Il mio blog di avventure birrarie, descrizioni di birre, degustazioni, e notizie dal mondo della birra artigianale.
lunedì 31 luglio 2017
Il nuovo Garlatti Costa
Ho presenziato con piacere ieri sera all'inaugurazione della nuova sede del birrificio Garlatti Costa, in quel di Flagogna (sì, si è trasferito da Forgaria a Flagogna. Stesso comune, borgo sempre più piccolo, ma luoghi sempre deliziosi soprattutto d'estate). A dire il vero il birraio Severino si è spostato in questa sede già da qualche mese, ma per la festa del taglio del nastro ha atteso l'estate (nonché, dice lui, di avere tutto davvero perfettamente pronto). E in effetti c'è da dire che tra birra brassata per l'occasione, buon cibo, compagnia calorosa e musica dal vivo - nota di merito al gruppo che suonava -, la serata mi è apparsa ben riuscita.
La prima cosa che balza all'occhio visitando il nuovo capannone è che è stato preso decisamente...in crescita: per quanto Severino affermi - come avevo riferito nell'articolo scritto per il numero di giugno di Udine Economia - di voler rimanere su volumi di produzione contenuti (tra i 5 e i 600 ettolitri annui), gli spazi disponibili permettono di pensare ad aumentare anche significativamente il numero di fermentatori. Magari di pensare anche ad una tap room, o comunque ad uno spazio per degustazioni o momenti didattici? "Per ora no - ha affermato Severino -, intendo concentrarmi sulla quantità e qualità della produzione, perché naturalmente è questo il primo scopo dell'investimento fatto con il nuovo impianto e la nuova linea di imbottigliamento. Per un futuro più lontano non escludo nulla a priori; ma nell'immediato, almeno in quanto ad eventi, penserei piuttosto ad una serie di serate all'aperto come quella di stasera".
Il luogo in effetti si presta, data l'ampiezza del piazzale esterno e la felice collocazione geografica - zona di San Daniele, vicino al Tagliamento, gradevole temperatura serale anche d'estate. Estiva era anche la birra pensata per l'occasione - unica spillata da tutte le vie -, la Flag, una belgian blond ale assai semplice ed essenziale: delicata luppolatura floreale, tipica nota speziata del lievito belga che contraddistingue la mano di Severino (per quanto qui, coerentemente con l'impronta complessiva, rimanga abbastanza sobria), corpo snello pur con una lievissima nota maltata che a me ha ricordato il miele, e finale secco con un amaro erbaceo discreto ma netto. Meno caratterizzata di altre birre a marchio Garlatti Costa, ma comunque non banale.
Del resto Severino sta in questo periodo lavorando soprattutto sulla nuova linea di birre, la Funky: nell'intervista per Udine Economia le aveva definite come "pensate per fondere i classici stili belgi con quelli anglosassioni [...] caratterizzati dalla freschezza e facilità di beva"; e nella direzione della "facilità" va anche il progetto delle bottiglie 0,33 e della nuova componente grafica, che prenderanno piede con la nuova linea di imbottigliamento. Tra i progetti c'è poi anche quello di affiancare alla produzione dell'orzo per il malto, già avviata dal 2013 a Aonedis (a pochi km da lì, per chi non conoscesse la zona), l'avvio di un luppoleto sperimentale; dato che "questa zona del Friuli - ha affermato - grazie al clima piovoso ma non troppo umido, è particolarmente adatta alla coltivazione del luppolo".
Con piacere ho poi notato non solo la presenza di diversi birrai della regione, ma anche il clima cordiale e di festa che si respirava tra di loro: in tempi in cui la retorica dei "birrai tutti amici" e di un movimento birrario mosso esclusivamente da passione ed amicizia non basta più ad animare il settore, fa comunque piacere vedere questi momenti.
Un'ultima nota, dato che ieri sera è stata la mia prima uscita birraria dotata di pancetta visibile (anche se in questa foto a dire il vero, non essendo di profilo, non si nota) e quindi la notizia è ormai di dominio pubblico: a risposta dei dubbi di chi ha colto ultimamente un cambiamento nelle mie attività, annuncio che c'è un piccolo (o piccola) futuro appassionato di birra artigianale - dato che conto che cresca bene - in arrivo, che se tutto va bene sarà tra noi a metà gennaio. Continuerò comunque, dato che fortunatamente la salute è buona, la mia consueta attività di addetta stampa, di giornalista, e quella di conduzione di eventi e serate: pur limitando - per forza di cose - le degustazioni a piccoli assaggi, e riducendole nel numero. Insomma, conto che non riusciate a liberarvi di me nel breve termine, e che ci riusciate solo per poco.
