mercoledì 23 dicembre 2015

Birra e pesce, ovvero Samarcanda e Alto Gradimento

Rieccomi qui, dopo un lungo periodo di silenzio. I frequentatori di questo blog già conoscono la mia passione per il pesce, e per i relativi abbinamenti con la birra: argomento su cui già avevo avuto modo di scrivere in occasione della seconda cena organizzata dal birrificio-ristorante Sancolodi (chi se la fosse persa, legga qui). Così lunedì scorso ho colto l'occasione per prendere parte alla degustazione organizzata dal Samarcanda; che ristorante non è, ma ha coinvolto appositamente lo chef Luca David del ristorante Alto Gradimento di Grado.

La serata si è aperta con le praline di ricciole con olive taggiasche e pomodoro su crema di ricotta, accompagnate dalla Blanche La Fourquette. I generosi aromi di coriandolo e scorza d'arancia - personalmente ho sentito, insieme allo speziato del lievito, una leggera nota che mi ha ricordato l'anice - che ritornano anche nella breve persistenza, e il corpo fresco e abbastanza esile in cui invece ritornano i toni del lievito, ho trovato si abbinassero in maniera interessante al pesce nella misura in cui creavano una sorta di amalgama con la speziatura e l'arancio; più che un contrasto, un'unione di toni diversi.

Più complesso il secondo abbinamento, tartare di tonno con senape in grani unita a La Trappe Blond. Effettivamente, ero stata avvisata da Beppe: una belgian ale dall'aroma fruttato, in cui spiccano note alcoliche e quasi di miele nonostante il finale secco e moderatamente amaro, con la tartare non c'entra proprio un accidenti. Il trait d'union su cui cuoco e publican hanno voluto scommettere è la senape, che in effetti fa il suo lavoro: i sentori tra l'aspro e lo speziato vanno a "smorzare" - ma unendoli - sia l'acidulo del pesce che la complessa rosa di aromi e sapori della birra, per cui devo dare atto che si è trattato di un'intuizione indovinata.

Anche il terzo piatto era una sorta di "azzardo" sotto il profilo dell'abbinamento, gamberi katafi con salsa al curry accompagnati dalla ipa Hop Devil della Victory. Per quanto mi trovi ad ammettere candidamente che i gamberi erano così buoni che avrei dato fondo anche ai cartocci degli altri commensali - idem per la birra -, altrettanto candidamente ammetto di non aver "capito" l'abbinamento. L'aroma di frutta tropicale, così come il finale agrumato assai persistente, in effetti potevano offrire buona sponda alla speziatura del curry; eppure, personalmente, l'ho percepito come un contrasto che cozzava. Apprezzatissimi comunque sia i gamberi che la birra, che rispetto a molte altre ipa si distingue per una maltatura più ricca e rotonda al palato.

Il passo successivo è stato il baccalà mantecato con la polenta - servito a mo' di pallina di gelato, come vedete nella foto - con la doppelbock Speziator Hell di Riegele. Passando da un aroma intenso tra lo speziato e il floreale con una nota di frutta, al corpo robusto e rotondo in cui ho colto anche una punta di miele, fino al persistente finale erbaceo, la birra crea un contrasto indovinato con la delicatezza del baccalà e della polenta, pulendo al contempo il palato grazie al grado alcolico e al finale secco. L'abbinamento che, personalmente, credo di aver apprezzato di più.

Dulcis in fundo - letteralmente -, il bonet di cioccolato e caramello abbinato alla imperial stout Noctus 100 di Riegele. Complice il notevole grado alcolico - 10 gradi -, l'aroma ricorda quasi un misto di liquore al cioccolato e liquore al caffè, che si armonizzano poi nel corpo che rimane equilibrato, senza eccessi; così come senza eccessi è la persistenza, per quanto l'alcol sia discretamente presente. Classico e sempre apprezzato, naturalmente, l'accompagnamento ad un dolce del genere.

Mi sento di riservare un complimento allo chef, che è riuscito a preparare delle piccole delizie pur senza trovarsi nell'agio della sua cucina; nonché a tutto lo staff del Samarcanda per la scelta degli abbinamenti e per il servizio, con tanto di occhio di riguardo alla temperatura a cui le varie birre venivano servite - cosa non scontata, specie in serate frenetiche. Il passo successivo annunciato da Beppe è il "cambio campo", ossia una degustazione questa volta a Grado, in cui la scelta di birre e piatti sarà basata anche sulle opinioni dei partecipanti a questa priuma degustazione: non resta che attendere notizie.

lunedì 7 dicembre 2015

Alla guerra dei luppoli

Che tra i grandi dell'industria e i birrifici artigianali non corresse buon sangue è cosa nota; ma ora pare che in questa sorta di battaglia siano entrati gioco forza anche i pub. Complici qualche decina di amici in comune che hanno cliccato su "mi piace", è comparso sulla mia bacheca Facebook il post (che vede qui sotto) di Diego Vitucci, publican del Luppolo Station e del Luppolo 12 di Roma, che espone la sua risposta all'intimazione ricevuta dalla Carlsberg - da lui allegata, a prova del tutto - di ritirare la domanda di registrazione del marchio Luppolo Station (locale aperto nel marco di quest'anno) e di cessarne l'uso del marchio, in quanto "potrebbe erroneamente indurre l'utenza a ritenere erroneamente che i servizi di ristorazione recanti il marchio "Il luppolo" provengano da Carlsberg Italia Spa" - proprietaria del marchio Poretti, che si fregia della linea Treluppoli. Detta in parole povere: ai publican del locale viene addebitato il fatto di aver utilizzato un marchio già precedentemente registrato, violando la normativa in materia.

Nella sua risposta ci pensa Diego a tranquillizzarli sul fatto che è lui il primo, in quanto titolare di un locale che tratta birre artigianali, ad avere tutto l'interesse a che i clienti non vengano tratti in inganno; senza contare che è altresì "privo di ogni crisma giuridico e morale pensare di avere l'esclusiva sull'utilizzo della parola luppolo, che nient'altro è che uno degli ingredienti con cui si produce la birra". Rimane comunque il fatto di una richiesta quantomeno bizzarra, che al momento potrebbe avere strascichi in sede legale. Diego ha infatti spedito oggi la lettera di risposta, e non intende cedere di un centimetro.

L'ho raggiunto telefonicamente mentre era alla guida proprio verso il locale "incriminato":  "Ci hanno chiesto di sottoscrivere un impegno scritto a non utilizzare ipù il marchio, in quanto abbiamo aperto il locale dopo che la Carlsberg aveva registrato il marchio Treluppoli - racconta - : ma non hanno considerato che siamo gli stessi proprietari di un altro locale, il Luppolo 12, che ha aperto nel 2012, ossia un anno prima della registrazione del marchio su cui la Carlsberg ora fa leva" - che è infatti avvenuto, come si legge nella lettera, ad ottobre 2013. E allora che si fa, ribaltiamo le carte e fate voi causa alla Carlsberg? "Secondo me finirà in un nulla di fatto, una notiziola buona per un paio di post su Facebook - minimizza Diego -. D'altronde, solo qui a Roma sono una decina i locali che hanno la parola "Luppolo" nel nome, e chissà quanti altri ce ne sono in Italia: vogliono far cambiare insegna a tutti? Comunque, se manterranno la loro linea, anche noi siamo pronti a difenderci".

