Interrompo brevemente la serie sul Beer Attraction per dar conto di una chicca per intenditori che per la seconda volta - la prima era stata lo scorso novembre al Mastro Birraio di Trieste, questa il 25 febbraio alla Brasserie di Tricesimo - si è tenuta in Friuli Venezia Giulia: la spillatura di una birra in stile inglese direttamente da cask, che i birrai promotori - e produttori - del birrificio Antica Contea hanno battezzato "Come Camra comanda". Per i non adepti, Camra sta per "Campaign for real ale": un'associazione - ma potremmo definirla prima di tutto un movimento di pensiero - nato in Inghilterra nel 1971, con lo scopo di promuovere la birra tradizionale inglese. Tradizione che prevede metodi precisi di produzione e di servizio: e tra questi metodi di servizio rientra la spillatura direttamente dal cask, ossia dalla botte.
Ho provato a farmi spiegare dal birraio Costantino come funziona in dettaglio la cosa, ma si tratta di un procedimento così complicato che non avrei saputo ripeterlo nemmeno sforzandomi: semplificando al massimo, l'imboccatura in basso della botte viene chiusa con un tappo (detto keystone, "chiave di volta") inserito con un martello, e dall'apertura in alto ("shive hole") viene versata la birra con una piccola aggiunta di zucchero per farla rifermentare. Lo shive hole viene poi chiuso, e una volta terminata la fermentazione la birra viene fatta "sfiatare" per far uscire l'anidride carbonica in eccesso. Al momento di servire la birra, il keystone viene fatto saltare con un pesante martello, e nell'apertura viene inserito un rubinetto o una pompa. Insomma, ce n'era di che incuriosirmi; anche perché la birra in questione era la Dama Bianca, una Ipa - nel senso di "Isonzo Pale Ale" - la cui caratteristica che mi ha sempre colpita è l'aroma floreale particolarmente ricco. Provarla quindi spillata "come Camra comanda", così da poterla apprezzare al meglio, indubbiamente avrebbe meritato.
Come spesso accade quando si prova la stessa birra servita con sistemi diversi, ci si rende conto che "non è la stessa cosa": la Dama Bianca da cask infatti ha una carbonatazione molto più bassa, circa la metà - così come dovrebbe appunto essere per le ale inglesi - rispetto a quella alla spina o in bottiglia, il che fa sì che se ne apprezzi meglio il corpo fresco e agrumato, quasi acidulo, e delicato al tempo stesso. E, detto tra noi, fa anche sì che scenda che è un piacere: sette gradi e sentirne tre, dato che l'essere ben poco frizzante la rende ancor più beverina. Ho trovato che la persistanza sia più breve, ma più intensa, dato che non rimane il "sentore delle bollicine" che può andare ad influenzarla.
Una serata quindi che definirei "istruttiva", oltre che piacevole; si replica il prossimo 4 marzo al Mastro Birraio di Trieste alle 19, per chi è da quelle parti...
Il mio blog di avventure birrarie, descrizioni di birre, degustazioni, e notizie dal mondo della birra artigianale.
venerdì 27 febbraio 2015
giovedì 26 febbraio 2015
Beer Attraction, parte seconda: Tutto il fascino delle tedesche
No, non sto parlando delle procaci donnone capaci di servire un numero incredibile di boccali da litro in vetro pesantissimo all'Oktoberfest (l'unica spiegazione che mi sono saputa dare è che facciano con costanza sollevamento pesi); ma delle birre fatte secondo questo stile, quasi un credo religioso per il secondo birrificio che ho conosciuto, il Birra Elvo di Graglia (BI).
Fedeli a ciò che qualsiasi birraio vi confermerà, ossia che il punto di partenza per una buona birra è un buona acqua, l'Elvo usa unicamente l'acqua della fonte Lauretana (per gli intenditori: un'acqua particolarmente dolce e quindi adatta a produrre questo genere di birre, 0,44° f); e fedeli altresì a quella che è la tradizione germanica, rispetta il celebre Reinheitsgebot del 1516 - l'editto con cui Guglielmo IV di Baviera imponeva ai birrai di utilizzare solo ed unicamente l'acqua, l'orzo e il luppolo -, eccezion fatta naturalmente per la weizen (unica alta fermentazione nella loro produzione). Insomma, niente spezie né aromatizzazioni, ci ha tenuto ha precisare il birraio: qualsiasi sapore o aroma tu senta, è dato dal gioco del malto, del lievito e del luppolo.
Quest'anno a Unionbirrai l'Elvo ha ottenuto un primo posto per la sua Heller Bock e due secondi posti per la Schwarz e per la Weizen; ho però chiesto di assaggiare quella che consideravano la loro birra più rappresentativa, ossia la Pils. Mi sono trovata d'accordo con la descrizione sul fatto che all'aroma si notassero delle note dolci di miele - ma non ho messo miele, ha insistito il birraio -, caratteristica non comune nelle pils; per il resto la definirei una pils sì ordinaria - nel senso che non presenta alcun dettaglio particolare - ma estremamente pulita e fresca, con un finale ben luppolato su toni floreali piuttosto che erbacei. Insomma, se cercate "la pils" ben fatta e senza orpelli, questa può fare per voi.