venerdì 28 luglio 2017
Feste della birra con stand gastronomici, alias dove ti piazzo l'industriale
Sono stata ieri all'apertura della Festa della Birra Artigianale - questo il nome dell'evento stando a quanto pubblicizzato su media e social network - in piazza Venerio a Udine. Lo ammetto, la mia curiosità era piuttosto "perfida": nei comunicati diramati dalla società organizzatrice, la Flash Srl, si parlava anche di "Birra Moretti alla Toscana". Ohibò, mi sono detta: che succede? Se vado e trovo il cartellone della Moretti esposto in bella vista, potrebbe esserci di che divertirsi nel fare il leone da tastiera e sollevare polveroni. Scherzi a parte, l'interesse a capirci di più comunque c'era, se non altro per rispetto nei confronti del birrifici - quelli sì davvero artigianali - partecipanti: Sognandobirra, Diciottozerouno, Tazebao, Dr Barbanera, Zahre e Belgrano.
La prima cosa su cui mi è caduto l'occhio è stato il fatto che, all'ingresso della piazza, il cartellone parlasse semplicemente di "Festa della birra": la dicitura "artigianale" quindi non compariva più. E a ragion veduta, direi, perché ciascuno degli stand gastronomici serviva anche birra e anche non artigianale (no, il cartellone della Moretti in bella vista non c'era: però ho trovato ad esempio Ichnusa, gruppo Heineken; nonché Ottakringer, birrificio viennese certo storico, ma che non accomunerei agli artigianali). Per carità, gli stand gastronomici sono del tutto liberi di vendere anche da bere, ci mancherebbe. E allora però, coerentemente, parliamo di "festa della birra" in senso lato, non solo di quella artigianale.
Perché, se di festa della birra artigianale vogliamo parlare, allora credo siano necessari i dovuti accorgimenti: gli stand gastronomici servano solo cibo, e la birra venga servita solo dai birrifici - perché dopotutto, si presume, è per quello che gli avventori sono lì. Mettere di fatto in concorrenza, perché di questo si tratta, le spine di birra industriale con quella artigianale, non è rispondente a ciò che un evento del genere dovrebbe essere: e non perché il consumatore non sia comunque libero di scegliere quale birra acquistare, ma per il messaggio che un'iniziativa che porta questo nome dovrebbe lanciare.
Detto ciò, non vedo nel boicottaggio selvaggio di tutti quegli eventi - e sono diversi - in cui si ripropongono situazioni simili una strategia necessariamente utile: probabilmente si otterrebbe soltanto di danneggiare quei birrifici artigianali che vi partecipano, lasciando numeri ben più ingenti di persone che questa questione non se la pongono a dirigersi verso gli stand della birra più a buon mercato. Certo il consumo consapevole - acquistare il cibo da una parte, la birra dall'altra - può essere pure poca cosa: ma, vedendola sotto un profilo di realpolitik, è comunque un segnale costruttivo. Del resto, a sentire diversi birrai, anche per loro il boicottaggio non è sempre la soluzione giusta: più d'uno mi ha riferito di riuscire sia a vendere meglio (perché la baracca bisogna pur tirarla avanti) che a far apprezzare meglio il proprio prodotto proprio là dove si ritrovava a venire messo a confronto con un'industriale.
Un'ultima nota in chiusura: ho cercato ieri, senza successo, di parlare con qualcuno degli organizzatori (nessuno dei birrai ha saputo indicarmene tra i presenti), così da chiedere direttamente a loro spiegazioni della scelta. Naturalmente sarò felice se vorranno intervenire.
La prima cosa su cui mi è caduto l'occhio è stato il fatto che, all'ingresso della piazza, il cartellone parlasse semplicemente di "Festa della birra": la dicitura "artigianale" quindi non compariva più. E a ragion veduta, direi, perché ciascuno degli stand gastronomici serviva anche birra e anche non artigianale (no, il cartellone della Moretti in bella vista non c'era: però ho trovato ad esempio Ichnusa, gruppo Heineken; nonché Ottakringer, birrificio viennese certo storico, ma che non accomunerei agli artigianali). Per carità, gli stand gastronomici sono del tutto liberi di vendere anche da bere, ci mancherebbe. E allora però, coerentemente, parliamo di "festa della birra" in senso lato, non solo di quella artigianale.
