venerdì 31 luglio 2020

Tra terme e Sbilf

La seconda tappa del mio giro in Carnia è stato ad Arta Terme al birrificio Dimont, attivo da poco più di un anno. Anche in questo caso, all'origine non c'è un homebrewer: sono stati infatti sette soci, tutti provenienti da altre esperienze nel settore dell'industria alimentare, che hanno dato vita ad un nuovo progetto imprenditoriale.

Mi si permetta una digressione. Sarebbe ipocrita negare che, nel mondo della birra artigianale, casi simili non sono sempre visti di buon occhio: per quanto sia opinione comune che i tempi dell'abile homebrewer squattrinato che avvia un birrificio animato dal solo sacro fuoco della passione siano ormai passati (o che si tratti quantomeno di rare eccezioni), è altrettanto vero che le esperienze di imprenditori che hanno fatto un investimento in questo senso non sapendone nulla (o almeno sino ad allora) di birra non sempre si sono rivelate felici (dagli screzi con i mastri birrai, a risultati discutibili sotto il profilo qualitativo per andare incontro a gusti veri o presunti del largo pubblico o per tagliare i costi, fino ai danni d'immagine dovuti ad affermazioni che rivelavano la loro scarsa conoscenza della birra). Insomma, ovvio che se uno apre un'azienda vuole e deve fare utili, ma se questo proposito non è accompagnato da un reale interesse per il prodotto e per il contesto in cui è inserito prima o poi i nodi vengono al pettine.

Se il fatto di mettersi in gioco in prima persona vale come prova del reale interesse di cui sopra, va riconosciuto che in questo caso c'è stato: quattro dei sette soci sono infatti direttamente attivi in azienda, di cui uno - proveniente sempre dal lievito, verrebbe da osservare, dato che ha lavorato a lungo in una nota azienda di prodotti da forno - che si occupa appunto di fare la birra affiancato da un consulente e da un altro socio. Anche la profonda conoscenza del settore beverage, derivante dalla precedente esperienza nel settore vinicolo di Piero Totis - che si occupa del marketing - è un altro fattore che gioca a favore di Dimont. Insomma, non siamo di fronte al caso di qualcuno che ha semplicemente messo i soldi e poi preteso un ritorno dell'investimento, ma di di imprenditori che sulla base di una solida esperienza (pur non birraria) alle spalle hanno intrapreso questa strada con impegno.

La filosofia di Dimont è quella di fare birre che, pur senza rinunciare alla caratterizzazione, risultino facilmente bevibili e vadano incontro ai gusti di una larga platea. Elemento di base per il legame con il territorio è l'acqua del monte Cabia, che sgorga poco lontano; e che ha ispirato anche il nome stesso ("di mont", in friulano, significa "di montagna"). Scelta degna di nota sotto il profilo tecnico è quella di passare tutte le birre in maturatore per avere un risultato più "pulito", indipendentemente dallo stile; e di imbottigliare in isobarico.

Secondo punto di legame con il territorio è quello di abbinare ad ogni birra in etichetta uno "sbilf" (alcuni esemplari nella foto accanto), i folletti bonariamente dispettosi della montagna friulana, che - secondo la leggenda - si divertono a fare scherzi agli uomini: così alla lager chiara è stato abbinato lo sbilf Gjan (quello più amichevole, secondo la storia); alla Pils lo sbilf Licj (che si diverte a scucire i vestiti); alla Weizen lo sbilf Pavar (amante della natura); alla ale ambrata lo sbilf Bagan (goloso di panna e cjarsons, tipico piatto locale); e alla ipa lo sbilf Braulin (che si diverte a fare nodi).