Il birraio ha poi insistito per farmi assaggiare anche la Schwarz. Come mi sarei aspetatta da una bassa fermentazione, gli aromi ben decisi di malto tostato e caffè - con una punta di liquirizia - nascondevano un corpo meno robusto di quanto si potesse presagire; senza essere comuqnue evanescente, come a volte mi è capitato di notare nelle lager scure. Anche in questo caso dunque una birra che, pur non cercando di stupire, lascia soddisfatti per il suo equilibrio - nonché un piacevole tocco di caffè in bocca parecchio persistente.
Ultima annotazione: l'Elvo ha avviato una collaborazione con una pasticceria per produrre a Natale i panettoni con la Doppelbock, e a Pasqua le colombe con la Heller Bock. Che dire: se sono buone come il birrraio assicura, sarà una lunga Quaresima di attesa...
Fedeli a ciò che qualsiasi birraio vi confermerà, ossia che il punto di partenza per una buona birra è un buona acqua, l'Elvo usa unicamente l'acqua della fonte Lauretana (per gli intenditori: un'acqua particolarmente dolce e quindi adatta a produrre questo genere di birre, 0,44° f); e fedeli altresì a quella che è la tradizione germanica, rispetta il celebre Reinheitsgebot del 1516 - l'editto con cui Guglielmo IV di Baviera imponeva ai birrai di utilizzare solo ed unicamente l'acqua, l'orzo e il luppolo -, eccezion fatta naturalmente per la weizen (unica alta fermentazione nella loro produzione). Insomma, niente spezie né aromatizzazioni, ci ha tenuto ha precisare il birraio: qualsiasi sapore o aroma tu senta, è dato dal gioco del malto, del lievito e del luppolo.
Quest'anno a Unionbirrai l'Elvo ha ottenuto un primo posto per la sua Heller Bock e due secondi posti per la Schwarz e per la Weizen; ho però chiesto di assaggiare quella che consideravano la loro birra più rappresentativa, ossia la Pils. Mi sono trovata d'accordo con la descrizione sul fatto che all'aroma si notassero delle note dolci di miele - ma non ho messo miele, ha insistito il birraio -, caratteristica non comune nelle pils; per il resto la definirei una pils sì ordinaria - nel senso che non presenta alcun dettaglio particolare - ma estremamente pulita e fresca, con un finale ben luppolato su toni floreali piuttosto che erbacei. Insomma, se cercate "la pils" ben fatta e senza orpelli, questa può fare per voi.
Il birraio ha poi insistito per farmi assaggiare anche la Schwarz. Come mi sarei aspetatta da una bassa fermentazione, gli aromi ben decisi di malto tostato e caffè - con una punta di liquirizia - nascondevano un corpo meno robusto di quanto si potesse presagire; senza essere comuqnue evanescente, come a volte mi è capitato di notare nelle lager scure. Anche in questo caso dunque una birra che, pur non cercando di stupire, lascia soddisfatti per il suo equilibrio - nonché un piacevole tocco di caffè in bocca parecchio persistente.
Ultima annotazione: l'Elvo ha avviato una collaborazione con una pasticceria per produrre a Natale i panettoni con la Doppelbock, e a Pasqua le colombe con la Heller Bock. Che dire: se sono buone come il birrraio assicura, sarà una lunga Quaresima di attesa...
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mercoledì 25 febbraio 2015
Beer Attraction, parte prima: sulle rive del Lago di Garda
Naturalmente non potevo mancare al Beer Attraction, l'evento alla Fiera di Rimini dedicati ai piccoli - e meno piccoli, dato che ce n'era anche qualcuno di dimensioni ragguardevoli - birrifici indipendennti: e tenendo conto che gli espositori superavano il centinaio, ce n'era davvero per tutti i gusti, tanto che ho necessariamente dovutoo fare una selezione drastica di quelli da visitare e privilegiare i nomi che ancora non conoscevo - chiedendo scusa ai vecchi amici.
La prima nuova conoscenza che ho fatto è stata il birrificio Benaco 70 di Affi (Verona), dall'antico nome del Lago di Garda su cui affaccia: lì due anni fa Riccardo e Erica (che vedete nella foto di renato Vettorato) hanno "trasformato la loro passione in un progetto imprenditoriale", per dirla con le loro parole, e attualmente viaggiano al ritmo di ua trentina di cotte da 30 hl ogni anno. Il loro parco birre comprende una helles, una blanche, una porter, una kolsch, una strong bitter, una Ipa e una "honey ale " - altresì detta "belgian strong ale al miele" -, ed è stato queste ultime tre che ho avuto il piacere di assaggiare, mentre mi venivano illustrate con passione dall'enologa e dal tecnico informatico prestati all'arte del brassare.
