Domenica 22 gennaio sono stati annunciati i vincitori del premio Birraio dell'Anno, promosso dal 2009 da Fermento Birra. Al di là delle dovute congratulazioni ai vincitori delle due categorie - Marco Valeriani del Birrificio Hammer per la categoria senior, e Connor Gallagher Deeks di Hilltop per gli emergenti - come per ogni premio sono da subito corse sui social, se non le polemiche, quantomeno le "osservazioni": cito qui, semplicemente per averla vista comparire sulla mia bacheca di Facebook, la discussione nata su Accademia delle Birre in risposta alla proposta del fondatore, Paolo Erne, di rivedere i meccanismi con cui il premio viene assegnato - così da compensare gli squilibri di rappresentatività che alcune regioni a suo avviso patiscono, e quelli che si creano tra birrifici molto piccoli e quelli più grandi.
Non entro qui nel merito della discussione, che peraltro è stata costruttiva nella misura in cui ha stimolato una serie di proposte - dalla giuria popolare, ad una giuria di birrai, ad un sistema misto di voto popolare, dei birrai e di altri esperti; certo è che per tutti i concorsi, non solo per Birraio dell'Anno, si pone non solo l'esigenza di rimanere "al passo con i tempi" - un regolamento "disegnato" su quella che era le realtà birraria anni fa potrebbe non essere più adatto a quella attuale - ma anche di mantenere il giusto equilibrio tra l'essere una bella manifestazione che riunisce operatori ed appassionati nel segno di una buona bevuta - il "bevi e un rompe er cazzo" di cui alcuni hanno fatto la propria linea guida - e l'andare a scandagliare in maniera tecnica la produzione dei birrifici. Senza contare la serie di "stilettate" che sempre segue l'assegnazione di un premio (perché, si sa, essere tutti d'accordo è difficile): dal ritenere che avrebbe dovuto vincere un birraio (o un birrificio, o una birra) piuttosto che un altro, alle critiche rivolte ad alcuni premi di essere diventati fenomeni "di cassetta" e macchine da soldi, in cui si vince se e solo se si riesce ad investire sia nella partecipazione in senso stretto (alcuni concorsi hanno quote di iscrizione non proprio modiche) che in distribuzione e marketing, o se si hanno certe conoscenze. Di qui la domanda: ma vale davvero la pena "accapigliarsi" per questi concorsi? Un titolo è davvero in grado di fare la differenza per un birrificio?
Ho avuto modo di parlarne con Simone Dal Cortivo de Il Birrone, Birraio dell'Anno 2014 (oltre che titolare di diversi altri riconoscimenti ottenuti per le singole birre). "Molto dipende da come l'azienda è posizionata - ha affermato Simone -. Nel mio caso, si può dire che è arrivato nel momento giusto: avevamo appena investito per rinnovare il birrificio, e questo ha dato una buona mano a spingere avanti e a consolidare la posizione. Certo è difficile dire quanto sia stato dovuto al premio e quanto alle innovazioni che abbiamo portato, però i risultati ci sono stati appunto perché il riconoscimento ha sostenuto il percorso che già avevamo avviato". Secondo Simone il premio è quindi uno strumento, e come tale dipende da come viene utilizzato: "La chiave è essere un minimo strutturati come azienda, sia sotto il profilo produttivo che distributivo, per essere presente sul mercato. Ho visto birrai vincere premi anche prestigiosi, e magari ritornare poco dopo ad un profilo più basso appunto per questo motivo". Insomma, benissimo i premi, ma quando arrivano bisogna essere pronti a cogliere l'opportunità che questi offrono; altrimenti costituiscono sì una gratificazione importante, ma con risvolti pratici limitati.
Un altro habitué dei podi è Gino Perissutti di Foglie d'Erba, Birraio dell'Anno 2011, e presenza stabile nel medagliere di numerosi concorsi; che, interpellato sulla questione, ha dimostrato di avere una quantità di cose da dire inversamente proporzionale ai suoi peli sulla lingua (si sa, i montanari sono gente che non la manda dire). "Ogni concorso va preso per quello che è, con pregi e difetti - ha affermato -. Non val certo la pena di stracciarsi
le vesti se non premiati, ma se iscriviamo le
birre ai concorsi un motivo ci sarà: da un lato la
volontà e curiosità di far valutare i propri prodotti da
degustatori qualificati,
dall'altro l'innegabile piacere di ricevere
un premio". In quanto al caso specifico di Birraio dell'Anno, Gino lo definisce "un concorso a sé, atipico
e con diverse contraddizioni. Non nego il
piacere di aver ricevuto tale riconoscimento e tanto meno la
gioia nel vivere un week-end coi colleghi (ed amici!) in occasione
delle premiazioni. Ma prendiamolo con le molle: se vinci non significa che tu sia per forza il più bravo. Ci
sono davvero molti birrai altrettanto capaci ed innovativi
che non riescono ad emergere, magari
perché lavorano in birrifici microscopici con scarsissima
distribuzione e non li conosce nessuno. Diciamo che è
inevitabilmente un concorso che scende a molti compromessi e che,
se non fosse stato trasformato in un vero e proprio evento,
sarebbe probabilmente nel dimenticatoio. La mia premiazione è avvenuta in un noto locale romano di
fronte a sì e no 30 persone, metà delle quali continuavano a bere
la propira birra incuranti del tutto. L'anno successivo arrivai
quinto, e in un noto locale milanese gli astanti saranno stati un
centinaio. Ora il tutto si è trasformato in
evento, organizzato molto bene, al Teatro Obihall di Firenze, e la
premiazione avviene davanti a migliaia di persone. Direi che
rende l'idea".
