stato infatti questo il primo arcano che ho voluto svelare con Gianluca, chiedendogli a che cosa potesse essere dovuto. Abbiamo trovato una spiegazione nel connubio tra lo zucchero Cassonnade, i luppoli - mi ha riferito di aver usato Magnum e Fuggle,che in effetti hanno dei profumi tra il fruttato e l'erbaceo, anche speziato nel caso del Fuggle - e le schegge di quercia scura, che hanno aggiunto profumi di legno del tutto peculiari. Ben percepibile è anche la componente speziata del lievito - che in questa sorta di gioco a indovinelli avevo correttamente individuato come belga, Abbey per la precisione - sia in aroma che al palato; dove arrivano anche i sapori della frutta sia secca che sotto spirito, tra cui spiccano quelli dei fichi neri - effettivamente aggiunti. E' da notare peraltro come il corpo, pur robusto nel suo sposare (con giusto equilibrio, devo dire) le note tostate, caramellate e di frutta, risulti assai facile a bersi per una birra di nove gradi alcolici e così complessa; salvo chiudere su sentori liquorosi e alcolici abbastanza importanti, cosa che - pur da considerarsi in stile per una strong ale invernale - personalmente ho trovato un po' troppo spinta, specie perché fa appunto seguito ad un corpo tutt'altro che invasivo. Si tratta comunque dell'unica "sbavatura", se così la possiamo definire, in una birra che nel complesso sa gestire in maniera equilibrata toni forti.
Ottimo peraltro l'abbinamento con i biscotti alle noci e nocciole - gentilmente offerti dagli amici Teresa e Stefano -, a completare l'atmosfera natalizia. Buon Natale...e cheers!
A colpirmi, appena stappata la bottiglia, è stato l'aroma particolarmente intenso tra il maltato, uno speziato delicato, la frutta sotto spirito, finanche al chinotto: ed è stato infatti questo il primo arcano che ho voluto svelare con Gianluca, chiedendogli a che cosa potesse essere dovuto. Abbiamo trovato una spiegazione nel connubio tra lo zucchero Cassonnade, i luppoli - mi ha riferito di aver usato Magnum e Fuggle,che in effetti hanno dei profumi tra il fruttato e l'erbaceo, anche speziato nel caso del Fuggle - e le schegge di quercia scura, che hanno aggiunto profumi di legno del tutto peculiari. Ben percepibile è anche la componente speziata del lievito - che in questa sorta di gioco a indovinelli avevo correttamente individuato come belga, Abbey per la precisione - sia in aroma che al palato; dove arrivano anche i sapori della frutta sia secca che sotto spirito, tra cui spiccano quelli dei fichi neri - effettivamente aggiunti. E' da notare peraltro come il corpo, pur robusto nel suo sposare (con giusto equilibrio, devo dire) le note tostate, caramellate e di frutta, risulti assai facile a bersi per una birra di nove gradi alcolici e così complessa; salvo chiudere su sentori liquorosi e alcolici abbastanza importanti, cosa che - pur da considerarsi in stile per una strong ale invernale - personalmente ho trovato un po' troppo spinta, specie perché fa appunto seguito ad un corpo tutt'altro che invasivo. Si tratta comunque dell'unica "sbavatura", se così la possiamo definire, in una birra che nel complesso sa gestire in maniera equilibrata toni forti.
Ottimo peraltro l'abbinamento con i biscotti alle noci e nocciole - gentilmente offerti dagli amici Teresa e Stefano -, a completare l'atmosfera natalizia. Buon Natale...e cheers!
lunedì 12 dicembre 2016
Birrifici, medio non è bello?
Qualche giorno fa è stato pubblicato uno studio commissionato dal MoBi, volto a - cito le loro parole - "fornire un quadro generale del settore sulla base dei numeri reali". Lo studio prende in considerazione un campione di 50 birrifici - 9 grandi con produzione superiore a 6000 hl/anno, 12 medi con produzione tra 1200 e 5999, 23 piccoli con produzione inferiore a 1200 hl, e 6 brewpub senza limiti di produzione - sugli oltre 1200 attualmente censiti; e si basa sui dati scaricati dal Registro delle Imprese tenuto presso le Camere di Commercio e sui volumi di produzione dichiarati dai birrai nella Guida alle Birre d'Italia 2017.
Per tutti i dati nel dettaglio vi rimando a questo link; personalmente, dato che noi giornalisti abbiamo manie di protagonismo e il terribile vizio di voler dire sempre la nostra su tutto, mi limito ad alcune considerazioni.