La strong bitter in particolare mi era stata presentata da Riccardo come una delle loro punte di diamante per la sua particolarità, e il "pezzo" più rappresentativo di casa benaco 70; e in effetti devo riconoscere che il malto torrefatto - con note di caramello, di nocciola e di biscotto - risalta in maniera assai peculiare all'aroma, e nel corpo si bilancia molto bene con l'amaro non troppo pungente dei luppoli inglesi risultando più delicata ma al tempo stesso più piena e rotonda rispetto alle bitter canoniche. Una caratteristica che ho apprezzato, dato che a livello di gusti personali preferisco non eccedere con l'amaro.
E sempre nel solco della tradizione britannica rimane la Ipa, che, pur usando luppoli americani, il Benaco brassa senza dry hopping come nell'antica tradizione inglese: il risultato è una Ipa meno aromatica e più amara - dato che comunque i nostri sembrano non risparmiare sul luppolo -, su cui anche all'aroma risalta assai di più l'acre dell'erbaceo che il pungente dell'agrumato. Anche la persistenza ben lunga e decisa è nettamente amara, per cui farà la felicità dei palati forti - nota per gli intenditori: stiamo parlando di 60 Ibu; nonché di chi ritiene che, nel marasma attuale delle Ipa, sia necessario evitare certi eccessi aromatici e ritornare alle origini.
Da ultimo ho assaggiato la Honey Ale, verso la quale ammetto di essere stata un po' prevenuta: difficile fare una buona birra al miele senza risultare stucchevoli, e in effetti non me ne sono capitate sotto mano - o meglio, in bocca - moltissime che soddisfacessero questo requisito. In realtà è stata alla fine quella che più mi ha colpita tra le birre del Benaco: non solo l'aroma intenso di miele di castagno - e quindi già di per sé non troppo dolce - incuriosisce già ancor prima di assaggiarla, ma il corpo caldo e dolce - ottima la fusione tra il miele di castagno e il caramellato del malto - lascia subito spazio ad un finale secco e amaro, che lascia la bocca soprendentemente fresca e pulita per una birra di questo genere. Una delle poche birre al miele di cuisi potrebbe bere una pinta senza stufarsi insomma, e occhio ai sette gradi e mezzo di alcol.
Al di là del gusto personale, lo definirei un birrificio che mi ha soddisfatta per la cura dedicata alle proprie creazioni non solo in fase di produzione, ma anche di illustrazione: dalle spiegazioni di Riccardo ed Erica traspariva infatti una conoscenza approfondita dei loro prodotti, evidentemente causa ed effetto allo stesso tempo dell'attenzione che vi riservano.
La prima nuova conoscenza che ho fatto è stata il birrificio Benaco 70 di Affi (Verona), dall'antico nome del Lago di Garda su cui affaccia: lì due anni fa Riccardo e Erica (che vedete nella foto di renato Vettorato) hanno "trasformato la loro passione in un progetto imprenditoriale", per dirla con le loro parole, e attualmente viaggiano al ritmo di ua trentina di cotte da 30 hl ogni anno. Il loro parco birre comprende una helles, una blanche, una porter, una kolsch, una strong bitter, una Ipa e una "honey ale " - altresì detta "belgian strong ale al miele" -, ed è stato queste ultime tre che ho avuto il piacere di assaggiare, mentre mi venivano illustrate con passione dall'enologa e dal tecnico informatico prestati all'arte del brassare.
La strong bitter in particolare mi era stata presentata da Riccardo come una delle loro punte di diamante per la sua particolarità, e il "pezzo" più rappresentativo di casa benaco 70; e in effetti devo riconoscere che il malto torrefatto - con note di caramello, di nocciola e di biscotto - risalta in maniera assai peculiare all'aroma, e nel corpo si bilancia molto bene con l'amaro non troppo pungente dei luppoli inglesi risultando più delicata ma al tempo stesso più piena e rotonda rispetto alle bitter canoniche. Una caratteristica che ho apprezzato, dato che a livello di gusti personali preferisco non eccedere con l'amaro.
E sempre nel solco della tradizione britannica rimane la Ipa, che, pur usando luppoli americani, il Benaco brassa senza dry hopping come nell'antica tradizione inglese: il risultato è una Ipa meno aromatica e più amara - dato che comunque i nostri sembrano non risparmiare sul luppolo -, su cui anche all'aroma risalta assai di più l'acre dell'erbaceo che il pungente dell'agrumato. Anche la persistenza ben lunga e decisa è nettamente amara, per cui farà la felicità dei palati forti - nota per gli intenditori: stiamo parlando di 60 Ibu; nonché di chi ritiene che, nel marasma attuale delle Ipa, sia necessario evitare certi eccessi aromatici e ritornare alle origini.