Perché, se di festa della birra artigianale vogliamo parlare, allora credo siano necessari i dovuti accorgimenti: gli stand gastronomici servano solo cibo, e la birra venga servita solo dai birrifici - perché dopotutto, si presume, è per quello che gli avventori sono lì. Mettere di fatto in concorrenza, perché di questo si tratta, le spine di birra industriale con quella artigianale, non è rispondente a ciò che un evento del genere dovrebbe essere: e non perché il consumatore non sia comunque libero di scegliere quale birra acquistare, ma per il messaggio che un'iniziativa che porta questo nome dovrebbe lanciare.
Detto ciò, non vedo nel boicottaggio selvaggio di tutti quegli eventi - e sono diversi - in cui si ripropongono situazioni simili una strategia necessariamente utile: probabilmente si otterrebbe soltanto di danneggiare quei birrifici artigianali che vi partecipano, lasciando numeri ben più ingenti di persone che questa questione non se la pongono a dirigersi verso gli stand della birra più a buon mercato. Certo il consumo consapevole - acquistare il cibo da una parte, la birra dall'altra - può essere pure poca cosa: ma, vedendola sotto un profilo di realpolitik, è comunque un segnale costruttivo. Del resto, a sentire diversi birrai, anche per loro il boicottaggio non è sempre la soluzione giusta: più d'uno mi ha riferito di riuscire sia a vendere meglio (perché la baracca bisogna pur tirarla avanti) che a far apprezzare meglio il proprio prodotto proprio là dove si ritrovava a venire messo a confronto con un'industriale.
Un'ultima nota in chiusura: ho cercato ieri, senza successo, di parlare con qualcuno degli organizzatori (nessuno dei birrai ha saputo indicarmene tra i presenti), così da chiedere direttamente a loro spiegazioni della scelta. Naturalmente sarò felice se vorranno intervenire.
venerdì 21 luglio 2017
Tra birre e friselle
Pur con estremo ritardo, essendomi presa un periodo di ferie, eccomi a scrivere della mia trasferta marchigiana in quel del birrificio IBeer di Fabriano. L'occasione era l'assemblea annuale dell'associazione Le Donne della Birra, di cui faccio parte: sì è così unito il confronto tra professioniste del settore e progettazione della attività sociali con una parte - definiamola così - più goliardica, dedicata alla visita del birrificio e all'assaggio delle birre sia di Giovanna Merloni - la padrona di casa - che di altre socie.
Il birrificio ha sede in un vecchio fienile ristrutturato, dove è stata ricavata una sala degustazione arredata con gusto - banco, tavolini, poltrone, e vetrata con vista sulla zona produzione al piano inferiore; ed è stato quindi quello il luogo prescelto sia per la riunione che per la degustazione delle - numerose, dato il vasto e creativo numero di ricette elaborate da Giovanna - birre in repertorio.
Non mi soffermo sull'assemblea, invitandovi piuttosto - soprattutto le lettrici - a seguire le attività dell'associazione tramite il sito e la pagina Facebook; passo piuttosto direttamente alla fase successiva, e in particolare alle cena degustazione birra-friselle curata da Giovanna (per quanto ha riguardato le sue birre) e Francesca Borghi, "anima" di Ella Frisa Urbana (che non è solo un locale, ma un progetto più vasto, di cui trovate tutti i dettagli nel sito). A quattro friselle gourmet - tre salate e una dolce - sono quindi state abbinate altrettante birre.
La serata si è aperta con una #FrisELLA (così sono state battezzate) alla mousse di tonno, cipolla rossa di tropea e fior di cappero di Pantelleria abbinata alla saison Million Reasons. Mi sbilancio nel dire che è stato a mio parere l'abbinamento meglio riuscito, in quanto la speziatura della saison - peraltro in questo caso molto peculiare, data l'aggiunta del tè africano roiboos che dona anche una nota più dolce - faceva perfettamente il paio con la sapidità sia della mousse che del cappero.
In seconda battuta, la #FrisELLA con crema di fagioli, erba cipollina, capocollo da Martina Franca (presidio Slow Food), semi di papavero e fichi, accostata alla ale alla canapa St'Orta. Un insieme già di per sé costruito sui contrasti tra diverse sensazioni - dolce contro salato, la pastosità della crema e del fico contro la croccantezza della frisella -, per cui era giocoforza necessaria una birra versatile, ma "pulente" allo stesso tempo: e devo dire che la St'Orta, con il suo finale secco di un amaro erbaceo non troppo invadente, ha assolto bene al suo compito.