Innanzitutto ridimensionerei la critica che da alcuni era stata rivolta a questo studio, ossia il fatto di sentenziare che il settore è saturo - dato che i consumi, come già il report di Assobirra ha evidenziato, sono stabili da anni e anche la produzione non è aumentata in maniera significativa - senza però andare ad indagare quanto i birrifici artigianali, più che decuplicati negli ultimi dieci anni, abbiano "eroso" la quota di mercato delle birre industriali: al di là del fatto che nessuna delle ricerche che mi sia capitato di vedere dispone di dati disaggregati in questo senso, semplicemente non era questo lo scopo dichiarato dello studio. Certo è ipotizzabile che l'erosione ci sia stata - sempre secondo i dati di Assobirra, un colosso "simbolo" come la Heineken negli ultimi tempi è andata avanti al ritmo di -1% annuo, mentre nei birrifici artigianali si susseguono le nuove aperture -, ma l'obiettivo dell'indagine era vdere se, quali che siano le quote di mercato, il settore è in salute. E qui escono alcuni punti a mio avviso interessanti.
Tralascio la prima parte su come i grandi birrifici possano sfruttare le economie di scala per vendere ad un prezzo più basso, o la dimensione d'azienda per avere più facile accesso al credito; ciò che mi ha colpito è come i medi birrifici sembrino essere stretti in una morsa, troppo grandi per tagliare i costi facendo piccolo cabotaggio e troppo piccoli per arrivare alle economie di scala di cui sopra. La prima mazzata pare essere quella fiscale: se i grandi, a fronte di un utile medio annuo di 66.267 euro, pagano in media 33.500 euro di tasse; e i piccoli, con un utile medio di 8.462 euro, ne pagano 1.528; per i medi queste due cifre sono rispettivamente di 12.418 e 15.362 euro. Vabbè, direte voi, le tasse si calcolano sull'imponibile, mica sull'utile; però viene da chiedersi per quale strano italico paradosso questi birrifici paghino tasse più alte degli utili, sintomo di una situazione quantomeno distorta.
In secondo luogo, sembrano essere svantaggiati in quato a ritorno sull'investimento: se per ogni 100 euro investiti da un grande birrificio nel ritornano 17,35, e per un piccolo addirittura 24,32 - cosa spiegata con il fatto che il capitale alla base è relativamente basso - per i medi siamo ad appena 13,20. Verrebbe da pensare che la ragione stia nel fatto che alcuni investimenti "di peso", come impianti di una certa dimensione, siano comunque necessari; ma la produzione non è ancora tale da permettere di far rendere al meglio questi investimenti. Stesso dicasi per il Margine operativo lordo (ossia il guadagno tolti i costi della produzione, prima delle tasse): 24 per i grandi, 18,11 per i medi, e 23,37 per i piccoli.
Un discriminante parrebbe essere i costi del personale: un medio birrificio avrà pure i dipendenti che si contano sulle dita di una mano, ma ce li ha (cinque in media, secondo lo studio), mentre il piccolo di solito vede all'opera solo il birraio e uno o due collaboratori. E lo studio evidenzia come i costi del personale in rapporto alla produzione siano sostanzialmente uguali per grandi e medi birrifici, e significativamente più contenuti per i piccoli.
Non sono un'economista, ma la mia impressione da questi dati è che anche nel mondo della birra artigianale ci sia non solo un'intuibile "soglia critica di dimensione" verso l'alto - in altre parole: essere sufficientemente grandi da fare quell'economia di scala e quegli utili che servono ad andare avanti e possibilmente a crescere - ma anche verso il basso - ossia essere sufficientemente piccolo da "cavarsela in qualche modo": del resto un birraio mi ha recentemente ricordato come per molti "microbirrai" questo sia sostanzialmennte un secondo lavoro e quindi quando si è andati in pari tutto il resto è grasso, pardon birra, che cola, andando però in questo modo a "drogare" il mercato. E questa credo sia una considerazione importante in un momento in cui sento sempre più birrai dire che vogliono "fare il passo", acquistare l'impianto nuovo ed espandere la produzione a fronte delle richieste - fortunatamente - aumentate: perché potrebbe essere sì un passo importante, ma molto lungo, in alcuni casi forse più lungo della gamba.
Forse mi sbaglio, e indubbiamente non è corretto nemmeno generalizzare - sono certa che molti dei birrai che leggono potrebbero farmi esempi che confutano tutto ciò -, ma il fatto che una riflessione si imponga rimane. E se questi dati, pur parziali - avendo coinvolto solo un ristretto campione di aziende, e tenendo in considerazione solo alcuni parametri - serviranno a farla, ben venga.