Sarà; ma intanto il popolo della rete si è scatenato. C'è chi teme che usando la parola "lievito" in etichetta sarà chiamato in causa dalla Bertolini, e chi attende il momento in cui la Poretti metterà in commercio la "12 Luppoli" per vedere che succede. Chissà se, citando Bakunin, basterà una risata a seppellire la Carlsberg.

Birra, canapa e panettoni: il Natale a Sauris

Nemmeno quest'anno ho mancato il consueto appuntamento con i mercatini di Natale a Sauris, che rimangono tra quelli che visito più volentieri. E non solo perché le bancarelle offrono sempre bei lavori di artigianato, prodotti locali e leccornie di vario genere - immancabile come sempre la pasticceria Mirandò, tra le cui novità c'era questa volta il tortino con ripieno di lamponi freschi: non dico "datemi una framboise" perché sovrapporre tono su tono sarebbe stato eccessivo, ma un lambic giovane sarebbe stato azzeccato - ; ma anche perché il birrificio Zahre ha in questi anni sempre incrementato la sua presenza all'evento. Nel cuore della zona dei mercatini c'è infatti un primo stand, a volte senza nessuno dietro al banco, ma con un omone lì davanti con una birra in mano che si lamenta: "Ma come, qua non c'è mai nessuno, è una vergogna, ma dove sono i titolari????". Peccato che uno dei titolari sia proprio lui, Sandro Petris, che dopo aver così fatto sorridere gli stupiti avventori si posiziona accanto alle spine pronto a servirli (nella foto: uno degli stupiti avventori, nel sole di mezzogiorno dopo un paio di birre, dotato di uno dei gadget a marchio Zahre).

Le birre sono sempre quelle classiche, e, come ha ammesso Sandro stesso, "Se le cambio non vengono più apprezzate allo stesso modo": difficile trovare un birrificio che in 15 anni di onorata attività ha mantenuto la stessa costanza nel prodotto e che si è sempre cimentato - con l'eccezione della più recente apa Ouber Zahre - nel campo più delicato delle basse fermentazioni. Le novità di quest'anno riguardano i prodotti, definimoli così, "collaterali": erano infatti ben esposti sul banco il panettone sia alla Rossa Vienna che alla Canapa, insieme ad una serie di altri prodotti alla canapa - dall'olio al muesli - realizzati in collaborazione con un'altra azienda agricola altoatesina - la Ecopassion - che la coltiva. Zahre conferma insomma di voler puntare sulla valorizzazione di questa pianta, che - ha ricordato Danila durante la visita guidata al birrificio, sulla quale mi soffermerò poi - a Sauris viene coltivata in un piccolo appezzamento vicino alla chiesa e tagliata, piantina per piantina, con le forbici: "Perché in pianura cresce fino a diventare alta e con un fusto più grosso, ma quassù a 1400 m rimane più piccola; e rimanendo più piccola, anche gli aromi sono più concentrati".

In effetti la birra alla canapa è forse l'unica, tra quelle di Zahre, che può definirsi a volte una sorpresa: perché, come confermatomi da Sandro, la naturale variabilità che c'è in natura tra un raccolto e l'altro di canapa va ad influire ancora di più rispetto a quella del luppolo, più facilmente controllabile con il dosaggio. Mi è capitato di sentire di volta in volta dominare aromi più vicini alle note floreali, oppure a quelle agrumate, o ancora (come ieri) a quelle arbacee, a seconda di come i profumi della canapa andavano a sposarsi con la luppolatura. Il tutto sempre secondo quella che è la linea sobria di Zahre, ossia di non calcare mai la mano né in amaro né in aroma e prediligere aromi eleganti a quelli pungenti: persino nella apa, che pur usa luppoli americani, non manca comunque il saaz a dare un tocco più delicato.

Dicevo quindi delle visite al birrificio, che in questi anni si sono fatte sempre più articolate e frequentate: domenica ho visto l'instancabile Danila condurre gruppi di visitatori in maniera praticamente continuata, il che conferma il crescente interesse non solo per la birra artigianale e per un suo consumo più consapevole e ragionato, ma anche per tutto il mondo che vi sta dietro. Naturalmente non è mancata la possibilità di assaggiare, e fare così "cultura della birra" in maniera completa - altro campo in cui la sensibilità dei birrifici è in costante crescita -; possibilità che in futuro sarà sistematica. Sono infatti in corso i lavori per l'allestimento di uno spaccio e spazio degustazione, in cui gli ex falegnami ora birrai Sandro e Max esprimono tutta la loro passione non solo per la birra, ma anche per gli arredi in legno: l'apertura è prevista tra la primavera e l'estate del 2016, e c'è da credere che non mancheranno i frequentatori.

Se non volete aspettare l'apertura dello spaccio, sappiate comunque che i mercatini sono aperti fino all'8 dicembre: occasione per unire una gita tra montagne pittoresche, all'acquisto dei regali di Natale fatto sostenendo l'artigianato locale, ad un buon bicchiere di Zahre.

venerdì 4 dicembre 2015

A scuola ai Mastri d'Arme

Seppure con ritardo (e scusandomene), complici anche le diverse domande che sto ricevendo in merito a come è andata, faccio un resoconto del corso di degustazione organizzato dalla Taverna ai Mastri d'Arme di Trieste, tenuto da due nomi di spicco nel mondo birrario italiano come Michele Galati - publican di The Dome di Nembro - e il "beertelller" - almeno così si definisce nel'attestato di partecipazione...- Andrea Camaschella (che vedete nella foto insieme allo staff dei Mastri). Quattro serate di cui la prima dedicata alle tecniche di spillatura e servizio, e le altre alla degustazione vera e propria - nell'ordine birre tedesche, inglesi e belghe.



La prima serata con Michele Galati è stata per me forse la più ricca di sorprese, nel senso che si tratta del campo in cui ne so meno. Se ci ha incuriositi il fatto che la lezione sia iniziata con il farci assaggiare dell'acqua - Acqua??????? No, dico, acqua??????? - da due bicchieri diversi, istruttivo è stato scoprire che si trattava non di due acque diverse, ma di acqua presa dallo stesso rubinetto e servita in un caso in un bicchiere sgrassato, e nel'altro in uno non sgrassato. Come in molte cose, insomma, la prima regola è la pulizia. Non meno interessante poi la panoramica sugli stili di spillatura, da quello "in tre colpi" alla tedesca a quello alla belga, per finire con quelo scherzosamente definito "all'italiana" - birra spillata in un colpo solo con la spina immersa nella birra: un'overdose di anidride carbonica, come testimoniato dal fatto che facendoci cadere dentro la spatola la birra è letteralmente "esplosa". Forse non un'operazione di formazione professionale, dato che non si trattava di un pubblico di futuri publican, ma senz'altro di sensibilizzazione: perché una birra servita male non viene apprezzata, rendendo un cattivo servizio al produttore, al cliente, e al mondo brassicolo in generale.