Terza creazione è stata la #FrisELLA con crema di pecorino, aringa e pomodoro confit: anche in questo caso sapori molto forti, da andare a bilanciare con una birra di carattere. Per quanto sia risultata sin troppo amara per i miei gusti personali, ho quindi trovato che la 1405 Ipa sia stata una scelta appropriata, pulendo con l'amaro netto e persistente la notevole sapidità.
Da ultimo, la #FrisELLA con mousse di ricotta vaccina, uva sultanina alla birra, spezie e fragola su crumble di frisa abbinata alla imperial stout Special One. Vabbè, si sa che dolci - specie se al cioccolato - e imperial stout tendenzialmente è la morte loro; in questo caso però si è voluto andare in cerca di qualcosa di un po' più complesso. Il gioco era infatti non tra la componente di cacao del dessert (che in effetti non ne aveva) e quelli della stout, ma piuttosto tra quelli dolce-caramellato-speziati del primo e quelli tostati, con leggera persistenza affumicata (si fa sentire delicatamente anche il dry hopping con foglie di tabacco cubano) della seconda. Anche qui insomma si è voluto puntare sull'armonizzazione della diversità e sulla ricerca di sapori del tutto peculiari - cosa che del resto è nelle corde sia di IBeer che di Ella Frisa Urbana.
Da non dimenticare infine che la cena è stata accompagnata dai formaggi, fichi e dalle marmellate dell'azienda agricola Agrilab - gentilmente forniti da Silvia Amadei, che nell'azienda agricola di famiglia produce anche la birra omonima - nonché dalle birre, oltre che di Agrilab, di Laura Nolfi con la sua Fiorile alla ccanapa, e le Ties di Valentina Russo.
Concludo con un ringraziamento a tutte le socie, in particolare a Giovanna che ci ha ospitate, Valentina, Silvia e Laura che hanno portato le loro birre, a Francesca e collaboratrici che hanno cucinato; nonché alla presidente Elvira Ackermann e alla segretaria Caroline Noel, che hanno organizzato e condotto l'assemblea. Senza voler cadere (e scadere) in considerazioni femministe che non mi appartengono, si è trattato di un'occasione per "fare rete" (al di là della vacuità di un'espressione purtroppo abusata) tra professioniste, riconoscendo anche alcune esigenze, sensibilità e peculiarità specifiche che l'essere donna impone in questo settore.
Il birrificio ha sede in un vecchio fienile ristrutturato, dove è stata ricavata una sala degustazione arredata con gusto - banco, tavolini, poltrone, e vetrata con vista sulla zona produzione al piano inferiore; ed è stato quindi quello il luogo prescelto sia per la riunione che per la degustazione delle - numerose, dato il vasto e creativo numero di ricette elaborate da Giovanna - birre in repertorio.
Non mi soffermo sull'assemblea, invitandovi piuttosto - soprattutto le lettrici - a seguire le attività dell'associazione tramite il sito e la pagina Facebook; passo piuttosto direttamente alla fase successiva, e in particolare alle cena degustazione birra-friselle curata da Giovanna (per quanto ha riguardato le sue birre) e Francesca Borghi, "anima" di Ella Frisa Urbana (che non è solo un locale, ma un progetto più vasto, di cui trovate tutti i dettagli nel sito). A quattro friselle gourmet - tre salate e una dolce - sono quindi state abbinate altrettante birre.
La serata si è aperta con una #FrisELLA (così sono state battezzate) alla mousse di tonno, cipolla rossa di tropea e fior di cappero di Pantelleria abbinata alla saison Million Reasons. Mi sbilancio nel dire che è stato a mio parere l'abbinamento meglio riuscito, in quanto la speziatura della saison - peraltro in questo caso molto peculiare, data l'aggiunta del tè africano roiboos che dona anche una nota più dolce - faceva perfettamente il paio con la sapidità sia della mousse che del cappero.
In seconda battuta, la #FrisELLA con crema di fagioli, erba cipollina, capocollo da Martina Franca (presidio Slow Food), semi di papavero e fichi, accostata alla ale alla canapa St'Orta. Un insieme già di per sé costruito sui contrasti tra diverse sensazioni - dolce contro salato, la pastosità della crema e del fico contro la croccantezza della frisella -, per cui era giocoforza necessaria una birra versatile, ma "pulente" allo stesso tempo: e devo dire che la St'Orta, con il suo finale secco di un amaro erbaceo non troppo invadente, ha assolto bene al suo compito.