Per tutti i dati nel dettaglio vi rimando a questo link; personalmente, dato che noi giornalisti abbiamo manie di protagonismo e il terribile vizio di voler dire sempre la nostra su tutto, mi limito ad alcune considerazioni.
Innanzitutto ridimensionerei la critica che da alcuni era stata rivolta a questo studio, ossia il fatto di sentenziare che il settore è saturo - dato che i consumi, come già il report di Assobirra ha evidenziato, sono stabili da anni e anche la produzione non è aumentata in maniera significativa - senza però andare ad indagare quanto i birrifici artigianali, più che decuplicati negli ultimi dieci anni, abbiano "eroso" la quota di mercato delle birre industriali: al di là del fatto che nessuna delle ricerche che mi sia capitato di vedere dispone di dati disaggregati in questo senso, semplicemente non era questo lo scopo dichiarato dello studio. Certo è ipotizzabile che l'erosione ci sia stata - sempre secondo i dati di Assobirra, un colosso "simbolo" come la Heineken negli ultimi tempi è andata avanti al ritmo di -1% annuo, mentre nei birrifici artigianali si susseguono le nuove aperture -, ma l'obiettivo dell'indagine era vdere se, quali che siano le quote di mercato, il settore è in salute. E qui escono alcuni punti a mio avviso interessanti.
Tralascio la prima parte su come i grandi birrifici possano sfruttare le economie di scala per vendere ad un prezzo più basso, o la dimensione d'azienda per avere più facile accesso al credito; ciò che mi ha colpito è come i medi birrifici sembrino essere stretti in una morsa, troppo grandi per tagliare i costi facendo piccolo cabotaggio e troppo piccoli per arrivare alle economie di scala di cui sopra. La prima mazzata pare essere quella fiscale: se i grandi, a fronte di un utile medio annuo di 66.267 euro, pagano in media 33.500 euro di tasse; e i piccoli, con un utile medio di 8.462 euro, ne pagano 1.528; per i medi queste due cifre sono rispettivamente di 12.418 e 15.362 euro. Vabbè, direte voi, le tasse si calcolano sull'imponibile, mica sull'utile; però viene da chiedersi per quale strano italico paradosso questi birrifici paghino tasse più alte degli utili, sintomo di una situazione quantomeno distorta.
In secondo luogo, sembrano essere svantaggiati in quato a ritorno sull'investimento: se per ogni 100 euro investiti da un grande birrificio nel ritornano 17,35, e per un piccolo addirittura 24,32 - cosa spiegata con il fatto che il capitale alla base è relativamente basso - per i medi siamo ad appena 13,20. Verrebbe da pensare che la ragione stia nel fatto che alcuni investimenti "di peso", come impianti di una certa dimensione, siano comunque necessari; ma la produzione non è ancora tale da permettere di far rendere al meglio questi investimenti. Stesso dicasi per il Margine operativo lordo (ossia il guadagno tolti i costi della produzione, prima delle tasse): 24 per i grandi, 18,11 per i medi, e 23,37 per i piccoli.
Un discriminante parrebbe essere i costi del personale: un medio birrificio avrà pure i dipendenti che si contano sulle dita di una mano, ma ce li ha (cinque in media, secondo lo studio), mentre il piccolo di solito vede all'opera solo il birraio e uno o due collaboratori. E lo studio evidenzia come i costi del personale in rapporto alla produzione siano sostanzialmente uguali per grandi e medi birrifici, e significativamente più contenuti per i piccoli.
Non sono un'economista, ma la mia impressione da questi dati è che anche nel mondo della birra artigianale ci sia non solo un'intuibile "soglia critica di dimensione" verso l'alto - in altre parole: essere sufficientemente grandi da fare quell'economia di scala e quegli utili che servono ad andare avanti e possibilmente a crescere - ma anche verso il basso - ossia essere sufficientemente piccolo da "cavarsela in qualche modo": del resto un birraio mi ha recentemente ricordato come per molti "microbirrai" questo sia sostanzialmennte un secondo lavoro e quindi quando si è andati in pari tutto il resto è grasso, pardon birra, che cola, andando però in questo modo a "drogare" il mercato. E questa credo sia una considerazione importante in un momento in cui sento sempre più birrai dire che vogliono "fare il passo", acquistare l'impianto nuovo ed espandere la produzione a fronte delle richieste - fortunatamente - aumentate: perché potrebbe essere sì un passo importante, ma molto lungo, in alcuni casi forse più lungo della gamba.