La serata dedicata alla birre tedesche si è aperta con un classico, la lager keller di Monchsambacher, abbinata - complimenti alla cucina, peraltro - ad uno gnocco di pane e salumi: "Una delle birre che meglio racconta la Franconia", nelle parole di Camaschella, con la sua storia di birre prodotte nelle fattorie e magari non tecnicamente perfette, ma espressione del territorio. Siamo poi passati alla Tipopils del Birrificio Italiano - abbinata ad un gambero avvolto nel lardo patanegra - per scoprire l'interpretazione nostrana di questo stile fatta da Agostino Arioli; e quindi ad un altro classico, la Rauchbier di Schlenkerla - dal corpo discretamente esile che viene però esaltato dall'affumicatura importante -, che si è espressa al meglio nell'abbinamento con il crostino al salmone. Da ultimo la Ritterguts Gose, in abbinamento con una mini wienerschnitzel: più citrica e meno acida delle gose che già mi era capitato di assaggiare, nonché con note di coriandolo più evidenti al naso, con una lieve astringenza finale che "sgrassa" il fritto della bistecca.

La serata dedicata alle birre inglesi ha invece spaziato dalla bitter ale Raw di Moor - "condita" non solo da fish&chips, ma anche dalla curiosa storia del birrificio raccontata da Andrea -, alla decisamente più complessa Backdoor Bitter di Orso Verde per esplorare l'interpretazione italiana, per tornare in Inghilterra con la Lagonda Ipa di Marble Beers - dalle note decise di pompelmo, e nettamente più secca di molte controparti americane dello stesso stile - per finire con la imperial stout di Wild Beer, in cui oltre all'aggiunta di vaniglia, caffè colombiano e cacao, Andrea ha fatto notare l'utilizzo di un blend di lieviti per accelerare la fermentazione e una leggera brettatura che esalta l'amaro.

Da ultimo la serata decisamente più impegnativa, almeno dal punto di vista alcolico: quella dedicata al Belgio. Una dotta dissertazione sulla storia brassicola delle campagne belghe ha fatto da preludio alla Saison d'Erpe Mère di De Glazen Toren, abbinata alle immancabili cozze con patatine fritte; seguita dalla tripel Calabian di Endorama in quota italiana - dal finale insolitamente secco per una tripel -, dalla dark strong ale Noir de Dottignies - che in quanto classico ha accompagnato la reinterpretazione di un altro classico della cucina belga, la carbonnade, di cui è stato servito un patè su crostini. Chiusura in bellezza con la Grand Cru Broucsella di Cantilon, abbinata a scaglie di grana su gelatina di rucola: come sempre stile poco abbordabile ai non adepti, ma un lambic morbido ed elegante come quello di scuola Van Roy è un buon punto di partenza.

Sia Andrea, che Michele, che lo staff tutto dei Mastri d'Arme, perdoneranno la sinteticità: concentrare in un testo di lunghezza agevolmente leggibile quattro serate così dense non è possibile se non per sommi capi. Un plauso comuqnue alla professionalità di tutti, da chi ha tenuto le lezioni, a chi ha servito. Nonché ai birrai che hanno fatto il mosto e ai lieviti che hanno fatto la birra, giusto per terminare alla belga...

martedì 1 dicembre 2015

Tutti i premiati del Luppolando


Tra gli homebrewers partecipanti c'era stata parecchia attesa: e finalmente lunedì 30 novembre al Samarcanda di Plaino si sono tenute le premiazioni del concorso Luppolando, quest'anno alla seconda edizione. Per la seconda volta ho avuto l'onore di far parte della giuria insieme al prof. Buiatti dell'università di Udine, e ai suoi collaboratori Paolo Passaghe e Stefano Bertoli: un'occasione sempre buona per imparare e confrontarsi, per quanto il più delle volte ci sia stata omogeneità nei giudizi e nei commenti fatti sulle birre valutate. Come spesso accade tra gli homebrewers, c'è stata una buona dose di sperimentazione: cosa magari delicata nel caso di un concorso, ma comunque un tratto distintivo di questo movimento di cui tenere conto anche nel giudicare.


Erano 23 le birre in concorso, e diversamente dello scorso anno non sono state le Ipa a farla da padrone: più gettonate di tutte sono state le Apa, a conferma del fatto che anche tra gli homebrewers le luppolature audaci stanno perdendo il loro fascino a favore di toni più sobri. Per il resto i concorrenti hanno spaziato dalle English Pale Ale, alle Tripel, alle Porter, alle Belgian Ale, alle birre di frumento nelle loro varie declinazioni.

Soltanto per le Apa è stato stilato un podio, mentre negli altri casi si è preferito ricorrere a menzioni in assenza o di un numero congruo di birre in concorso, o di almeno tre birre giudicate meritevoli di un riconoscimento. La medaglia di bronzo per le Apa è quindi andata a Dario Gerdol, quella d'argento ad Andrea Fracas e Michele Sambo – purtroppo ammalato, ma sono certa che il socio ha bevuto anche alla sua salute – e la medaglia d'oro a Fabrizio Gonano (nella foto). Presenti in forze quindi sia Accademia delle Birre che l'Associazione Homebrewers Fvg, che si dimostrano serbatoi di talenti nel mondo dell'homebrewing.

Stessa cosa può dirsi per un altro sia accademico che associato, Luca Dalla Torre (nella foto), che ai già numerosi riconoscimenti aggiunge la medaglia d'oro per la sua English Pale Ale; così come altro accademico e associato è Emiliano Santi, che ha ottenuto la menzione per la sua American Wheat.

Un'altra menzione anche per Andrea Fracas (nella foto) e Michele Sambo con la seconda birra che hanno portato al concorso, una black ipa – Cascadian dark ale, per la precisione ; e infine per Francesco Sordetti, che si è distinto per la sua Belgian Strong Dark Ale – uno stile meno diffuso tra gli homebrewers ma al quale, ha raccontato, si è appassionato proprio al Samarcanda con i consigli di Beppe.



Chiusa anche la seconda edizione, dunque, non resta che attendere la terza: per la quale Beppe ha già anticipato diverse novità, per cui l'invito agli homebrewers è a rimanere sintonizzati...

Grazie a Giuseppe Burello per le fotografie.

Dama Bianca, Ella e Deep Underground: dalle certezze assodate alle nuove scoperte

Ebbene sì, lo ammetto: una volta tanto, stranamente, non avevo voglia di uscire, nemmeno per bere una birra. Però si sa, un invito non si rifiuta; e meno male perché quella di venerdì scorso alla Brasserie si è rivelata una serata piena di sorprese. A dire il vero è partita con una vecchia conoscenza, la Dama Bianca di Antica Contea; che questa volta ho però provato per la prima volta in bottiglia. Superfluo dire che l'ipotesi migliore è berla da cask, con una carbonatazione meno pronunciata, come si addice alle pale ale (pardon, alle Ipa - Isonzo Pale Ale); interessante comunque una nota speziata all'aroma - quasi di zenzero, che non avevo mai notato prima -, insieme al floreale. Ho trovato poi più pronunciata anche la parte erbacea rispetto alla versione alla spina. Come sempre ad essere tragicamente esile è il corpo, tanto che nonostante la gradazione non sarebbe un problema finire una bottiglia da soli, con il finale secco e di un amaro delicato. Confermo ad ogni modo che la considero una delle migliori creazioni del Birrificio Antica Contea, per cui, per quanto non sia in bottiglia che dà il meglio di sé, sicuramente rimangono soldi ben investiti.