Terza creazione è stata la #FrisELLA con crema di pecorino, aringa e pomodoro confit: anche in questo caso sapori molto forti, da andare a bilanciare con una birra di carattere. Per quanto sia risultata sin troppo amara per i miei gusti personali, ho quindi trovato che la 1405 Ipa sia stata una scelta appropriata, pulendo con l'amaro netto e persistente la notevole sapidità.
Da ultimo, la #FrisELLA con mousse di ricotta vaccina, uva sultanina alla birra, spezie e fragola su crumble di frisa abbinata alla imperial stout Special One. Vabbè, si sa che dolci - specie se al cioccolato - e imperial stout tendenzialmente è la morte loro; in questo caso però si è voluto andare in cerca di qualcosa di un po' più complesso. Il gioco era infatti non tra la componente di cacao del dessert (che in effetti non ne aveva) e quelli della stout, ma piuttosto tra quelli dolce-caramellato-speziati del primo e quelli tostati, con leggera persistenza affumicata (si fa sentire delicatamente anche il dry hopping con foglie di tabacco cubano) della seconda. Anche qui insomma si è voluto puntare sull'armonizzazione della diversità e sulla ricerca di sapori del tutto peculiari - cosa che del resto è nelle corde sia di IBeer che di Ella Frisa Urbana.
Da non dimenticare infine che la cena è stata accompagnata dai formaggi, fichi e dalle marmellate dell'azienda agricola Agrilab - gentilmente forniti da Silvia Amadei, che nell'azienda agricola di famiglia produce anche la birra omonima - nonché dalle birre, oltre che di Agrilab, di Laura Nolfi con la sua Fiorile alla ccanapa, e le Ties di Valentina Russo.
Concludo con un ringraziamento a tutte le socie, in particolare a Giovanna che ci ha ospitate, Valentina, Silvia e Laura che hanno portato le loro birre, a Francesca e collaboratrici che hanno cucinato; nonché alla presidente Elvira Ackermann e alla segretaria Caroline Noel, che hanno organizzato e condotto l'assemblea. Senza voler cadere (e scadere) in considerazioni femministe che non mi appartengono, si è trattato di un'occasione per "fare rete" (al di là della vacuità di un'espressione purtroppo abusata) tra professioniste, riconoscendo anche alcune esigenze, sensibilità e peculiarità specifiche che l'essere donna impone in questo settore.
giovedì 6 luglio 2017
Novità in casa Grana 40
Da tempo non avevo occasione di incontrare Emanuele Beltramini di Grana 40, né di assaggiare le sue birre; e l'occasione è arrivata quando mi ha annunciato di avere pronta per la commercializzazione la nuova white ipa (di cui già avevo provato un'anteprima un paio d'anni fa), la Mar Bianco, nonché importanti notizie in merito alla tanto agognata trasformazione da beer firm in birrificio. Diciamocelo: dopo diversi passaggi da un birrificio all'altro per fare le birre, un paio di progetti poi non concretizzatisi per avviare il proprio stabilimento, con conseguenti freni allo sviluppo dell'attività (tanto appunto che la Mar Bianco è arrivata soltanto ora sul mercato), ammetto che m'è scappato un "Chissà che questa sia la volta buona": fortunatamente ad Emanuele non manca l'ironia, e anche da parte sua la cosa è finita con una risata.
A parte gli scherzi, comunque, questa volta qualcosa di più concreto c'è. Emanuele e soci, dopo l'allargamento della compagine societaria (e anche qui ritorna quanto appena affermato nell'ultimo post, e giuro che l'ho scritto prima di parlare con Emanuele), hanno individuato nei pressi di Cividale del Friuli (Udine) il capannone in cui avrà sede il birrificio; capannone che peraltro ho avuto modo di vedere e che, date le notevoli dimensioni, sicuramente permetterà di pensare anche a qualcosa di più che al solo spazio dedicato alla produzione. I lavori sono in corso, ed è previsto che la cosa prenda forma definitiva nei prossimi mesi: non anticipo altro in quanto per ora si tratta unicamente di progetti, riservandomi di tornare sull'argomento una volta che il tutto sarà meglio definito. L'augurio, per il momento, non può essere che quello di cogliere al meglio quest'occasione per sviluppare appieno le potenzialità sia del birraio che di tutti i suoi collaboratori.