Forse mi sbaglio, e indubbiamente non è corretto nemmeno generalizzare - sono certa che molti dei birrai che leggono potrebbero farmi esempi che confutano tutto ciò -, ma il fatto che una riflessione si imponga rimane. E se questi dati, pur parziali - avendo coinvolto solo un ristretto campione di aziende, e tenendo in considerazione solo alcuni parametri - serviranno a farla, ben venga.
venerdì 2 dicembre 2016
Una birra in riva al Piave
Ho parlato solo un paio di volte su questo blog della birra San Gabriel, per quanto sia stata una delle prime birre artigianali che ho provato: amo infatti ricordare, non senza ironia, come la sera prima del mio matrimonio - sconfortata dall'aver visto arrivare al cellulare di mio fratello, a casa con me, un messaggio dal suo futuro cognato che diceva "Noi siamo in birreria, ci raggiungi?" - abbia annegato tensioni e timori in una bottiglia di Bionda San Gabriel. Ad ogni modo mercoledì scorso ho, dopo tanto tempo, visitato di persona il birrificio e l'annessa Osteria della Birra: l'occasione era la presentazione della candidatura della Valle del Piave a patrimonio Unesco, che il birrificio sostiene - dato che, come ha ricordato il fondatore Gabriele Tonon (a sinistra nella foto qui sotto), "le analisi hanno dimostrato che l'acqua del Lia ha una composizione simile a quella di Monaco, e quindi per la birra è perfetta".
Non mi soffermo qui sulla candidatura - vi rimando al sito dedicato, www.piaveunesco.org, con un caldo invito a leggere perché gli aspetti di interesse sono numerosi; mi limito a dire che è stata una serata molto istruttiva e piacevole, grazie anche alla chiacchierata con il prof. Giovanni Campeol e il dott. Giuliano Vantaggi - presidenti rispettivamente del Comitato scientifico e del Comitato promotore - e con lo stesso Gabriele Tonon, tra i pionieri della birra artigianale avendo aperto nel 1997. Essendosi Gabriele formato in Germania, e più precisamente alla Doemens Akademie, l'impronta tedesca è quella predominante nelle birre del San Gabriel; per quanto non si disdegni di spaziare nelle stout e in alcune birre "sperimentali", pur senza stravolgere gli stili consolidati.
Ho avuto modo di riprovare la Bionda - una lager chiara ispirata alle hell bavaresi, semplice, pulita e beverina, dal profumo che coniuga sentori erbacei e floreali a quelli del cereale - e la nota Ambra Rossa al radicchio, il "marchio di fabbrica" del San Gabriel - che unisce in maniera peculiare i sapori dei malti caramellati a quelli amari ed erbacei del radicchio, trovando un equilibrio del tutto apprezzabile tra i due poli. Nuova mi era invece la Buschina, definita come "tradizionale doppio malto italiana" (quasi a confermare che in Italia "doppio malto" è, con buona pace di chi - me compresa - si ostina a ricordare che si tratta solo di una definizione legislativa e non di uno stile, diventata una dicitura che di fatto sta ad identificare in senso lato una birra più forte e corposa della media): anche questa una lager, dal colore dorato carico, in cui all'aroma ho percepito - ancor più dei sentori fruttati "da descrizione", pur presenti - note di miele. Corpo caldo e pieno di cereale, che però non chiude indugiando sulla componente dolce ma va a contrastarla con un amaro delicato - che non cancella comunque completamente i sapori maltati. Anche questa semplice e senza particolari fronzoli, coerentemente con la filosofia della casa.
Al di là delle birre meritano poi una nota l'arredamento - ricco di veri e propri pezzi di collezionismo birrario - nonché la cucina dell'Osteria, che non solo ha dei "capisaldi di freschezza" - uno dei vanti è il fatto di non usare alcun prodotto surgelato -, ma presenta anche alcune particolarità a cui abbinare utilmente le birre. Al di là della "gamma radicchio" - dal risotto, alla marmellata di radicchio da accompagnare ai formaggi, alla frittata con radicchio e salsiccia - mi ha colpita in modo particolare la polenta con il mais rosso San Martino, una varietà di origine peruviana caduta nell'oblìo e poi riscoperta alla fine del XIX secolo in Carnia. A rifornire il San Gabriel è l'azienda agricola Pasquon di Torre di Mosto; e dalla farina macinata a pietra nasce non solo una polenta dal gusto del tutto particolare - delicatamente dolce, che tende quasi alla vaniglia, - ma anche la birra Zea Mays.