Se quindi gli organizzatori hanno avuto, onore a loro, la capacità di far crescere il premio, il vero problema a detta di Gino è "la solita dietrologia italica che spunta
ogni volta: se non vendi a Roma o Milano non vinci, se non sei
amico del tale blogger non ti fila nessuno, se non hai le birre
al tal pub o al tal evento sei fuori. No, semplicemente o fai
birre buone con una certa continuità o non le fai. O sei creativo
o non lo sei, o hai un certo comportamento con colleghi, addetti
ai lavori, pubblico, o non ce l'hai. Per il resto, se
accetti i meccanismi che fanno il premio in sé, ok, altrimenti liberissimi di non darvi
peso. E' anche un premio difficilmente
migliorabile: è e sarà sempre inevitabile che publican,
degustatori, blogger o quant'altro vengano influenzati dalle
simpatie verso un birraio col quale negli anni si instaura un
certo feeling o dallo scarso feeling con qualcun altro. Com'è
pressoché impossibile che le birre della gran parte dei birrifici
vengano assaggiate nei pub i cui gestori hanno diritto di voto per
più volte nell'anno, e con buona diffusione sul territorio
nazionale. Dunque, premio importante e gran bell'evento,
ma non diamogli troppa importanza". Anche riguardo ad altri concorsi, tra cui Gino cita Birra dell'Anno, "bella
atmosfera e bel concorso, anche qui con dei limiti. Se vinci non
significa che la tua birra sia la migliore d'Italia: semplicemente
lo è stata per quel lotto, per quella giuria, in quella settimana. Sarebbe bello e giusto che venissero valutati
lotti diversi, prodotti in momenti diversi dell'anno. Macome si
fa? Appunto: compromessi, tutto bello e tutto migliorabile. Sta
al singolo accettarlo e partecipare o non darci peso. Basta non scadere in bassezze tipo quelle di chi sosteneva che lo
scorso anno ha vinto un birrificio del centro Italia solo perchè
la birraia è donna ed era giusto inalzare le quote rosa in un
mondo comunque piuttosto maschile e maschilista, perchè davvero mi
vien da ridere. Le birre parlano: che sia davanti al cliente "x"
che non ne sa e non ne vuole sapere nulla, che sia al banco del
miglior pub d'Italia, o che sia altavolo di un giudice ad un concorso, o la birra è buona e piace o non lo è. Tutto qui".
Anche riguardo alle vendite, un premio "certo aiuta per qualche mese. Poi, è sempre
il mercato a determinarle. Conosco publican che se
ne fregano alla grande dei premi, e anzi ne diffidano forse
giustamente. Come ne conosco altri che
ti comprano solo per quello, convinti di non sbagliare. Opinioni,
scelte, idee. Tutto rispettabile. Per me è e dev'essere sempre
il prodotto a parlare, a prescindere da qualunque riconoscimento".
Da ultimo, un invito (al quale accosto, a titolo di buon auspicio, una foto di Gino con altri due birrai, Severino Garlatti Costa del birrificio omonimo e Costantino Tosoratti di Antica Contea): "Ora più che mai, piuttosto che
cercare complotti, fantomatiche caste o logge della birra
artigianale, disegni atti a creare nuove galassie luppolate ed
abbattere mostri sacri divenuti scomodi, porporrei piuttosto due
cose: remiamo tutti verso il riconoscimento della vera birra
italiana di qualità, che esiste ed è realtà concreta. Uniamoci,
piuttosto che dividere il poco che abbiamo costruito in questi
anni. Va bene Birraio dell'Anno, va bene Birra dell'anno, va
benissimo Unionbirrai. Partiamo da qui e facciamo capire chi siamo
e cosa facciamo. Di bello, etico e pulito. E, per finire,
godiamoci le nostre birre italiane senza darci troppo peso o
importanza. Relax, dont'worry and support you local (Italian)
Brewery!".