Siamo poi passati all'assaggio della Mar Bianco, definita in etichetta come white ipa - e da Emanuele più semplicemente blanche -, in quanto si tratta appunto di una base blanche a cui sono stati aggiunti luppolo Lemondrop e Denali (e del resto l'interesse per la sperimentazione con luppoli nuovi o inusuali è una delle caratteristiche distiintive di Grana 40). A dispetto della dicitura "ipa" nel nome, la componente agrumata e di frutta tropicale che caratterizza questi due luppoli rimane molto discreta all'aroma sotto la schiuma densa; e si amalgama con le leggere note speziate e di chiodi di garofano del lievito (nessuna spezia dichiarata in ricetta) e quelle di frumento tipiche dello stile senza sovrastarli: il che la rende del tutto identificabile come blanche, pur peculiare all'interno del genere. In bocca rimane in un primo momento evanescente, salvo poi ritornare in discreta forza con i toni di pane del frumento; e chiudere infine su un amaro leggermente citrico ma pulito e netto, pur non essendo particolarmente secca, senza lasciare persistenze agrumate. Nonostante abbia personalmente trovato lo stacco tra il corpo esile e il ritorno di cereale un po' troppo netto, la definirei una birra dissetante ed equilibrata, sia per come sono gestite le varie componenti dell'aroma che per la pulizia del finale.
Non ho invece potuto condividere la stessa impressione per l'ultima versione della blonde ale Mar Giallo, che al sorachi (originariamente usato in monoluppolo) accosta ora il luppolo sloveno styrian wolf: qui è infatti la frutta tropicale che caratterizza questa varietà (dal mango, alla papaya, al frutto della passione, all'ananas) ad imporsi nettamente in tutta la bevuta, dal naso, al palato, alla chiusura, lasciando in secondo piano le altre componenti. Personalmente l'ho quindi trovata troppo improntata su queste note; rimanendo comunque fermo il fatto che non vi ho percepito difetti e che, per gli appassionati del genere, sicuramente risulterà gradevolissima.
Ultima nota di merito va alla cucina e al servizio del Giona's, di cui anche questa volta sono rimasta soddisfatta con il "Percorso vegetariano" - pappa al pomodoro, patate alla tedesca, tortino di frittata con zucchine e timo, cordon bleu di melanzana con gorgonzola e cipollotti gratinati. Un grazie quindi al Grana 40 e al Giona's per la piacevole serata.
A parte gli scherzi, comunque, questa volta qualcosa di più concreto c'è. Emanuele e soci, dopo l'allargamento della compagine societaria (e anche qui ritorna quanto appena affermato nell'ultimo post, e giuro che l'ho scritto prima di parlare con Emanuele), hanno individuato nei pressi di Cividale del Friuli (Udine) il capannone in cui avrà sede il birrificio; capannone che peraltro ho avuto modo di vedere e che, date le notevoli dimensioni, sicuramente permetterà di pensare anche a qualcosa di più che al solo spazio dedicato alla produzione. I lavori sono in corso, ed è previsto che la cosa prenda forma definitiva nei prossimi mesi: non anticipo altro in quanto per ora si tratta unicamente di progetti, riservandomi di tornare sull'argomento una volta che il tutto sarà meglio definito. L'augurio, per il momento, non può essere che quello di cogliere al meglio quest'occasione per sviluppare appieno le potenzialità sia del birraio che di tutti i suoi collaboratori.
Siamo poi passati all'assaggio della Mar Bianco, definita in etichetta come white ipa - e da Emanuele più semplicemente blanche -, in quanto si tratta appunto di una base blanche a cui sono stati aggiunti luppolo Lemondrop e Denali (e del resto l'interesse per la sperimentazione con luppoli nuovi o inusuali è una delle caratteristiche distiintive di Grana 40). A dispetto della dicitura "ipa" nel nome, la componente agrumata e di frutta tropicale che caratterizza questi due luppoli rimane molto discreta all'aroma sotto la schiuma densa; e si amalgama con le leggere note speziate e di chiodi di garofano del lievito (nessuna spezia dichiarata in ricetta) e quelle di frumento tipiche dello stile senza sovrastarli: il che la rende del tutto identificabile come blanche, pur peculiare all'interno del genere. In bocca rimane in un primo momento evanescente, salvo poi ritornare in discreta forza con i toni di pane del frumento; e chiudere infine su un amaro leggermente citrico ma pulito e netto, pur non essendo particolarmente secca, senza lasciare persistenze agrumate. Nonostante abbia personalmente trovato lo stacco tra il corpo esile e il ritorno di cereale un po' troppo netto, la definirei una birra dissetante ed equilibrata, sia per come sono gestite le varie componenti dell'aroma che per la pulizia del finale.