Da ultimo ho assaggiato la Honey Ale, verso la quale ammetto di essere stata un po' prevenuta: difficile fare una buona birra al miele senza risultare stucchevoli, e in effetti non me ne sono capitate sotto mano - o meglio, in bocca - moltissime che soddisfacessero questo requisito. In realtà è stata alla fine quella che più mi ha colpita tra le birre del Benaco: non solo l'aroma intenso di miele di castagno - e quindi già di per sé non troppo dolce - incuriosisce già ancor prima di assaggiarla, ma il corpo caldo e dolce - ottima la fusione tra il miele di castagno e il caramellato del malto - lascia subito spazio ad un finale secco e amaro, che lascia la bocca soprendentemente fresca e pulita per una birra di questo genere. Una delle poche birre al miele di cuisi potrebbe bere una pinta senza stufarsi insomma, e occhio ai sette gradi e mezzo di alcol.
Al di là del gusto personale, lo definirei un birrificio che mi ha soddisfatta per la cura dedicata alle proprie creazioni non solo in fase di produzione, ma anche di illustrazione: dalle spiegazioni di Riccardo ed Erica traspariva infatti una conoscenza approfondita dei loro prodotti, evidentemente causa ed effetto allo stesso tempo dell'attenzione che vi riservano.
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venerdì 20 febbraio 2015
Una doppia blanche e un avviso ai luppolanti
L'altra sera, parlando di birre belghe con un amico e con il buon Beppe alla birreria Samarcanda di Plaino, consideravamo come sia assai difficile mantenersi sotto i sette gradi quando si arriva in quel di Bruxelles: "A meno che non sia una blanche", ho osservato io con fare "studiato". "Beh, ma ci sono anche le double blanche, che comunque ne fanno sei" ha ribadito Beppe, evidentemente più navigato di me. Double blanche? Mai provata una, mi sono detta: e quindi a quel punto colmare la lacuna si poneva come la priorità della serata.
Beppe mi ha così servito una Blanche des Honnelles, double blanche della Abbaye des Rocs. Una doppio malto con tre cereali - orzo, frumento e avena - dal colore ramato, e quindi più carico delle blanche classiche: già da lì si intuisce che una qualche differenza ci deve essere, intuizione confermata dall'aroma floreale più intenso della media in cui spicca una nota di coriandolo. In bocca la fa invece da padrona il cereale, ricordando la crosta di pane; per passare poi ad una punta di vaniglia, che però lascia subito spazio ad una chiusura più secca e rinfrescante. Insomma, una scoperta assai curiosa, dato che coniuga il tocco dissetante delle blanche con un corpo ed un'aroma più complessi che possono soddisfare anche chi è alla ricerca di sapori più forti.
Detto ciò, dò volentieri spazio ad un "avviso ai luppolanti" di cui ho avuto conoscenza proprio al Samarcanda, ossia dell'apertura del bando della seconda edizione del "Luppolando": dal 1 agosto al 1 settembre - e quindi non ci sono scuse: il tempo per la maturazione ce l'avete, a meno che non facciate una barricata - gli homebrewers potranno consegnare le proprie creazioni al Samarcanda. Quest'anno già è stata predisposta una classificazione in otto categorie più una categoria aperta - trovate tutti dettagli sulla pagina Facebook del Samarcanda - e a fine settembre la giuria capitanata dal prof. Buiatti sceglierà le tre migliori per ciascuna categoria. Che dire: anche quest'anno, che vinca il migliore..
Beppe mi ha così servito una Blanche des Honnelles, double blanche della Abbaye des Rocs. Una doppio malto con tre cereali - orzo, frumento e avena - dal colore ramato, e quindi più carico delle blanche classiche: già da lì si intuisce che una qualche differenza ci deve essere, intuizione confermata dall'aroma floreale più intenso della media in cui spicca una nota di coriandolo. In bocca la fa invece da padrona il cereale, ricordando la crosta di pane; per passare poi ad una punta di vaniglia, che però lascia subito spazio ad una chiusura più secca e rinfrescante. Insomma, una scoperta assai curiosa, dato che coniuga il tocco dissetante delle blanche con un corpo ed un'aroma più complessi che possono soddisfare anche chi è alla ricerca di sapori più forti.
Detto ciò, dò volentieri spazio ad un "avviso ai luppolanti" di cui ho avuto conoscenza proprio al Samarcanda, ossia dell'apertura del bando della seconda edizione del "Luppolando": dal 1 agosto al 1 settembre - e quindi non ci sono scuse: il tempo per la maturazione ce l'avete, a meno che non facciate una barricata - gli homebrewers potranno consegnare le proprie creazioni al Samarcanda. Quest'anno già è stata predisposta una classificazione in otto categorie più una categoria aperta - trovate tutti dettagli sulla pagina Facebook del Samarcanda - e a fine settembre la giuria capitanata dal prof. Buiatti sceglierà le tre migliori per ciascuna categoria. Che dire: anche quest'anno, che vinca il migliore..
