lunedì 28 novembre 2022

Un'incursione in quel di Carrù

 

Chi bazzica nell’ambiente birrario ha molto probabilmente sentito parlare del marchio Birra Carrù: e in questo senso forse aiuta, ancor più che l’ampiezza di distribuzione delle sue birre o la longevità di apertura – è partito nel 2011 come beerfirm, per arrivare a produrre in proprio nel 2017 –, la “vulcanicità” del fondatore e mastro birraio, Lelio Bottero, assai attivo nell’ambiente. Le birre non sono comunque solo opera sua: tiene sempre a precisare che questo è un affare di famiglia, dato che ad affiancarlo nel lavoro di mastro birraio c’è la moglie Lorella, in amministrazione e ad occuparsi delle visite al birrificio c’è la figlia Paola, e a capo della comunicazione la figlia Marianna.


Sono quasi una ventina, tra fisse e stagionali più le versioni senza glutine, le birre che escono dai fermentatori di famiglia; in cui a mio avviso si riconosce la filosofia non solo di fare birre facili a bersi, ma anche di dare interpretazioni “semplici” di stili sulla carta più complessi – non solo quindi evitando caratteristiche come luppolature o speziature molto intense o aromatizzazioni sopra le righe, ma più in generale rimanendo molto sobri tout court. Ho avito modo di degustarne 14 e non vi tedierò descrivendole tutte, soffermandomi su quelle che in qualche modo mi sono sembrate più significative e indicative del modo di lavorare di Carrù.


Tra queste senz’altro la Apa Battagliera, dalla schiuma e pannosa ben persistente. Per quanto, coerentemente con lo stile, a dominare all'olfatto siano gli aromi di frutta tropicale, viene resa giustizia anche al cereale sia all'aroma che in bocca - con un tocco di pane fresco ad equilibrare la componente luppolata, senza essere invasivo né pregiudicare la bevibilità. Versatile, può andare incontro ai gusti sia dei patiti del luppolo, sia di chi sostiene che birra e tisana di luppolo siano due cose diverse.


Da segnalare anche la red Ipa Via Ripa: schiuma pannosa ben persistente, ramata; gradevoli le note di nocciola al naso e la maniera in cui si amalgamano con la luppolatura agrumata e resinosa. Scorrevole in prima battuta, fa cogliere solo poi la fugace pienezza biscottata del cereale. Dico "fugace" perché la componente maltata non persiste, viene immediatamente tagliata da un amaro erbaceo-resinoso discretamente robusto sul finale secco. A livello del tutto personale, forse manterrei un maggior equilibrio tra la forza di questo taglio amaro finale e la dolcezza del malto, appunto molto fugace; ma comunque si intuisce che la volontà nel costruire la ricetta era appunto quella di dare più forza all'amaricatura come si conviene ad una Ipa.


Da una zona come le Langhe non possono poi non arrivare anche delle Iga, tra cui la Manico Rosso – con mosto di moscato su base Red Ale. Al naso esibisce profumi di caramello, nocciola e frutta rossa ben amalgamati; poi un corpo ben pieno e biscottato, ma straordinariamente bevibile anche grazie alla frizzantezza. Il mosto rimane nelle retrovie ma poi si fa vivo, comunque discreto e ben armonizzato, più percepibile al salite della temperatura. Interessante anche la speziatura sul finale, che unita al nocciola-biscottato ricorda quasi certe dubbel. Secca nonostante la dolcezza complessiva, soddisferà chi ama le Iga incentrate sul malto più che sulla componente del mosto. In questo senso l’ho apprezzata di più rispetto alla sua “sorella” Niimbus, sempre Iga di moscato ma questa volta su base di ale chiara, in cui i toni quasi mielosi del cereale e quelli del vitigno tendono a rimanere più distinti alla percezione.


Spicca per la buona riuscita della costruzione anche la 41 Dì, ale alla castagna garessina: schiuma da cappuccino, aroma tra l’arrostito l’affumicato che accompagna la bevuta al palato, elegante e ben amalgamato con la base caramellata, non aggressivo. Corpo caldo e avvolgente ma scorrevole, finale corto a beneficio di bevuta. Sulla stessa filosofia la H.P., ale rossa con con zucca aggiunta in succo ottenuto da centrifuga. Conferma l'impronta già constatata nelle altre birre di Carrù: è e rimane una ale rossa, non un centrifugato, in cui la zucca si amalgama bene e con equilibrio con i toni arrostito-biscottati del malto - quasi a dare l'impressione che la zucca sia arrostita - e l'amaricatura finale evita persistenze dolci che la zucca può dare. Da precisare comunque che personalmente mi piace la zucca e quindi non trovo fastidioso il fatto che la si colga distintamente, per cui è verosimile che ad altri palati possa viceversa risultare un po' sbilanciata verso il frutto.


Esempio di che cosa si intenda per interpretazione non sopra le righe anche di birre fuori canone può essere considerata la Splanga, ale al farro definita “medievale”. Al naso presenta aromi floreali e di cereale "grezzo", ben armonizzati. Il corpo scorrevole fa arrivare la peculiarità del cereale in seconda battuta, ben percepibile, su toni dolci di miele; equilibrati però da una chiusura amara che comunque contrasta ma non cancella il cereale – rimanendo quindi nel complesso dolce. Pur rimanendo una sui generis in cui si nota che c'è dell'altro oltre all'orzo, non risulta qualcosa di “eccentrico”.


Da menzionare infine le birre senza glutine – di cui è in qualche modo paladina la più giovane di casa, Marianna, che si definisce “un colmo vivente” in quanto “figlia celiaca del mastro birraio”: lineari e pulite, a conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che quella della deglutinazione con enzimi è una tecnologia matura e consolidata ormai da tempo.


Chiudo con un ringraziamento a Lelio non solo per le birre, ma anche per le interessanti chiacchierate e confronti costruttivi non solo sulle birre che ho trovato particolarmente “indovinate” e che ho descritto sopra, ma anche su quelle che mi avevano suscitato qualche perplessità; a conferma di come ci sia sempre reciprocamente da imparare.