Non ho invece potuto condividere la stessa impressione per l'ultima versione della blonde ale Mar Giallo, che al sorachi (originariamente usato in monoluppolo) accosta ora il luppolo sloveno styrian wolf: qui è infatti la frutta tropicale che caratterizza questa varietà (dal mango, alla papaya, al frutto della passione, all'ananas) ad imporsi nettamente in tutta la bevuta, dal naso, al palato, alla chiusura, lasciando in secondo piano le altre componenti. Personalmente l'ho quindi trovata troppo improntata su queste note; rimanendo comunque fermo il fatto che non vi ho percepito difetti e che, per gli appassionati del genere, sicuramente risulterà gradevolissima.
Ultima nota di merito va alla cucina e al servizio del Giona's, di cui anche questa volta sono rimasta soddisfatta con il "Percorso vegetariano" - pappa al pomodoro, patate alla tedesca, tortino di frittata con zucchine e timo, cordon bleu di melanzana con gorgonzola e cipollotti gratinati. Un grazie quindi al Grana 40 e al Giona's per la piacevole serata.
mercoledì 5 luglio 2017
Le fatiche di crescere
Sono due le notizie che in questi giorni hanno tenuto in fibrillazione il mondo birrario italiano: l'unione tra Toccalmatto e Caulier, e la cessione del 35% delle quote del Birrificio del Ducato a Duvel (per chi si fosse perso qualcosa, suggerisco le interviste e Bruno Carilli e a Giovanni Campari su Fermentobirra, e il commento di Andrea Turco su Cronache di Birra). Non mi soffermo sulle considerazioni già fatte da loro e da molti altri, in merito a se e in che misura questo possa rappresentare una minaccia per il mondo della birra artigianale; e che sviluppi futuri possa riservare (dato che i dettagli dell'accordo Toccalmatto-Caulier non sono ancora stati del tutto resi noti). Al netto della diatriba sul fatto che questi birrifici possano o meno definirsi ancora artigianali, c'è stato un aspetto in particolare che mi ha colpita.
Sia Carilli che Campari parlano in termini di "crescita obbligata", di insostenibilità economica della "media dimensione", di saturazione dei tradizionali canali di distribuzione - e fin qui è la conferma di quanto già emerso da una ricerca di MoBi -; ma soprattutto di difficoltà nel reperire risorse per crescere, impraticabilità del crowdfunding e di altri canali di credito (banche in primo luogo). Queste scelte quindi vengono presentate come unica via per garantire all'azienda la liquidità necessaria - e quindi in prospettiva la stessa attività del birrificio -, pur senza perderne il controllo. La domanda che mi è sorta è quindi: davvero il settore birrario italiano è in una fase in cui i birrifici sono destinati a trovarsi "alle corde" sotto questo profilo? Troppe volte sento parlare di birrifici che "sono piccoli, sì, ma sono così bravi, se solo investissero un po' potrebbero fare grandi cose, è un peccato...."; considerazioni a cui i birrai prontamente rispondono di voler rimanere piccoli perché il passo da fare sarebbe troppo lungo (in barba alle teorie secondo cui "troppo piccolo non è sostenibile"). O viceversa vedo birrai che, quando decidono di crescere, lo fanno in grande stile, cercando magari chi entri nella compagine societaria come finanziatore. Tutti aspetti non certo nuovi; ma che evidenziano come i birrifici italiani si trovino una sorta di "trappola asfittica" per cui sono costretti o a rimanere piccoli (per forza o per scelta, con tutto ciò che ne consegue nel bene e nel male), o viceversa a dover fare scelte anche non del tutto "ortodosse" pur di riuscire a proseguire il cammino intrapreso (anche qui, per scelta o per forza).
Se la lettura è corretta, è utile chiedersi come agire, perché la questione va oltre gli "impuntamenti ideologici" a cui alcuni in questi giorni hanno gridato. Una questione che sicuramente non può essere ignorata - e del resto non credo lo sia - da Unionbirrai: se è giusto e doveroso che l'associazione tuteli i birrifici artigianali attraverso una puntuale precisazione normativa (come notato da Andrea Turco), è altrettanto verso che il suo operato deve anche essere mirato a far sì che vengano rimossi quegli ostacoli che possono impedire ai birrifici - mi si permetta l'espressione - di "esercitare al meglio l'artigianalità" (penso ad esempio alle azioni che alcune associazioni di categoria fanno sul fronte della concessione del credito). Perché altrimenti la discussione su chi sia e non sia artigianale rischia di diventare un dibattito sì utile e legittimo, ma svuotato di una componente fondamentale del suo senso.