martedì 17 febbraio 2015
Dalla "birra da divano" a quella di Naon: una giornata al Cucinare
Come preannunciato, ho fatto visita al Cucinare in Fiera a Pordenone - per chi non la conoscesse, un'esposizione dedicata all'enogastronomia e alle tecnologie per la cucina. Quest'anno purtroppo la presenza di birrifici artigianali era assai più limitata rispetto all'anno scorso - gli unici presenti erano Meni, Petrussa, e un altro di cui parlerò dopo - ma ho comunque avuto modo di scoprire numerose curiosità e prodotti interessanti anche al di fuori del mondo birrario: cito ad esempio quelli della distilleria Buiese, che ha elaborato l'amaro Lusor con ben 17 erbe insieme all'università di Udine; o la crema al limone del Donna Frida, fatta ancora unicamente con latte, limone, alcol e zucchero in contenitori di vetro come da ricetta della nonna del titolare; i formaggi dell'azienda agricola San Faustino di Ceto (Brescia) e della San Gregorio di Aviano; o ancora le specialità campane del biscottificio De Pascale di Salerno, e quelle senza glutine della pasticceria Bianconiglio di Aviano. A colpirmi di più è stata però la trovata della Home Made, che vende preparati per dolci con farine "insolite" - dalla segale da altri cereali pressoché sconosciuti - confezionati i vasi di vetro e disposti in maniera "artistica", a mo' di vaso decorativo: della serie, è quasi un peccato usarli perché sono proprio belli (oltre che buonissimi, devo dire).
Venendo alle birre, ho avuto modo di scoprirne una nuova: la pordenonese Birra di Naon, prodotta come beer firm presso un'azienda agricola di Nespoledo - di cui utilizza l'orzo - in due tipologie. La prima è una lager chiara, ma facendo uso - parecchio pesantemente, peraltro - di luppoli americani come il citra risulta alla fine di un pungente aroma agrumato che potrebbe farla credere una pale ale: il risultato finale non fa comunque gridare al sacrilegio, perché è di assai piacevole beva, dissetante e dal finale fresco; ed ho trovato si abbinasse bene anche al formaggio latteria 60 giorni a latte crudo della Latteria di Aviano, al quale era stato proposto l'accostamento. Se la lager chiara ha una sua originalità, la ale ambrata mi ha impressionata di meno: non perché avesse difetti apparenti o fosse poco piacevole al gusto, ma perché non vi ho colto alcun, diciamo così, "tocco di maestria". Insomma, una ale ambrata "classica", che giudicherei molto versatile negli abbinamenti con le carni proprio in virtù dell'assenza di sapori pronunciati che sovrasterebbero gli altri. L'abbinamento proposto era questa volta con il formaggio latteria della Latteria Gortani affinato nelle trebbie; ma l'ho trovato meno indovinato, in quanto l'accostamento con un formaggio più saporito sarebbe indubbiamente più appropriato.
L'altra conoscenza che ho fatto non è stata di un nuovo birrificio ma di una nuova birra, la Xyauyù di Baladin nella versione Fumé: un barley wine maturato dodici mesi in botti di whisky scozzese, che conferiscono il caratteristico aroma torbato. A proporne la degustazione era il - già noto ai lettori di questo blog - Club del Toscano di Marco Prato, in abbinamento al sigaro Modigliani; personalmente ho però apprezzato di più quello al Biscotto di Pordenone con composta all'albicocca e curry, proposta da un altro sponsor della manifestazione. Non so se il birraio Teo Musso avesse definito la sua linea Xyauyù - tre versioni di barley wine - "Birra da divano" in virtù dei suoi 14 gradi alcolici - della serie: bevila seduto comodo, perché non ti potrai rialzare subito: di sicuro è una birra che va bevuta con calma, assaporando ogni piccolo sorso così da gustarne appieno gli aromi - ancor più apprezzabili in virtù dell'assenza di gasatura, come in tutti i barley wine. All'olfatto il torbato risalta in maniera assai netta, facendo presagire un sapore altrettanto robusto nel corpo; in realtà il mix tra le note di whisky, quelle di malto caramellato e i sentori torbati è ben equilibrato, risultando in un corpo ben pieno e rotondo. Il finale è più secco di quanto ci si potrebbe aspettare da una birra di questo genere: pur rimanendo dolce non è affatto stucchevole, in quanto il caramello lascia spazio ad una punta di amaro data dal connubio tra il torbato che ritorna e leggere note di frutta secca. Insomma: dopo una birra del genere avrete probabilmente una sete pazzesca - dato che un corpo e un grado alcolico così impegnativi di certo non rinfrescano -, ma sarete piacevolmente soddisfatti...