Dopodiché un nostro caro amico, il pluripremiato - ebbene sì, è un habitué del podio di diversi concorsi - homebrewer Luca Dalla Torre, ha tirato fuori - non dal cappello ma dalla borsa frigo - la sua ultima creazione, una pale ale in cui ha sperimentato il luppolo Ella in dry hopping. All'aroma emergono le note fruttate - e qui s'è aperta una dotta discussione: chi sentiva pesca, chi banana, chi mango, sembrava una scenetta in tema "chi la spara più grossa"....però sempre fruttato era -; tutti toni che tendono al dolce e che infatti introducono il corpo ben maltato, che nonostante una punta speziata lascia una persistenza tendente quasi al caramello e tutt'altro che secca - contrariamente agli usi di Luca. C'è da dire che, a onor del vero, a detta di Luca stesso una maturazione più lunga avrebbe giovato: rimane comunque una birra "ruffiana" e gradevole, che nonostante la preponderanza della parte maltata non è stucchevole e che l'Ella rende discretamente rinfrescante.

Per chiudere degnamente la serata Norberto ha stappato in anteprima uno dei futuri arrivi di casa Brasserie, la Imperial Deep Underground di Opperbacco. Con i suoi 9 gradi e mezzo e con l'aroma che sprigiona, basta annusarla per superare il limite legale per mettersi alla guida: si tratta di una ale scura un po' sui generis, che ai malti pale, pilsner e cristal wheat unisce special b., black, avena e generose (si direbbe, almeno all'assaggio) dosi di chocolate, nonché caffè puro e liquirizia in fine bollitura. Manco a dirlo, all'aroma fa un baffo a Lavazza e Illy messi insieme, tanto da mettere in ombra la pur robusta luppolatura - summit e dana, per gli intenditori. Il sottile gioco di equilibrio tra l'amaro da caffè e cioccolato fondente e quello del luppolo è comunque il filo conduttore in tutta la bevuta - non facile per quanto estremamente soddisfacente, dato il corpo importante e l'acol che si fa sentire soprattutto in chiusura -, insieme ad una punta di acidulo dei malti scuri. La persistenza è poi altrettanto robusta, ed è lì che il luppolo più di tutto emerge come "legante" tra amari diversi che i birrai - l'etichetta recita infatti "Collaboration beer Iume - Luigi - Loreto - hanno saputo ben dosare. Da bere a piccole dosi e con calma, per assaporarla appieno; e se quando ho proposto un birramisù Enrico ha gridato all'erresia perché "una birra del genere non si spreca così", rimango convinta che anche così esprimerebbe egregiamente le sue potenzialità...

martedì 24 novembre 2015

La lattina è più pop

Ieri Maurizio Maestrelli l'ha definita "la notizia del giorno", per quanto nell'ambiente birrario circolasse già da qualche tempo: il vulcanico Teo Musso ne ha combinata un'altra delle sue, lanciando la Baladin in lattina. Il nome è un programma: Baladin Pop, ossia "popular", ad indicare come l'intento sia quello di - cito dal sito di Baladin - "proporre una birra di grande qualità ma facilmente fruibile". Non l'ho ancora assaggiata, per cui vi posso dire semplicemente che viene descritta come una birra che presenta una "schiuma bianca e compatta" e "di colore dorato. La luppolatura a freddo  ̶  dry hopping  ̶  che utilizza luppolo in fiore qualità Mosaic e Cascade prodotto in Italia, le dona delicate note erbacee ben bilanciate con la parte maltata. Fresca al naso e in bocca, si completa con un finale secco e gradevole".

E fin qui le "note tecniche". Come di consueto quando si muove Musso, si è scatenata una ridda di commenti che va da "idea innovativa" a "sacrilegio, brucerete tutti all'inferno": c'è chi ricorda che la birra artigianale in lattina l'ha già lanciata Bad Attitude cinque anni fa e che quindi Baladin non può fregiarsi di essere il primo (per quanto, essendo Bad Attitude svizzero, può dirsi il primo in Italia); chi dice che la comprerà quantomeno per curiosità, e chi giura che non si abbasserà mai a tanto; chi accusa Baladin di pensare più al marketing che a fare buona birra e di essersi "venduto" alle ragioni del dio denaro, e chi non disdegna una mossa che va comunque ad allargare il mercato delle artigianali. Come spesso accade, insomma, Baladin o si ama o si odia, e poco giova ricordare che - almeno stando alle ricerche che ho fatto sugli articoli usciti all'epoca del lancio della Bad Attitude in lattina - in quel caso non si fosse sollevato un tale polverone ideologico.

Il primo nodo da sciogliere sta naturalmente nell'adeguatezza o meno della latttina - contenitore comunemente associato alla birra industriale - per rendere giustizia alla birra artigianale. Opinioni che ritengo qualificate, tra cui quella di Andrea Camaschella con cui ho avuto modo di discutere in proposito, dicono che, con la tecnologia attuale, la lattina non va a pregiudicare i sapori ed aromi della birra: "Anzi, rispetto alla bottiglia offre alcuni vantaggi, come il fatto di non lasciar passare la luce", ha osservato Camaschella - nonché quello di essere sigillata, aggiungo io, dato che mi è capitato di vedere anche tappature mal riuscite. Purché non si beva la birra direttamente dalla lattina facendosi un'overdose di anidride carbonica che anestetizza le papille gustative, ma la si versi in un bicchiere, la lattina parrebbe quindi non avere controindicazioni di questo genere.

Resta dunque la questione marketing o non marketing, "purismo" o non purismo. Diciamocelo: il cultore della birra artigianale difficilmente diventerà un consumatore regolare di birra in lattina. Forse la acquisterà per curiosità, o perché quando va a fare la scampagnata gli viene più comodo metterla nella borsa frigo rispetto alla bottiglia: ma i modi e i luoghi della degustazione per questa fascia di mercato sono in massima parte diversi dall'aprire la lattina sul divano davanti alla tv - perché il vero cultore della birra artigianale, stesse anche guardando la finale di Champions, comunque si stapperà la bottiglia e la verserà a dovere nel bicchiere adeguato e alla temperatura giusta. Per cui, se la mia analisi è corretta - e non ho la presunzione che lo sia - significa che ad avere qualcosa da temere non sono tanto i birrifici artigianali quanto quelli industriali, perché la Pop Baladin andrebbe a rivolgersi a quella fascia "media" che questi ultimi stanno corteggiando con le varie "crafty" regionali e millemila luppoli. Quindi, fatta salva l'opinione che ciascuno può avere in merito alla birra artigianale in lattina, difficilmente sposterà qualcosa per i birrifici artigianali e in particolare per quelli più piccoli, che spesso vivono di una cerchia di appassionati che la Pop Baladin comunque non toccherà. Se questa cerchia si allargherà perché la Pop Baladin porterà al mulino delle artigianali in bottiglia o alla spina un segmento più vasto di mercato, è tutto da vedere; la questione più interessante che mi pare si stia sollevando è però la formazione di questo "mercato medio", perché la sua evoluzione si sta ponendo come nodo cruciale per il mondo della birra in senso lato.

venerdì 20 novembre 2015

Parte da Trento l'accisa un po' meno nera, parte seconda

Qualcuno di voi avrà forse letto il mio post dello scorso 25 settembre in cui parlavo della mozione presentata dalla Lega Nord in Consiglio comunale a Trento, per l'applicazione dell'accisa agevolata ai microbirrifici; e oggi ho avuto modo di fare una chiacchierata al telefono con il consigliere Devid Moranduzzo (nella foto), da cui la proposta è partita. "Ho presentato questo documento dopo aver parlato con l'ex vicesindaco di Pavia, Matteo Marnaschi - ha raccontato -, che aveva preso qusta iniziativa pochi mesi prima a Pavia. Dato che in questo momento i microbirrifici sono in crescita anche in Trentino, così come il consumo di birra artigianale, mi è sembrato giusato portare il documento in aula per abbassare i costi sia ai produttori che ai clienti".