Venendo quindi nel dettaglio alle birre, devo ammettere che mi sono trovata a definirle "ruffiane": non nel senso dispregiativo del termine, ma nel senso che - come da filosofia di cui sopra - "vogliono piacere"; e andare incontro ad una clientela più vasta possibile in virtù o della semplicità che le rende adatte a tutti, o di un elemento che stupisca (e che "non possa non piacere"). In birrificio ho assaggiato per prima la Weizen: fondamentalmente in stile, ma sobria sulle note più "spigolose" del genere (come possono essere gli aromi fruttato-speziati o l'acidulo del frumento) e più leggera di corpo rispetto alla media. Poi sono passata alla Ipa, che viceversa tende a stupire data la luppolatura resinosa ed agrumata ben evidente, adeguatamente sostenuta dal corpo tostato. In un secondo momento ho provato la Gjan, in ossequio al principio per cui è sulle lager chiare che "si capisce" un birrificio: aroma floreale molto discreto, forse quasi troppo per i miei gusti, ma coerente con il corpo snellissimo in cui in cereale scivola agevolmente e un amaro finale appena percepibile. Insomma, torniamo alla filosofia della "birra per tutti", senza fronzoli né caratterizzazioni particolari, a cui va riconosciuta la pulizia d'insieme centrale e apprezzabile in uno stile come questo.

Dimont dispone di un impianto da 12,5 hl e tre fermentatori da 30 hl. La potenzialità è di 3000 hl annui; ma per ora, ha riferito Piero Totis, il birrificio punta ad una crescita lenta e progressiva, curando da un lato la costanza nel risultato delle ricette già elaborate e dall'altro l'allargamento della distribuzione soprattutto nel canale Ho.Re.Ca. In linea con il principio della territorialità, infine, il birrificio sta anche valutando l'ipotesi di utilizzare in futuro materie prime friulane. Ma non solo: "Mi piacerebbe creare una rete qui in Carnia - ha spiegato Piero - per creare un'immagine complessiva del prodotto e del territorio in sinergia: penso a progetti come le terme della birra, o i formaggi - altro prodotto tipico - alla birra".

Un grazie a tutto lo staff di Dimont per la calorosa accoglienza.

giovedì 30 luglio 2020

La birra del calciatore

Approfittando di alcuni giorni di ferie, nonché dell'ispirazione che mi ha dato il Carnia Craft Beer Bike Tour - chi non sapesse di che cosa si tratta può leggerlo qui - un paio di settimane fa mi sono recata appunto in quel della Carnia per visitare un paio di birrifici dove, nonostante la distanza relativamente breve, non ero mai stata.

La prima tappa è stata a Enemonzo al birrificio Casamatta, gestito dal giovane (poco più che trentenne, per l'esattezza) Andrea Menegon. Andrea arriva da un percorso diverso rispetto alla maggior parte degli altri birrai: aveva intrapreso infatti la carriera di calciatore professionista, e a far birra non ci pensava proprio. Almeno fino a che, complici una serie di circostanze che non sto qui a riferire, non si è trovato a rispondere di sì ad un noto brewpub di Udine che cercava manovalanza per la produzione di birra: lì, volendo usare le parole sue, "mi si è aperto un mondo", e si è "messo alla scuola" del mastro birraio. Dopo un passaggio in una grossa azienda del settore e un corso di formazione all'Istituto Cerletti di Conegliano, ha così deciso di appendere al chiodo le scarpe da calcio; e tornare a Enemonzo, suo paese d'origine, dove si era concretizzata la possibilità di utilizzare la vecchia casa di famiglia per avviare il suo birrificio. Nel 2017 è partita così la produzione su un impianto di 5hl, e il nostro ha da poco festeggiato la duecentesima cotta.

Arrivando da Casamatta, la sensazione che si ha è in effetti quella di entrare in una delle tante case di montagna, con tanto di terrazzini in legno e gerani ai balconi: salvo poi trovarvi dentro una piccola tap room, la sala cotta, sei serbatoi da 5hl (ne è in arrivo uno nuovo da 20, oltre a due maturatori), e il magazzino in un vicino stavolo. Insomma, fa atmosfera, non c'è che dire.

