lunedì 28 dicembre 2020

Birra italiana, filiera e ripresa del settore: che cosa significa il legame con il territorio?

Ho seguito alcuni giorni giorni fa un seminario online promosso da Unionbirrai  e Cia (di cui trovate il comunicato stampa di resoconto qui) sul tema “La birra indipendente artigianale e la filiera brassicola in Italia: il difficile presente, le azioni a supporto, le sfide del 2021”. Al di là degli aspetti "tecnici" (numeri del settore, richieste al legislatore in merito alla questione del codice Ateco, ecc), su cui si sofferma appunto il comunicato stampa, l'incontro mi ha stimolato alcune riflessioni (peccato non fosse attivo un sistema per poter rivolgere domande ai relatori tramite chat, come si usa ad esempio nelle conferenze stampa online: non è detto che ci sia il tempo di rispondere a tutte subito né che non si possa rispedire al mittente quelle inopportune, ma almeno le si raccoglie e le si "evade" poi, per quanto possibile).

Essendo un incontro promosso in collaborazione con la Confederazione degli agricoltori, è stato incentrato sul tema della filiera agricola in campo brassicolo: un tema particolarmente sentito in questi ultimi anni e che sta dando risultati tangibili (ho scritto più volte in passato sul tema degli agribirrifici e della loro crescita, ad esempio qui). Si è molto parlato delle ricadute positive della filiera anche sul resto del territorio, con collaborazioni tra birrifici e aziende agricole che vedono il loro orzo meglio valorizzato; degli investimenti necessari nella coltivazione del luppolo, e dell'opportunità di registrare varietà italiane; del legame tra filiera e turismo brassicolo, e del legame con il territorio come via principale per il rilancio.

Tutte considerazioni condivisibili e nate già in tempi pre-Covid, che ora trovano una nuova e ancor più cruciale declinazione in vista della ripartenza - e bene fanno quindi Unionbirrai e Cia a parlarne e ad agire di conseguenza; mi è rimasta però, a fine conferenza, una sorta di dubbio (che ho peraltro provato a porre tramite altri mezzi, ma purtroppo senza riuscirci, a due dei relatori intervenuti).  

Dai ragionamenti fatti è emersa, dicevamo, la centralità del legame tra birra e territorio, sia in termini di utilizzo delle materie prime locali (proprie nel caso degli agribirrifici, o di altri coltivatori) che di promozione del turismo. Mi chiedo però: in questo percorso di valorizzazione, che ruolo hanno quei birrifici che non utilizzano materie prime locali o italiane (e ce ne sono anche di noti e rinomati)? Dal dibattito ho infatti ricavato la sensazione che il processo di valorizzazione per la ripartenza della birra artigianale italiana debba necessariamente passare attraverso un legame con il territorio espresso dalla materia prima. Sarà che era appunto il tema dell'incontro e quindi il discorso ha per forza di cose preso questa piega specifica, che riguarda un numero sempre più ampio di produttori (come avevo scritto già lo scorso anno, nell'articolo linkato sopra); però appunto mi chiedevo che ruolo ci possa essere in quest'ottica per le realtà di altro tipo, che appunto non rientrano nel tema trattato nel seminario.

Certo nulla impedisce di trovare un modo diverso dalle materie prime di esprimere il proprio legame con il territorio, ed esempi in questo senso già ce ne sono: chi punta sul solo fattore acqua (e magari a ragion veduta, dato che è pur sempre l'ingrediente di partenza); chi esprime nei nomi e nella presentazione delle birre alcuni specifici aspetti culturali del territorio; chi utilizza "adjuncts" (i prodotti diversi dalle materie prime di base, ndr) tipici del territorio in questione; chi si inserisce, in quanto impresa locale, nelle reti di promozione del turismo e dei prodotti di quella zona. Una strada percorribile più facilmente da birrifici già affermati e con una certa storia alle spalle, per i quali già il semplice fatto di essere "il birrificio storico del paese X" (anche se "storico" significa dieci anni di attività) dà titolo per essere espressione del territorio stesso. Per i nuovi, se davvero - come si afferma nel sondaggio citato nell'incontro - quasi l'80% dei consumatori afferma di fare attenzione alla provenienza del prodotto, l'espressione del radicamento sul territorio appare più legata al fattore materie prime - non necessariamente coltivate in proprio, peraltro.