Moranduzzo assicura che non è mancato il confronto con i birrai della provincia, che hanno - naturalmente - accolto con favore il provvedimento; ma il limite di 650 hl non è troppo stringente? "Se avessimo posto una soglia più alta, il rischio era quello che la mozione venisse bocciata - ha osservato -; per cui, d'accordo anche con i produttori, siamo partiti così, per poi vedere quali potranno essere eventuali margini di intervento in futuro".

Già, perché le intenzioni, anticipate già a settembre, sono quelle di portare la mozione prima in Consiglio provinciale e poi alle due Camere, fino al Parlamento europeo - il testo si richiama appunto ad una direttiva comunitaria, la 92/83, che all'articolo 4 prevede la possibilità per gli Stati membri di applicare aliquote di accisa diversificate in base alle dimensioni del birrificio: con la soglia però di 200.000 ettolitri. A che punto siamo dunque? "Siamo riusciti a far passare la mozione, che pur proviene dal centrodestra, in due comuni guidati dal centrosinistra, Trento e Pavia: il che è già un buon risultato. Ora il testo è allo studio del nostro unico consigliere provinciale, che sta lavorando per far sì che risulti più incisivo a livello locale e riuscire a ridurre l'accisa quanto più possibile".

Insomma, pur con le tempistiche della burocrazia italiana, l'impressione è quella di tanti piccoli tasselli che si stanno muovendo: basti ricordare la proposta di legge avanzata da Unionbirrai e Cna lo scorso febbraio direttamente ai deputati, che prevedeva quattro aliquote di riduzione dell'accisa (del 50% per chi produce fino a 5000 ettolitri annui, del 40% fino a 10.000, del 30% fino a 20.000 e del 20% fino a 40.000) nonché il calcolo di questa non sul mosto ma sulla birra effettivamente commercializzata. Chissà che prima o poi, se si mettono insieme nel modo giusto abbastanza tasselli, si riesca a fare il puzzle.

mercoledì 18 novembre 2015

Alla corte di re Teo

Lo so, ho parafrasato il titolo di un precedente post - "Alla corte di re Michal" -; ma anche se il piccolo castello di Piozzo non è imponente come quello di Zvikov, l'impressione è più o meno la stessa. Visitare Casa Baladin, poi la birreria "dove tutto è iniziato", quindi l'ex pollaio ora diventato bottaia, e infine il birrificio, significa entrare davvero nel "regno" di Teo Musso: cosa che ho fatto domenica scorsa, approfittando del fatto di trovarmi nella vicina Cuneo. La visita è un vero e proprio "Teo show", date le notevoli doti istrioniche del fondatore - che del resto in gioventù ha girato anche con un circo -; e per quanto mi sia ritrovata scherzosamente a definire questo suo modo di fare "manifestazione di un ego debordante", è altrettanto vero che le idee buone nella vita le ha avute - eccetto, per sua stessa ammissione, quella di aprire una discoteca sui pattini a Strasburgo - e che è proprio questo suo stesso "ego debordante" a renderlo una delle "celebrità birrarie" più amichevoli e coinvolgenti che mi sia capitato di conoscere.

La visita - che Teo ha definito "liturgia eucaristica" dato che si svolge ogni domenica alla stessa ora della messa, "e poi io e il prete ci troviamo per vedere chi ha avuto più gente" - è partita da Casa Baladin, l'edificio settecentesco che Teo ha trasformato in un ristorante con camere: arredato con gusto e colore, offre cene degustazione con piatti abbinati alle birre Baladin. Ci siamo quindi spostati nella birreria, dove Teo ha raccontato la sua storia - ormai è rodato, usa sempre più o meno le stesse parole; però risentendola se ne coglie ogni volta un dettaglio diverso . Già che ci sono, i visitatori possono prenotare per pranzare lì alla fine del tour, in quello che era un ex cortile ed ora è coperto da un tendone da circo: tra possibilità di alloggio, di pranzare e di cenare, il "pacchetto turistico" così è completo. Sul palco del locale si sono tenuti circa 4000 concerti in meno di trent'anni (quindi una media annua di 133,3 periodico per la precisione): riesce quasi difficile credere che Teo sia riuscito a portare così tanti artisti in questo paesino di mille abitanti, in ossequio alla sua passione per la musica dal vivo.

Seguendo il tracciato del birrodotto con cui Teo portava le birre dalla sala cotte situata nella birreria all'ex pollaio dei genitori dove teneva i fermentatori, siamo arrivati in quella che oggi è la bottaia; e lì abbiamo assaggiato una Xyauyù del 2010, affinata in botti di rhum Caroni (zuccherificio di Trinidad che ha prealtro chiuso nel 2002, quindi stiamo parlando di un pezzo di storia). Confermo, una volta di più, che si tratta uno dei barley wine secondo me meglio riusciti, per quanto preferisca la versione Fumé che esalta meno il dolce. Infine ci siamo spostati al birrificio, che Teo conta di rendere energeticamente autosufficiente nel giro di pochi anni: tra fotovoltaico, recupero del calore delle cotte per il riscaldamento del magazzino per la rifermentazione in bottiglia, la strada è ben avviata. Del resto, si sa che Teo una ne fa e cento ne pensa: oltre ai grandi progetti per festeggiare i vent'anni del birrificio - di cui ho parlato in questo post - mi ha anche raccontato che la prossima primavera il Baladin Cafè di Cuneo verrà trasferito in un nuovo edificio più centrale di 1200 metri quadrati. Nei suoi progetti questo dovrebbe ospitare anche uno spazio in cui gli aspiranti birrai potranno fare la propria cotta, lasciarla nei fermentatori, e tornare poi a ritirarla: una prosecuzione ideale del progetto Open, da lui lanciato qualche anno fa, per mettere in comune le ricette tra birrai.

La visita si è naturalmente coclusa con l'acquisto di qualche bottiglia - nonché di teku, il bicchiere disegnato da Teo e Kuaska, di cui è stata appena presentata la versione 3.0 -, e con l'immancabile dotta dissertazione di Teo sul vecchio tema dell'opportunità o meno di chiamare la birra "artigianale" e della sua preferenza per la definizione "birra viva", che intende rilanciare. Da Piozzo però, più ancora che la birra o il ricordo del bel giro con Teo, mi porto a casa il fatto di aver visto una visione "imprenditoriale" di un birrificio nel senso più vasto possibile: che abbraccia l'aspetto turistico, agricolo, della ristorazione, delle energie alternative, e chi più ne ha più ne metta. Cosa che naturalmente, come tutti i grandi progetti e le grande visioni, può risultare controversa per alcuni: ma a cui va riconosciuto di aver comunque mosso un mondo, e probabilmente spinto molti birrai a chiedersi che cosa vogliano veramente dalla loro attività.

martedì 17 novembre 2015

In trasferta a Cuneo

Uno degli inviti che con piacere ho onorato è stato quello di Elio parola, deus ex machina - come il sito stesso del locale lo definisce - del Baladin Cafè di Cuneo, a visitare la "succursale cittadina" (chiamiamola così, dato che Piozzo è a pochi km dal capoluogo di provincia) del noto birrificio. L'occasione era il festival Scrittoincittà, di cui il Baladin ospitava alcuni dei ben 176 incontri (nella foto vedete il concerto del gruppo funk Link Quartet, con letture da scritti di Bukowski dell'attore Francesco Mastandrea).