Sono quattro le ricette fisse e quattro le stagionali (ispirate ai prodotti che il territorio offre nel corso dell'anno), tutte in ossequio al principio di Andrea secondo cui "la birra per me è semplicità" - pur senza rinunciare ad un tocco di personalizzazione, mi permetto di aggiungere. La prima che ho assaggiato è stata la Slip, Pils ceca la cui ricetta è dono del mastro birraio che l'ha formato (non a caso noto proprio per le birre di ispirazione ceca): e in effetti fa onore alla definizione, con la classica fragranza piena di pane appena sfornato in bocca, e l'eleganza della luppolatura con Saaz, Perle e Premiant; risultando al contempo meno "grezza" di certe Pils ceche (anche i classici dimetilsolfuro e diacetile, citati in pressoché tutti i manuali come difetti viceversa accettabili in quantità contenute nelle birre ceche, qui sono sostanzialmente non percepibili).

Siamo poi passati alla Siesta, la stagionale estiva (come il nome stesso lascia supporre), aromatizzata con 800g a cotta di fiori di camomilla e una melassa di fiori di tarassaco (fiore che cresce in maggio-giugno da queste parti). Devo ammettere che l'aroma mi ha fatto inizialmente temere una tisana, dato che la camomilla (per la quale personalmente non stravedo) è parecchio evidente; in bocca però si conferma essere una birra e mantiene un buon equilibrio tra la componente snella di cereale e quella erbacea, per chiudere sulla dolcezza del tarassaco - che però lungi dall'essere zuccherinamente stucchevole, rimane fresca.

Quindi la Florian, una sorta di "sui generis" di cui Andrea dice che "o la si ama o la si odia", ossia un'ambrata di ispirazione ceca a cui vengono aggiunti a fine bollitura bucce d'arancia e semi di cardamomo. Anche se sulla carta farebbe presupporre un risultato estremamente "vivace", in realtà l'aroma, pur ben evidente, risulta di una speziatura elegante, con le due componenti ben armonizzate; in bocca rimane scorrevole nonostante i toni di caramello, per chiudere di nuovo sullo speziato, lasciando il luppolo - Saphir in questo caso - in secondo piano.

Cambiando del tutto genere, ho provato la ipa Tipa: il dryhopping con Chinook, pur ben percepibile, rimane nei ranghi della moderazione, mentre il corpo tostato, ma comunque snello, lascia poi il posto ad un taglio amaro e secco che si evidenzia ancor più nella discreta persistenza.

A casa ho poi degustato l'ultima fissa è la Double Fradi - una Belgian Ale ambrata che, pur rimanendo nei ranghi dello stile, presenta in modo meno evidente dello standard i tipici aromi spezzati e fruttati del lievito, in favore piuttosto di un tocco di luppolo che risalta più in amaro, conferendo una secchezza relativamente elevata per il genere - e la stagionale primaverile, la Regalia. Interessate quest'ultima per l'utilizzo della salvia sclarea (un fiore di montagna) essiccata che, se all'aroma può far pensare semplicemente all'ennesima trovata in quanto a nuovi luppoli, risalta in tutta la sua forza erbacea e balsamica sul finale, a mo' di gruit, lasciando anche una notevole persistenza amara. Per quanto anche questa possa ricadere nella categoria "o la ami o la odi", l'aromatizzazione rimane comunque nei limiti di un equilibrio complessivo, e risulta quindi accessibile anche a chi non dovesse essere proprio un patito dell'amaro. Per la cronaca, le altre stagionali sono l'autunnale San Bortul, un'affumicata con carrube, e l'invernale Ciaspola, con fichi e fave di cacao.

Nel complesso, tutte birre tecnicamente ben fatte che, pur dando l'idea di una semplicità complessiva e mantenendo l'equilibrio d'insieme, non rinunciano ad un pizzico di originalità. Da segnalare anche il fatto che Andrea ha riferito che, durante il lockdown, è riuscito a compensare molto bene con la consegna a domicilio le mancate vendite in tap room e nei locali (per il 70-80%, a suo dire): un segnale interessante di come, almeno in un contesto di clientela affezionata e su raggio breve o relativamente breve, questa modalità possa essere valida.