Ripropongo, tuttavia, la riflessione con cui avevo chiuso il post citato sopra un anno e mezzo fa. L'attenzione alla filiera locale, osservavo, "la vedrei rientrare non tanto nella promozione della birra artigianale in sé (che come tale può essere di ottima qualità anche con materie prime acquistate altrove), quanto nella promozione dei prodotti agricoli locali: se le due cose vanno di pari passo, ben venga (e anzi ci sono diversi esempi virtuosi in questo senso), ma credo sia bene tenere presente che non sono del tutto sovrapponibili. Anzi, tenere insieme questi due aspetti richiede un'ancora maggiore consapevolezza da parte dei birrai: se rifornirsi di materie prime locali implica, per forza di cose, limitare la varietà di malti e di luppoli a cui si ha accesso, è necessario lavorare di conseguenza - se non altro per l'ovvia ragione di non arrivare alla forzatura di utilizzare luppoli autoprodotti di qualità scadente a causa delle condizioni ambientali inadeguate a quella specifica varietà, o a non usare le tipologie di malto più appropriate per un certo stile semplicemente perché queste non rientrano tra quelle prodotte con il proprio orzo. Insomma, come tutte le cose la filiera locale va usata con consapevolezza, perché sia funzionale allo sviluppo dell'azienda e non le tarpi le ali per la scarsa qualità o la scelta limitata delle materie prime". 

La consapevolezza di questa tematica c'è, o almeno si è colta dai discorsi fatti non solo in sede di questo incontro: da tempo ormai si parla della necessità di crescita della filiera in termini quantitativi e qualitativi, della sua integrazione in un processo più ampio di promozione territoriale, e le iniziative in questo senso ci sono. Resta però a mio avviso il fatto che, pur dando per assodato che la birra prodotta con materie prime locali abbia qualcosa di più da raccontare - e "raccontare" è un termine chiave nel mercato attuale - al consumatore e possa fare da volano di sviluppo territoriale, non sia possibile (o sia quantomeno riduttivo) pensare ad una strategia di rilancio post Covid imperniata esclusivamente su questo: sarà pur vero che "la birra è terra", ma è altrettanto vero che questa non è una via percorsa (e percorribile, dati gli investimenti necessari) da molti birrifici, e per i motivi più svariati - chi per semplici ragioni logistiche e di costi, chi perché tiene ad avere materie prime di un certo tipo che in patria non potrebbe avere. E chiarire che posto occupano queste imprese nella visione proposte nel seminario è utile e necessario, perché non si può pensare ad una ripresa che coinvolga solo una parte del settore.

lunedì 14 dicembre 2020

Tra session ale e birre natalizie

In virtù del ritorno del Friuli Venezia Giulia in zona gialla già da una settimana, ho potuto, dopo diverso tempo, tornare a pranzo in uno dei pub che frequento d'abitudine - la birreria Brasserie di Tricesimo; che domenica 13 aveva peraltro preparato un menù ad hoc, in occasione della presentazione della session ale Refrain di Birrra Garlatti Costa - che il realtà avrebbe dovuto tenersi già qualche tempo fa, e che poi era saltata con l'ingresso del Fvg in zona arancione. 

A dire il vero avevo già avuto occasione di provare questa birra direttamente in birrificio, ma naturalmente non mi è dispiaciuto provarla di nuovo; anche perché questa volta ho avuto occasione di farlo con abbinamento gastronomico - un bis di focacce, l'una con bacon, gorgonzola e radicchio, e l'altra con ricotta, spinaci e salsiccia. Al di là dei complimenti alla cucina, dato che ho trovato le focacce davvero molto buone, la cosa che più si è imposta all'attenzione è stata la versatilità di questa birra a tavola: data la semplicità, non invasività e pulizia dell'insieme, si è a mio avviso dimostrata adatta ad accompagnare anche due farciture molto diverse come erano quelle in questione - andando semplicemente a fare da "rinfrescante", senza imporsi in alcun modo sui sapori decisi.