Tra i tanti appuntamenti - consentitemi la breve digressione in proposito - ho seguito quello tenuto appunto da Elio con la blogger Jeanne Perego, autrice di www.insalatamente.com (nonché di diversi libri di ricette e consigli di ogni genere su come preparare, condire e gustare le insalate). Mi permetto di precisare che non stiamo parlando di "quattro foglie di lattuga sbattute lì", cosa che, secondo la stessa Jeanne, "non è un'insalata, è una tristezza": ma di piatti anche elaborati, che sotto al denominatore comune di essere serviti freddi uniscono verdure, carne, pesce, vari tipi di cereali, semi, e molto altro ancora, il tutto condito - è il caso di dirlo - in maniera originale. Manco a dirlo, mi sono trovata a parlare con lei anche di possibili abbinamenti tra le sue insalate e le birre: ed è appunto alle birre e alla cucina del Baladin che vengo ora.

Il locale ha una decina di spine, dedicate non solo alle Baladin, ma anche ad alcune birre "ospiti". Elio ci ha quindi fatto iniziare la serata con la Wee Heavy (una scotch ale: ho scoperto che questo è il nome di una particolare "famiglia" di questo stile, guarda te non si finisce mai di imparare), prodotta da Baladin su ricetta di David Serrano e Oscar Pujol della birreria spagnola Eth Refugi. Per quanto al naso non offra grandi aromi, i malti torbati e affumicati si fanno sentire in forze una volta messo in bocca il primo sorso, accompagnandosi alle note di caramello e liquore prima di chiudere con un deciso sentore alcolico, accentuato anche dalla carbonatazione abbastanza elevata. Undici gradi e sentirli tutti, dato il corpo piuttosto importante, ma apprezzattissimi.

Dato che era ora di cena, siamo passati ad ordinare piatti e birre. Premessa: cenare al Baladin Cafè è affar serio. Non vi basterà ad esempio ordinare un hamburger, dovrete anche decidere se lo volete di manzo piemontese, di pezzata rossa valdostana o di chianina, e con che cottura; nonché con quale serie di formaggi e salumi tipici dei territori di cui sopra lo volete eventualmente accompagnare. Al di là dell'ironia, come da filosofia Baladin, tutto ciò che passa nel piatto ha un suo perché e una sua storia, tanto che lo stesso menù si definisce "della biodiversità": per cui dai marchi d'origine, ai presidi Slow Food, alle sezioni speficificatamente dedicate a vegerariani e vegani, tutto è curato e definito nel dettaglio.

Mio fratello non si è fatto sfuggire la tagliata piemontese, mentre io ho preferito provare la tartare di tonno con songino e melograno (che vedete sopra). Avevo pensato di abbinare una blanche, ma la Isaac già la conoscevo; così Elio mi ha consigliato la Open White, la witbier del progetto Open Baladin. Per essere una birra di frumento è decisamente limpida, e su tutti gli aromi - dall'arancia al coriandolo - spicca nettamente la radice di genziana, aggiunta in dry hopping. Una presenza floreale importante che si mantiene anche in bocca lasciando una senzazione dolce al palato, per poi chiudere sullo speziato come da stile. Una birra fresca e dissetante, adatta a chi è in cerca di qualcosa che non sia "la solita blanche" - ma d'altronde si sa che la reinterpretazione è una delle cose che gli italiani sanno fare meglio.

Ho chiuso con la Super Tramp, una ale scura con nocciole delle Langhe. Ed è proprio la nocciola a risaltare via via di più all'aroma da sotto il denso cappello di schiuma man mano che la birra si scalda, spiccando su più generiche note di frutta secca. Note che si mantengono anche nel corpo ribusto amalgamandosi con il malto, con un risultato finale che per certi versi mi ha quasi ricordato alcune stout, apparendo nell'insieme quasi tostato. Il tutto accompagnato anche da una leggerissima punta di acido da malto, sia al naso che in chiusura. E qui chiudo io, riservando una nota di merito ad Elio e a tutto lo staff per la cortesia, il calore e la professionalità; perché, se si mangia e si beve cibo e birra di qualità in un posto in cui si sta bene, lo si fa più volentieri.

lunedì 16 novembre 2015

Un altro ritorno da Sancolodi

Le serate degustazione organizzate dal "brew restaurant pizzeria" - come ho avuto a definirlo - Sancolodi lo scorso anno avevano riscosso numerosi consensi (chi se le fosse perse, clicchi qui e qui per farsi venire l'acquolina in bocca e l'arsura alla gola); e più di tutte è stata un successo, almeno in termini numerici, quella di venerdì 13 (alla faccia della scaramanzia) novembre, a cui hanno partecipato più di cento persone (nella foto mi vedete nel locale insieme all'accademico Adriano Munarini, che ringrazio per questa e l'ultima foto). Novità rispetto alle precedenti è stata la presenza di altre birre artigianali italiane - di BiRen e Garlatti Costa -, che si sono alternate a quelle della casa.

La serata si è aperta con la kriek della casa, di cui avevo già parlato in questo post - e che nella foto vedete in fase di lavorazione- abbinata a formaggi di malga e speck artigianale; seguita da un antipasto di purea di patate di Rotzo (che ho scoperto essere certificate PAT, produzione agroalimentare tradizionale, dall'altipiano di Asiago) e ragù di fagianella abbinato alla Brown Sugar, una ale di personalissima elaborazione della casa. Alla base di malto pils sono stati infatti aggiunti malto torbato, orzo arrostito e fiocchi di frumento, con luppoli tedeschi dai torni erbacei molto delicati. Il risultato è una birra che nel'aroma esalta meglio la parte caramellata; mentre nel corpo e in chiusura sono il torbato e il tostato, a cui l'amaro del luppolo si amalgama in maniera quasi indistinguibile, a farla da padroni. Ottima con le patate, giusto per la cronaca, che essendo "neutre" vanno ad amalgamarsi a questo sapore.

Con il primo, un risotto ai gamberi e funghi, è invece arrivata la Charlotte del BiRen: una weizen che si distingue tra le altre per gli aromi particolarmente intensi di frutta e di banana, che preludono ad un corpo dall'altrettanto intensa presenza dello speziato da lievito con punte di chiodi di garofano. La chiusura acidula la rende particolarmente adatta ad accompagnare i gamberi, mentre l'ho trovata cozzare un po' con i funghi; apprezzatissimo comunque l'insieme.

Ad aprire la serie dei secondi è stato il vitello ai funghi con la Ginger, altra creazione peculiare dei fratelli Sancolodi, presentata in una nuova ricetta. Alla base di cereale usata per la blanche - frumento, avena e segale - sono stati aggiunti quasi 4 kg di zenzero per l'aromatizzazione, insieme a pepe, bucce d'arancia e anice stellato. Novità dell'ultima cotta è stato l'uso del lievito d'abbazia che, esaltando i toni più caramellati e di crosta di pane (oltre che queli alcolici) va a rendere molto più delicata la speziatura: personalmente ho apprezzato, anche perché il buon bilanciamento tra le componenti fa sì che il contrasto tra questi due poli non sia spigoloso, complice l' "acidulo dolce" del cereale che fa da legante. La carne dell'ottimo vitello, poi, essendo sufficientemente delicata da non sovrastare la rosa di sapori e aromi, fa ottimamente il paio.