L'aroma unisce in maniera armoniosa la luppolatura floreale e i toni di cereale tendenti al vanigliato di questa particolare varietà di mais; un connubio che apre ad un corpo beverino per quanto di media robustezza, e in cui la componente dolce è sì protagonista ma non invasiva grazie anche alla chiusura in cui ritorna con eleganza l'amaro del luppolo - con tanto di lieve nota speziata al retorlfatto, che accompagna in maniera peculiare le precedenti note di vaniglia. Una birra che ho trovato originale e ben costruita, nella misura in cui gestisce in maniera pulita ed equilibrata un sapore peculiare come quello del mais San Martino.
Chiudo con un grazie a Gabriele Tonon, allo staff del birrificio e ai promotori della candidatura della Valle del Piave per la piacevole serata.
Non mi soffermo qui sulla candidatura - vi rimando al sito dedicato, www.piaveunesco.org, con un caldo invito a leggere perché gli aspetti di interesse sono numerosi; mi limito a dire che è stata una serata molto istruttiva e piacevole, grazie anche alla chiacchierata con il prof. Giovanni Campeol e il dott. Giuliano Vantaggi - presidenti rispettivamente del Comitato scientifico e del Comitato promotore - e con lo stesso Gabriele Tonon, tra i pionieri della birra artigianale avendo aperto nel 1997. Essendosi Gabriele formato in Germania, e più precisamente alla Doemens Akademie, l'impronta tedesca è quella predominante nelle birre del San Gabriel; per quanto non si disdegni di spaziare nelle stout e in alcune birre "sperimentali", pur senza stravolgere gli stili consolidati.
Ho avuto modo di riprovare la Bionda - una lager chiara ispirata alle hell bavaresi, semplice, pulita e beverina, dal profumo che coniuga sentori erbacei e floreali a quelli del cereale - e la nota Ambra Rossa al radicchio, il "marchio di fabbrica" del San Gabriel - che unisce in maniera peculiare i sapori dei malti caramellati a quelli amari ed erbacei del radicchio, trovando un equilibrio del tutto apprezzabile tra i due poli. Nuova mi era invece la Buschina, definita come "tradizionale doppio malto italiana" (quasi a confermare che in Italia "doppio malto" è, con buona pace di chi - me compresa - si ostina a ricordare che si tratta solo di una definizione legislativa e non di uno stile, diventata una dicitura che di fatto sta ad identificare in senso lato una birra più forte e corposa della media): anche questa una lager, dal colore dorato carico, in cui all'aroma ho percepito - ancor più dei sentori fruttati "da descrizione", pur presenti - note di miele. Corpo caldo e pieno di cereale, che però non chiude indugiando sulla componente dolce ma va a contrastarla con un amaro delicato - che non cancella comunque completamente i sapori maltati. Anche questa semplice e senza particolari fronzoli, coerentemente con la filosofia della casa.
Al di là delle birre meritano poi una nota l'arredamento - ricco di veri e propri pezzi di collezionismo birrario - nonché la cucina dell'Osteria, che non solo ha dei "capisaldi di freschezza" - uno dei vanti è il fatto di non usare alcun prodotto surgelato -, ma presenta anche alcune particolarità a cui abbinare utilmente le birre. Al di là della "gamma radicchio" - dal risotto, alla marmellata di radicchio da accompagnare ai formaggi, alla frittata con radicchio e salsiccia - mi ha colpita in modo particolare la polenta con il mais rosso San Martino, una varietà di origine peruviana caduta nell'oblìo e poi riscoperta alla fine del XIX secolo in Carnia. A rifornire il San Gabriel è l'azienda agricola Pasquon di Torre di Mosto; e dalla farina macinata a pietra nasce non solo una polenta dal gusto del tutto particolare - delicatamente dolce, che tende quasi alla vaniglia, - ma anche la birra Zea Mays.
L'aroma unisce in maniera armoniosa la luppolatura floreale e i toni di cereale tendenti al vanigliato di questa particolare varietà di mais; un connubio che apre ad un corpo beverino per quanto di media robustezza, e in cui la componente dolce è sì protagonista ma non invasiva grazie anche alla chiusura in cui ritorna con eleganza l'amaro del luppolo - con tanto di lieve nota speziata al retorlfatto, che accompagna in maniera peculiare le precedenti note di vaniglia. Una birra che ho trovato originale e ben costruita, nella misura in cui gestisce in maniera pulita ed equilibrata un sapore peculiare come quello del mais San Martino.
Chiudo con un grazie a Gabriele Tonon, allo staff del birrificio e ai promotori della candidatura della Valle del Piave per la piacevole serata.
Iscriviti a:
Post (Atom)