Venendo alle birre, ho avuto modo di scoprirne una nuova: la pordenonese Birra di Naon, prodotta come beer firm presso un'azienda agricola di Nespoledo - di cui utilizza l'orzo - in due tipologie. La prima è una lager chiara, ma facendo uso - parecchio pesantemente, peraltro - di luppoli americani come il citra risulta alla fine di un pungente aroma agrumato che potrebbe farla credere una pale ale: il risultato finale non fa comunque gridare al sacrilegio, perché è di assai piacevole beva, dissetante e dal finale fresco; ed ho trovato si abbinasse bene anche al formaggio latteria 60 giorni a latte crudo della Latteria di Aviano, al quale era stato proposto l'accostamento. Se la lager chiara ha una sua originalità, la ale ambrata mi ha impressionata di meno: non perché avesse difetti apparenti o fosse poco piacevole al gusto, ma perché non vi ho colto alcun, diciamo così, "tocco di maestria". Insomma, una ale ambrata "classica", che giudicherei molto versatile negli abbinamenti con le carni proprio in virtù dell'assenza di sapori pronunciati che sovrasterebbero gli altri. L'abbinamento proposto era questa volta con il formaggio latteria della Latteria Gortani affinato nelle trebbie; ma l'ho trovato meno indovinato, in quanto l'accostamento con un formaggio più saporito sarebbe indubbiamente più appropriato.
L'altra conoscenza che ho fatto non è stata di un nuovo birrificio ma di una nuova birra, la Xyauyù di Baladin nella versione Fumé: un barley wine maturato dodici mesi in botti di whisky scozzese, che conferiscono il caratteristico aroma torbato. A proporne la degustazione era il - già noto ai lettori di questo blog - Club del Toscano di Marco Prato, in abbinamento al sigaro Modigliani; personalmente ho però apprezzato di più quello al Biscotto di Pordenone con composta all'albicocca e curry, proposta da un altro sponsor della manifestazione. Non so se il birraio Teo Musso avesse definito la sua linea Xyauyù - tre versioni di barley wine - "Birra da divano" in virtù dei suoi 14 gradi alcolici - della serie: bevila seduto comodo, perché non ti potrai rialzare subito: di sicuro è una birra che va bevuta con calma, assaporando ogni piccolo sorso così da gustarne appieno gli aromi - ancor più apprezzabili in virtù dell'assenza di gasatura, come in tutti i barley wine. All'olfatto il torbato risalta in maniera assai netta, facendo presagire un sapore altrettanto robusto nel corpo; in realtà il mix tra le note di whisky, quelle di malto caramellato e i sentori torbati è ben equilibrato, risultando in un corpo ben pieno e rotondo. Il finale è più secco di quanto ci si potrebbe aspettare da una birra di questo genere: pur rimanendo dolce non è affatto stucchevole, in quanto il caramello lascia spazio ad una punta di amaro data dal connubio tra il torbato che ritorna e leggere note di frutta secca. Insomma: dopo una birra del genere avrete probabilmente una sete pazzesca - dato che un corpo e un grado alcolico così impegnativi di certo non rinfrescano -, ma sarete piacevolmente soddisfatti...
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giovedì 12 febbraio 2015
Aspettando di....cucinare
Che in Friuli Venezia Giulia ci sia - letteralmente - fermento, non è una novità: si tratta infatti, secondo i dati diffusi da Unionbirrai, della Regione con più alta densità di birrifici per abitante (36 stabilimenti censiti su circa 1 milione e 400 mila residenti). Anche in quanto a manifestazioni fieristiche, pur non trattandosi di eventi dai numeri che potrebbero fare grosse città, la scelta di eventi di qualità non manca: ed è appunto in arrivo uno di questi, il Cucinare di Pordenone, dal 14 al 17 febbraio.
L'anno scorso avevo avuto occasione di trovare e ritrovare degli amici, come già avevo scritto: Bad Guy Brewery, Baracca Beer, Tazebao, Valscura e molti altri ancora. Anche quest'anno ho quindi programmato un giro in quel di Pordenone, dato che gli stand - oltre che il calendario di eventi, fitto come l'anno scorso di dimostrazioni culinarie e incontri con chef e affini - si preannuncia interessante anche nell'ottica di nuove conoscenze: non conosco ad esempio il Beer Concept di Udine, né la Birra di Naon; e sarà l'occasione per ritrovare "La Grezza" di Giorgio Petrussa, meglio nota come Birra Tazebao, e La birra di Meni. Naturalmente sarà interessante accostarle con i prodotti tipici della gastronomia locale e non, dato che la maggior parte degli espositori da tutto lo stivale porta ciò che le proprie terre offrono.
Che dire, se capitate da quelle parti ci si vede (nota tecnica che può essere di discreta utilità: sul sito www.cucinare.pn è possibile chiedere il coupon per entrare a prezzo ridotto); altrimenti....rimanete sintonizzati per il resonconto!