Intanto la cosa pare fare il paio con il lancio, da parte dell'americana Brewers Association, del logo "Birrificio indipendente": un marchio di cui potranno fregiarsi appunto i birrifici artigianali (secondo la definizione data dall'associazione) che "portano avanti la loro attività senza alcuna influenza da parte di altre aziende produttrici di bevande alcoliche che non siano anch'esse birrifici artigianali". Anche in questo caso è stato quindi messo in secondo piano l'abusato termine "craft", artigianale, (che pur compare nel logo, ma meno in evidenza), ormai travisato in mille modi; per preferire il concetto di "indipendente", che - afferma lo stesso comunicato - "ha vasta eco tra chi beve birra artigianale".
Insomma, che l'indipendenza (e non già l'artigianalità) sia "il nuovo must" è una notizia ormai non più tanto nuova; ma diciamo che arrivano sempre più tasselli a confermarla.
Sia Carilli che Campari parlano in termini di "crescita obbligata", di insostenibilità economica della "media dimensione", di saturazione dei tradizionali canali di distribuzione - e fin qui è la conferma di quanto già emerso da una ricerca di MoBi -; ma soprattutto di difficoltà nel reperire risorse per crescere, impraticabilità del crowdfunding e di altri canali di credito (banche in primo luogo). Queste scelte quindi vengono presentate come unica via per garantire all'azienda la liquidità necessaria - e quindi in prospettiva la stessa attività del birrificio -, pur senza perderne il controllo. La domanda che mi è sorta è quindi: davvero il settore birrario italiano è in una fase in cui i birrifici sono destinati a trovarsi "alle corde" sotto questo profilo? Troppe volte sento parlare di birrifici che "sono piccoli, sì, ma sono così bravi, se solo investissero un po' potrebbero fare grandi cose, è un peccato...."; considerazioni a cui i birrai prontamente rispondono di voler rimanere piccoli perché il passo da fare sarebbe troppo lungo (in barba alle teorie secondo cui "troppo piccolo non è sostenibile"). O viceversa vedo birrai che, quando decidono di crescere, lo fanno in grande stile, cercando magari chi entri nella compagine societaria come finanziatore. Tutti aspetti non certo nuovi; ma che evidenziano come i birrifici italiani si trovino una sorta di "trappola asfittica" per cui sono costretti o a rimanere piccoli (per forza o per scelta, con tutto ciò che ne consegue nel bene e nel male), o viceversa a dover fare scelte anche non del tutto "ortodosse" pur di riuscire a proseguire il cammino intrapreso (anche qui, per scelta o per forza).
Se la lettura è corretta, è utile chiedersi come agire, perché la questione va oltre gli "impuntamenti ideologici" a cui alcuni in questi giorni hanno gridato. Una questione che sicuramente non può essere ignorata - e del resto non credo lo sia - da Unionbirrai: se è giusto e doveroso che l'associazione tuteli i birrifici artigianali attraverso una puntuale precisazione normativa (come notato da Andrea Turco), è altrettanto verso che il suo operato deve anche essere mirato a far sì che vengano rimossi quegli ostacoli che possono impedire ai birrifici - mi si permetta l'espressione - di "esercitare al meglio l'artigianalità" (penso ad esempio alle azioni che alcune associazioni di categoria fanno sul fronte della concessione del credito). Perché altrimenti la discussione su chi sia e non sia artigianale rischia di diventare un dibattito sì utile e legittimo, ma svuotato di una componente fondamentale del suo senso.
Intanto la cosa pare fare il paio con il lancio, da parte dell'americana Brewers Association, del logo "Birrificio indipendente": un marchio di cui potranno fregiarsi appunto i birrifici artigianali (secondo la definizione data dall'associazione) che "portano avanti la loro attività senza alcuna influenza da parte di altre aziende produttrici di bevande alcoliche che non siano anch'esse birrifici artigianali". Anche in questo caso è stato quindi messo in secondo piano l'abusato termine "craft", artigianale, (che pur compare nel logo, ma meno in evidenza), ormai travisato in mille modi; per preferire il concetto di "indipendente", che - afferma lo stesso comunicato - "ha vasta eco tra chi beve birra artigianale".
Insomma, che l'indipendenza (e non già l'artigianalità) sia "il nuovo must" è una notizia ormai non più tanto nuova; ma diciamo che arrivano sempre più tasselli a confermarla.
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