E' stata poi la volta di un grande classico, la Liquidambra di Garlatti Costa, accompagnata alla braciolina di maiale selvatico cotta nella stessa birra con nocciole e patate spadellate. Una belgian tripel che di certo, nonostante le note fruttate e caramellate al naso, non annoia nemmeno chi predilige l'amaro, data la chiusura erbacea e secca parecchio persistente. Una chiusura che fa sì anche nel complesso la parte dolce non risulti eccessiva nell'abbinamento con la braciola di maiale, già di per sé "impegnativa" in quanto a corpo.

Da ultimo un altro pezzo forte di casa Sancolodi, la oatmeal stout Guilty, in abbinamento alla torta al cioccolato e arance caramellate. Se già avevo considerato "la morte sua" - passatemi l'espressione triviale - lo sposalizio con il tonno alle nocciole, devo dire che anche questo non fa una grinza: il notevole acido da cereale in chiusura - che crea un curioso contrasto con la morbidezza data dal 40% di avena - va ad accompagnare l'arancia, mentre le intense note di caffè fanno il paio con la cioccolata. Una stout dalla chiusura decisamente amara per il genere (con luppolatura continua di East Kent Golding), che la rende adatta ad accompagnare i dolci senza che l'insieme risulti stucchevole.

Non mi resta che chiudere ringraziando tutti i partecipanti e soprattutto i fratelli Sancolodi, che hanno voluto darmi fiducia nell'affidarmi la conduzione della degustazione; oltre a confremare come sempre di saper offrire non solo birra e cibo di qualità, ma anche un ambiente accogliente e piacevole e un servizio professionale.

giovedì 12 novembre 2015

Una serata Campestre...più "ragionata"

Mentre fioccavano le notizie sui premi che i birrifici italiani si sono aggiudicati al concorso European Beer Star di Norimberga - 12 medaglie, un record per il nostro Paese, che si piazza terzo seppur a lunga distanza dopo le 64 della Germania e le 38 degli Usa -, io molto più prosaicamente e goderecciamente ieri sera ero in Brasserie alla degustazione di birre del Campestre con abbinamenti gastronomici. Per quanto già conoscessi le birre del Campestre - trovate i link ai precedenti post cliccando sul nome di ciascuna -, ho ugualmente partecipato volentieri perché, si sa, quando l'abbinamento è fatto bene, il cibo valorizza la birra e la birra valorizza il cibo.


Ho iniziato con la golden ale Aurora, abbinata ad una torta salata alle verdure. I profumi che nella scheda vengono descritti come "di fiori e resina", e che personalmente ho trovato arrivare addirittura a note mielose data l'importante presenza del cereale, accompagnano poi la bevuta anche al palato sposandosi prefettamente con il peperone, verdura preponderante nella quiche (ottima peraltro, brava Matilde); la chiusura abbastanza evanescente, poi, invoglia ad un altro sorso e un altro boccone, in un vero e proprio circolo (vizioso o vituoso, decidete voi) di "uno tira l'altro". 

Continuo comunque a sostenere che il birraio Gulio (presente alla serata) sia riuscito ad esprimersi al meglio nella Rurale, sempre una golden ale, ma con un generoso dry hopping dai toni acri ed erbacei che - per quanto io apprezzi toni meno amari - dà a questa birra una sorta "impronta" che la contraddistingue da altre dello stesso genere. L'abbinamento era questa volta con mozzarelle in carrozza; per quanto l'abbinamento con i formaggi - in tutte le loro declinazioni: Enrico e Giulio proponevano quelli a pasta molle o anche il frico, ma personalmente oserei anche con qualcosa di più stagionato e salato - ho trovato che la lunga e intensa persistenza amara cozzasse con il fritto (anche se io contro il fritto ho il dente avvelenato un po' a prescindere, per cui potrei essere accusata di scarsa imparzialità). 

Già che c'ero ho quindi provato la Rurale anche con l'accompagnamento successivo - pensato per la Soresere - , ossia polenta con ricotta salata siciliana. Mi è sembrato che si abbinasse meglio, ma devo dire che lo sposalizio perfetto era appunto quello con la Soresere (che ho avuto modo di apprezzare meglio che a Gusti di Frontiera, essendo ora giunta alla giusta maturazione): una birra ambrata dalle note tra il tostato e il caramellato, con addirittura qualche nota liquorosa, che anche se sulla carta non avrei mai accompagnato a polenta e ricotta salata è stata invece una rivelazione da "contrasto che si armonizza" - perdonate la definizione forse ossimorica. Il cereale della polenta e la sapidità della ricotta si uniscono infatti non solo al finale tostato della Soresere, cosa decisamente più intuitiva, ma anche a quelle di caramello e frutta secca creando un passaggio rapido ma che non cozza tra sapori diversi. 

Da ultimo, Giulio e Matilde ci hanno omaggiato della porter Scur di lune, per chiudere con una birra che può in qualche modo definirsi un sostituto del dolce e del caffè: un degno finale alla serata, con tanto di complimenti sia a chi ha brassato che a chi ha cucinato.

mercoledì 11 novembre 2015

Una birra in esclusiva: la Pearl Harbor

Beppe e Raffaella del Samarcanda mi avevano annunciato già qualche tempo fa che era in elaborazione, tra loro e il birrificio Maccarello di Bibione, una birra in esclusiva per il locale; e siccome alla curiosità non si comanda, ieri sera mi sono diretta vreso Plaino. La birra in questione è stata battezzata Pearl Harbor, ed è illustrata con dovizia da una lavagnetta posta non lontano dalle spine: già da lì si capisce che unisce tradizioni diverse: quella tedesca sul fronte dei malti - eccezion fatta per il maris otter - e quella americana per quanto riguarda i luppoli - e qui invece fa eccezione il sorachi. Non volendo giudicare a priori se l'idea potesse essere buona o se si trattasse di un'eresia, non mi è rimasto che assaggiare.


Il contrasto tra queste due anime, in effetti, si conferma in pieno. All'aroma risaltano i toni tra il floreale e il fruttato dei luppoli tanto da far pensare a una pale ale, ma una volta messo in bocca il primo sorso, arriva una dolcezza da cereale tendente addirittura al miele che ricorda quasi le ale belghe - pur con un corpo meno robusto, tanto da risultare estremamente beverina nonostante i sette gradi alcolici. In chiusura ritornano i luppoli di cui sopra, e l'amaro del sorachi in particolare che dà una chiusura abbastanza secca; oltre a un profumo di miele che risale una volta svuotato il bicchiere, esaltato dalla temperatura più alta. In conclusione la definirei una birra per chi, pur cercando qualcosa che venga incontro ad un largo spettro di gusti in quanto a semplicità e delicatezza, apprezza comunque quella nota di sorpresa data dal contrasto tra la parte maltata e quella luppolata; che forse potrà far storcere il naso a qualche purista, ma che è coerente con la volontà di elaborare qualcosa di nuovo.

martedì 10 novembre 2015

Tra pompelmo e pepe


Lo scorso fine settimana ho fatto un rapido passaggio al Good, manifestazione tra il culinario e l'enogastronomico che si tiene in fiera a Udine. Al di là di alcune curiosità degne di nota, come i dolci della tradizione goriziana dell'azienda De Stabile - su tutti i pasticcini di pasta di madorla con ripieno di gubana -, nonché i prodotti della fattoria sociale Ronco Albina - che impiega persone con difficoltà fisiche o sociali, ottenendo devo dire ottimi risultati in termini di marmellate, biscotti e affini - ho trovato anche alcuni birrifici. C'erano i già noti Sante Sabide, San Giorgio, Zahre e Tazebao; nonché Città Vecchia, che esibiva il bottiglione da due litri della sua birra natalizia San Nicolò in confezione regalo (edizione limitata, gli interessati si affrettino) - il che può a buon diritto essere inserito tra le curiosità scoperte al Good, direi.