L'anno scorso avevo avuto occasione di trovare e ritrovare degli amici, come già avevo scritto: Bad Guy Brewery, Baracca Beer, Tazebao, Valscura e molti altri ancora. Anche quest'anno ho quindi programmato un giro in quel di Pordenone, dato che gli stand - oltre che il calendario di eventi, fitto come l'anno scorso di dimostrazioni culinarie e incontri con chef e affini - si preannuncia interessante anche nell'ottica di nuove conoscenze: non conosco ad esempio il Beer Concept di Udine, né la Birra di Naon; e sarà l'occasione per ritrovare "La Grezza" di Giorgio Petrussa, meglio nota come Birra Tazebao, e La birra di Meni. Naturalmente sarà interessante accostarle con i prodotti tipici della gastronomia locale e non, dato che la maggior parte degli espositori da tutto lo stivale porta ciò che le proprie terre offrono.
Che dire, se capitate da quelle parti ci si vede (nota tecnica che può essere di discreta utilità: sul sito www.cucinare.pn è possibile chiedere il coupon per entrare a prezzo ridotto); altrimenti....rimanete sintonizzati per il resonconto!
lunedì 9 febbraio 2015
Una serata da Lord
Un altro invito che da tempo dovevo onorare era quello di Daniele Piagno, ambasciatore d'Orval (nella foto), a visitare il suo pub Lord Byron a San Michele al Tagliamento; invito onorato con molto piacere qualche giorno fa, insieme ad Enrico. Se da un ambasciatore d'Orval ci si potrebbe aspettare un ambiente tipicamente belga, ricredetevi: come lascia intuire il nome stesso, il locale ricorda piuttosto i pub inglesi, dai tavoli in legno scuro e le luci basse. Numerose poi le decorazioni alle pareti e gli scaffali di bottiglie da collezione, secondo la filosofia di Daniele per cui "un pub deve essere pieno, metterti di buon umore e invogliare a stare in compagnia". Sette le spine, tutte con birre di livello: dalla Kwak - anche qui servita, come al Saloon Mondelli di Flumignano, nel bicchiere d'ordinanza -, alla Lupulus (sia blonde che hibernatus), alla Gulden Draak, ad una versione commemorativa della stout O'Hara più carica di quella classica. Insomma, non un posto dove avvicinarsi alla spina per chiedere "una bionda". In quanto poi alle birre in bottiglia, mettetevi comodi: dalle belghe, alle olandesi, alle danesi, alle italiane, alle tedesche, alle scozzesi (e non sto parlando di donne), non c'è che l'imbarazzo della scelta.
Pur disorientata, la mia scelta è caduta sulla Gulden Draak - di cui Daniele è ambasciatore in Italia per il 2015, dopo esserlo stato nel 2012 e 2013: un'ambrata dai dieci gradi ben mascherati, dati gli aromi di malto, caramello e nocciola perfettamente amalgamati e un corpo altrettanto omogeneo e rotondo - detta altrimenti: scende che è un piacere. Pur essendo nettamente dolce, il finale rimane comunque equilibrato, con il luppolo che - pur non facendosi percepire distintamente, come vuole lo stile - arriva a smorzare i sentori zuccherini. Unica perplessità, un leggero sentore ferroso all'olfatto: ammetto di non essere stata in grado di capire se fosse solo un'impressione mia o un difetto vero e proprio, in quanto è sparito man mano che si è alzata la temperatura e non lasciava comuqnue alcun residuo in bocca.
Enrico, dovendo abbinare le costicine di maiale al forno con patate - e qui va precisato che anche la cucina del Lord Byron si fa onore, in particolare sulle carni - ha scelto una Westmalle Dubbel: personalmente l'ho trovata con un finale piuttosto amaro per lo stile - pienamente rispettato nel corpo ben pieno e dai sapori in equilibrio tra il dolce e il tostato del malto - e un po' troppo gasata, ma la Westmalle si conferma un'abbazia che lavora bene. Il tutto coronato dall'ospitalità di Daniele, che ci ha accolti e serviti in maniera cordiale: insomma, trattati come dei Lord.
Pur disorientata, la mia scelta è caduta sulla Gulden Draak - di cui Daniele è ambasciatore in Italia per il 2015, dopo esserlo stato nel 2012 e 2013: un'ambrata dai dieci gradi ben mascherati, dati gli aromi di malto, caramello e nocciola perfettamente amalgamati e un corpo altrettanto omogeneo e rotondo - detta altrimenti: scende che è un piacere. Pur essendo nettamente dolce, il finale rimane comunque equilibrato, con il luppolo che - pur non facendosi percepire distintamente, come vuole lo stile - arriva a smorzare i sentori zuccherini. Unica perplessità, un leggero sentore ferroso all'olfatto: ammetto di non essere stata in grado di capire se fosse solo un'impressione mia o un difetto vero e proprio, in quanto è sparito man mano che si è alzata la temperatura e non lasciava comuqnue alcun residuo in bocca.