Rimanete sintonizzati per la prossima tappa...

lunedì 6 luglio 2020

Pizza e birra post lockdown

La prima cena degustazione a cui ho avuto il piacere di partecipare - in rappresentanza de Le Donne della Birra con Federica Felice - dopo la fine del lockdown è stata quella guidata dal birraio artigiano e biersommelier Vincenzo Dal Pont con le birre di Cittavecchia, al ristorante pizzeria Serenella di Grado: cinque pizze su quattro diversi impasti, abbinate ad altrettante birre.

Chi mi segue sa che, per quanto mi sia capitato più volte di tenere delle degustazioni su abbinamenti pizza e birra, non sono una particolare appassionata di questo accostamento: trovo che l'effetto "cereale su cereale" che si crea, infatti, non sia particolarmente gradevole - a meno, naturalmente, di non avere estrema cura nel lavorare sul connubio tra birra e farcitura. In questo caso tuttavia, trattandosi di pizze che non solo presentano differenza negli impasti, ma anche notevole originalità nelle farciture (mirate alla valorizzazione di prodotti locali, sia dell'Adriatico che dell'entroterra) le premesse per creare qualcosa di interessante c'erano tutte.

La serata si è aperta con un aperitivo con assaggi di pizza Regina (bufala e basilico) in quattro diversi impasti, accostata alla Àila - la Golden Ale di Cittavecchia dedicata alla città di Trieste: interessante in questo caso soprattutto la chiusura agrumata, data dal tocco di scorza d'arancia, che va a "pulire" la bufala lasciando la bocca fresca.


A seguire la Mare d'orato (pizza con zafferano, canestrelli e cozze su purea di zucchine) su impasto di farina 00 accostata alla Weizen White Shark: qui ho trovato indovinato il gioco tra la tipica acidità della Weizen e non solo i frutti di mare, ma anche lo zafferano stesso, andando a contrastarne la pastosità e dandovi un tocco leggermente speziato.

Terzo abbinamento quello tra la Marinara Mix (base Marinata con pomodorini grigliati, pomodorini caramellati, pomodorini olio aglio e basilico) su impasto "Serenella" abbinata alla Helles Giant Cave: un accostamento a cui sulla carta non avrei dato un centesimo, ma che si è rivelato invece riuscitissimo in virtù del particolare taglio amaro erbaceo finale - non invasivo ma particolarmente netto, che esibiva una complementarietà perfetta al dolce del pomodoro e nel contempo puliva senza sconti l'aglio.

Siamo poi passati alla pizza Rosé (bianca con polvere di barbabietola) su impasto di grani antichi abbinata alla Vienna Lucky Shoes. Buona la scelta della Vienna, che dopo aver accompagnato sia il formaggio che la barbabietola con il caramellato del malto li "taglia" con l'amaro deciso; forse però la "pecca" in questo caso - se tale si può definire - è di aver scelto una Vienna volutamente delicata, qual è quella di Cittavecchia, mentre un po' più sia di corpo che di amaricatura non avrebbero guastato.

Ultima, una pizza bianca alle verdura grigliate su impasto nucleo pizza rustica, abbinata alla English Ipa Andre: interessante il modo in cui il corpo tostato sorregge la complessità della pizza, forse un po' eccessivo l'amaro acre finale tipico dello stile, che arriva a sovrastare l'insieme - per quanto nel complesso la cosa non risultasse sgradevole.

Nell'insieme, una degustazione interessanbte e riuscita, che mi ha fatto scoprire sapori e accostamenti nuovi. Un ringraziamento a Vincenzo, al Serenella nella persona di Antonella Muto, e a Federica Felice con tutto Cittavecchia.