Da ultimo ho trovato la Birra di Meni; ed ho quindi colto l'occasione per provare l'unica che mi mancava delle classiche, la blanche Dreon. Da sotto il cappello di schiuma spumoso, come d'ordinanza nelle birre di frumento, sale un profumo di agrume particolarmente spiccato che si amalgama a quello del coriandolo e del pepe: e proprio il pompelmo fresco e il pepe, mi ha infatti spiegato Giovanni, vengono aggiunti nel mosto, e si fanno sentire in piena forza. Al palato questi toni diventano più gentili, fugando i timori di chi potrebbe aspettarsi una semi-radler (sacrilegio!) o uno strano intruglio che finisce per far tossire; ma ritornano a gran voce in chiusura, conferendo da un lato una nota particolarmente fresca e dissetante con l'agrume, e dall'altro una sferzata secca e piccante discretamente persistente che farà la gioia di chi ama le speziature. Personalmente la trovo una birra che si apprezza meglio in abbinamento ad un piatto ancor più che da sola, accompagnandola per contrasto a cibi non speziati - altrimenti l'insieme risulterebbe eccessivo: la apprezzerei con una carne bianca, un filetto di pesce, o un risotto con i gamberi. Un'ulteriore conferma che Meni, pur senza far mancare una serie di birre "pulite" e semplici ben fatte, sa giocare abilmente anche con sapori abbastanza arditi e stupire senza strafare.

lunedì 9 novembre 2015

Fiera Birra pordenone, la seconda giornata del secondo weekend

La seconda giornata di Fiera nel secondo weekend è stata per me assai più impegnativa, se non altro perché Davide - che vedete nella foto insieme al suo compagno d'avventura - sembrava aver preso come missione quella di farmi ubriacare alla dieci del mattino, colto dall'entusiasmo per la bontà delle creazioni del Birrificio Della Granda (Davide, lo sai che sherzo, suvvia. In effetti non erano le dieci, era mezzogiorno). Su suo consiglio ho iniziato dalla Sirena, una white ipa che colpisce già all'olfatto per la rosa di profumi tra l'agrumato e il floreale dati dalla ricca luppolatura - cascade su tutti, ha precisato Davide. Il corpo, pur non troppo robusto, rende comunque giustizia al cereale con i toni tra il dolce e l'acidulo del frumento, per chiudere infine con un agrumato secco da pompelmo che, mi sono trovata ad ammettere, non ho mai sentito in nessun'altra birra.  Tanto di cappello dunque per come il Della Granda ha saputo mettere insieme senza fare pasticci il meglio di una ipa con il meglio di una birra di frumento; e manco a dirlo, pochi giorni dopo la Sirena si è aggiudicata il Cretificate of excellence al Brussels Beer Challenge.

Mi era però rimasta la curiosità come avevo scritto in questo post, di assaggiare la Celtic Erik di Cervogia, beerfirm che si appoggia al Della Granda. Nella foto vedete il bicchiere appunto accanto ad una pianta di erica, fiore che dà l'aromatizzazione a questa ale ambrata insieme alla mirra. Sia al naso che al palato l'erica si fa sentire in forza, tanto che ho scherzosamente affermato che annusare il bicchiere o la pianta era la stessa cosa (vabbè, quasi); il che, se da un lato va ad aggiungersi sul fronte del dolce alla presenza importante del malto - essendo peraltro una single malt -, viene parzialmente bilanciato dai torni più resinosi della mirra in chiusura. Nel complesso l'ho trovata una birra molto dolce e forse un po' sbilanciata sui toni floreali; certo piacerà molto a chi invece predilige questo genere di sapori. Davide mi ha fatta poi concludere con ben altro genere, la black ipa Balck Hop Sun: un tripudio di aromi e sapori tra il cioccolato e il caffè, con una presistenza amara ben netta e forte che contrasta e sposa allo stesso tempo i sapori precedenti risultando del tutto abbordabile e gradevole anche a chi il luppolo lo ama sì ma con cautela. Seconda nota di merito al Della Granda, dunque, quantomeno per ipa e affini - nonché per la mia personale opinione.

Ho poi nuovamente fatto visita agli amici del Birrificio di Quero, di cui ho provato la portabandiera della casa, la Pils: su cui non ho molto da dire non perché non sia buona, ma perché può essere considerata un classico esempio "da manuale" del genere, liscia, pulita e senza fronzoli. Constatazione che, come qualsiasi birraio vi confermerà, non ha assolutamente nulla di denigratorio: piuttosto il contrario, in quanto si tratta di uno stile tutt'altro che facile a farsi pur nella semplicità del risultato finale.

Altro tour de force degustativo è stato quello fatto allo stand di Birra del Borgo, che non ho potuto mancare dato che ha ottenuto il titolo di birrificio dell'anno da Unionbirrai. Ho iniziato con la Morning Rush, una ale tra il biondo e il ramato che il buon Matteo mi ha spiegato essere contraddistinta dall'hop deck, ossia l'aggiunta di luppolo in fiore - cascade coltivato a Modena, per l'esattezza - nel mosto. La luppolatura è in effetti particolarmente morbida e si amalgama con il malto, crando un gioco tra note quasi mielose e altre più tra il floreale e l'agrumato date dal cascade. Di seguito sono passata alla CastagnAle, una bock con il 20% di castagne affumicate, coriandolo e buccia d'arancia: manco a dirlo, l'aroma è una girandola di profumi, che pur facendo spiccare l'affumicato della castagna - anche al palato - non tradisce nemmeno note più speziate. Da ultimo la MyAntonia, che tanto mi avevano decantato: una imperial pils che, pur senza voler stupire, si distingue al'interno del genere per la luppolatura particolarmente generosa.

Non ho mancato nemmeno un saluto alla Compagnia del Fermento, che distribuisce la Weiherer Bier di Kundmuller, accolta come sempre con calore da Antonia: da segnalare, per gli interessati, il "parco birre biologiche" (passatemi il termine) brassate dalla casa, tra le quali mi permetto di segnalare la Urstoffla - una lager rossa dai toni quasi di mou all'aroma, per poi virare sulla frutta secca.


Da ultimo il Birrificio Estense di cui ho provato una novità (almeno per me), la Rue de l'Eglise: una lager bionda che però Samuele si è affrettato a definire "strong lager", essendo particolarmente corposa sul fronte dei malti e presentando una rosa di aromi più complessa rispetto ad altre lager - dal floreale all'erbaceo. Estremamente beverina nonostante gli otto gradi e i toni forti, complice il finale secco e un buon bilanciamento al'interno della complessità a cui accennavo.

Naturalmente questi sono solo alcuni dei birrifici presenti, e non me ne vogliano gli altri: si fa quel che si può, anche in termini di degustazioni...