Enrico, dovendo abbinare le costicine di maiale al forno con patate - e qui va precisato che anche la cucina del Lord Byron si fa onore, in particolare sulle carni - ha scelto una Westmalle Dubbel: personalmente l'ho trovata con un finale piuttosto amaro per lo stile - pienamente rispettato nel corpo ben pieno e dai sapori in equilibrio tra il dolce e il tostato del malto - e un po' troppo gasata, ma la Westmalle si conferma un'abbazia che lavora bene. Il tutto coronato dall'ospitalità di Daniele, che ci ha accolti e serviti in maniera cordiale: insomma, trattati come dei Lord.
martedì 3 febbraio 2015
Il tocco dell'homebrewer
Ieri sera ho avuto il piacere di partecipare ad una delle degustazioni riservate ai soci dell'Associazione homebrewers Fvg alla birreria Brasserie: fondamentalmente una serata pensata come incontro e confronto sui "piccoli capolavori" di ciascuno, facendoli assaggiare per riceverne un'opinione e fare tesoro di quella dei brassatori più navigati. Il tutto come sempre accompagnato da un piatto preparato da Matilde e Norberto, con una torta salata di ricotta e spinaci, assaggi di diversi tipi di formaggio e crocchette di patate.
Sono stati sei i "coraggiosi" che si sono messi in gioco; e al di là del fatto che tutti quanti si sono fatti onore - tutte birre di ottima qualità, senza difetti significativi se non quelli dovuti all'insufficiente maturazione in un paio di casi -, devo dire che una volta di più ho trovato che la nota distintiva dell'homebrewing sia la ricerca dell'originalità. A cominciare dalla prima, la weizen di Dario Gerdol (nella foto), dal peculiare aroma di banana conferito dal lievito; così come la Pale Ale di Luca Dalla Torre, con un profumo particolarmente intenso tra l'agrumato e l'erbaceo dato dai luppoli usati soltanto in aroma; o ancora la Belgian Strong Ale di Nicola Fiotti e del suo compagno brassatore - di cui, lo ammetto, non ricordo il nome -, dagli aromi dolci di liquore e di resina che si sprigionavano solo una volta "scaldato" bene il bicchiere; o l'Imperial Stout di Emiliano Santi e - anche qui non ricordo il nome, mi perdonerete -, in cui le note intense di cioccolato e di caffè si fondevano in modo encomiabile. Non era poi da meno la Real Ale di Walter Cainero, per quanto mi non abbia colpita altrettanto; e una nota di merito la riservo pure a Leopoldo che, pur essendo solo alla sua quarta birra da homebrewer, si è messo in gioco presentando delle bottiglie che, pur essendo fatte con il kit, evidenziavano comunque la volontà di incamminarsi con impegno su questa strada perché ha comunque cercato di utilizzare in maniera "personale" tutti i (pur esigui) margini di manovra che il preparato consente.
Alla votazione finale - fatta senza scopo di premiare, ma quasi a titolo di sondaggio - a raccogliere il maggior numero di voti è stato il "solito" Luca Dalla Torre: che ha scherzosamente rischiato una squalifica, perché "non puoi vincere sempre tu, almeno paga da bere". A sua giustificazione, c'è da dire in un certo senso l'aveva già fatto...
Sono stati sei i "coraggiosi" che si sono messi in gioco; e al di là del fatto che tutti quanti si sono fatti onore - tutte birre di ottima qualità, senza difetti significativi se non quelli dovuti all'insufficiente maturazione in un paio di casi -, devo dire che una volta di più ho trovato che la nota distintiva dell'homebrewing sia la ricerca dell'originalità. A cominciare dalla prima, la weizen di Dario Gerdol (nella foto), dal peculiare aroma di banana conferito dal lievito; così come la Pale Ale di Luca Dalla Torre, con un profumo particolarmente intenso tra l'agrumato e l'erbaceo dato dai luppoli usati soltanto in aroma; o ancora la Belgian Strong Ale di Nicola Fiotti e del suo compagno brassatore - di cui, lo ammetto, non ricordo il nome -, dagli aromi dolci di liquore e di resina che si sprigionavano solo una volta "scaldato" bene il bicchiere; o l'Imperial Stout di Emiliano Santi e - anche qui non ricordo il nome, mi perdonerete -, in cui le note intense di cioccolato e di caffè si fondevano in modo encomiabile. Non era poi da meno la Real Ale di Walter Cainero, per quanto mi non abbia colpita altrettanto; e una nota di merito la riservo pure a Leopoldo che, pur essendo solo alla sua quarta birra da homebrewer, si è messo in gioco presentando delle bottiglie che, pur essendo fatte con il kit, evidenziavano comunque la volontà di incamminarsi con impegno su questa strada perché ha comunque cercato di utilizzare in maniera "personale" tutti i (pur esigui) margini di manovra che il preparato consente.
Alla votazione finale - fatta senza scopo di premiare, ma quasi a titolo di sondaggio - a raccogliere il maggior numero di voti è stato il "solito" Luca Dalla Torre: che ha scherzosamente rischiato una squalifica, perché "non puoi vincere sempre tu, almeno paga da bere". A sua giustificazione, c'è da dire in un certo senso l'aveva già fatto...
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