In quanto alla birra in sé e per sé, non posso che ribadire quanto già affermato nella scorsa degustazione: peculiare aroma di uva spina, frutta acidula e agrumi - pompelmo e mandarino su tutti -, elegante ma sufficientemente robusto da celare le note del lievito belga caro a Severino - che emerge leggermente al salire della temperatura, ma molto ben amalgamato con il fruttato della luppolatura; corpo estremamente snello come da manuale, finale fresco, secco e corto.In più questa volta ho notato, complici forse i sapori del cibo, quasi una sorta di "sapidità" in chiusura, come se la componente speziata del lievito belga andasse a "giocare" con la luppolatura in amaro e apputo ciò che stava nel piatto.

A mo' di dolce sono poi passata alla Olaf-Some people are worth melting for (anche qui il nome è una citazione cinematografica, come per tutte le altre birre della casa) del Birrificio Bondai: una natalizia, la prima del birrificio in questione, che è nato lo scorso aprile. Aroma di cannella e scorza d'arancia - le due aromatizzazioni utilizzate - ben percepibili all'aroma, insieme alla speziatura del lievito, che lasciano poi spazio ad un corpo robusto, clado e avvolgente sui toni del biscotto e dello zucchero candito; e chiudere nuovamente con un richiamo a cannella e arancia, che tuttavia non cancellano la persistenza dolce. Una birra che definirei "semplice", pur nella complessità organolettica, nella misura in cui si coglie che non è fatta per stupire, ma intende rientrare nei canoni delle birre stagionali dell'inverno senza pregiudicare la bevibilità di fondo.

Chiudo con un ringraziamento a Maltilde, sempre publican di spessore, e a Severino Garlatti Costa, presente alla giornata.

giovedì 10 dicembre 2020

Novità sotto l'albero

Con il mese di dicembre arrivano anche le birre di Natale: e quest’anno se ne conta una di nuova sotto l’albero, la Lugh del Birrificio Foràn.

La prima cosa che personalmente mi ha incuriosita è stato il nome: “Volevo qualcosa che richiamasse il periodo di fine anno – ha spiegato il birraio, Ivano Mondini –; ma allo stesso tempo evitare riferimenti espliciti al Natale o al Capodanno, perché già esistono un sacco di birre con nomi così. Ho pensato allora che il Natale si festeggia in quei giorni perché già popolazioni pre-cristiane, e in particolare i Celti, usavano celebrare il fatto che le giornate tornano ad allungarsi dopo il solstizio d’inverno: e appunto una divinità celtica è Lugh, associato al sole”.

Detto ciò, va ricordato che il Birrificio Foràn, che ha aperto a novembre 2019, si misura per la prima volta con quello che non è di fatto uno stile, ma piuttosto un’intenzione insita nel pensare una ricetta – quella di essere appunto bevuta per le feste, nella stagione fredda, e in occasioni conviviali (vabbè, quest’anno ridotte, ma ciò non implica che non si possa brindare alla reciproca salute); e ha scelto di farlo mettendo insieme la tradizione di speziare le birre natalizie con il filone delle Honey Ale.

Si tratta infatti appunto di una ale con miele di castagno, fornito da un produttore locale; che all’aroma risalta subito in forze, con i suoi toni tra il dolce e il balsamico. A questo si accompagnano i profumi della cannella e delle bucce di limone, ben amalgamati nell’insieme. 

Al palato continua a predominare il filone dolce – complice biscottato-caramellato del malto Vienna, che conferisce anche il caratteristico colore – prima di far risaltare nuovamente la speziatura sul finale. Un corpo caldo ma al tempo stesso snello, tanto da risultare di facile beva e non far supporre gli otto gradi alcolici. 

Va detto che, se fossimo ad un corso di degustazione, userei questa birra per far capire l'importanza della corretta temperatura di servizio. Se bevuta appena tolta dal frigo, risulta infatti del tutto monocorde sui temi del dolce del miele, con una lunga persistenza, che risulta finanche stucchevole; mentre alla temperatura corretta, ossia non meno di 10-12 gradi, emerge il caratteristico taglio amaro-balsamico dato dal miele di castagno che va a chiudere la bevuta (per quanto rimanga comunque una birra decisamente dolce nell'insieme), e che si intuisce essere nelle intenzioni di chi ha creato la ricetta. Insomma, uno di quei casi da manuale in cui è evidente come la temperatura sbagliata arrivi anche a snaturare del tutto una birra.


Da segnalare, tra le novità - anche se meno novità, in quanto in commercio già dal qualche mese - di Foràn, la Ipa "Hops my passion": un esempio fondamentalmente semplice dello stile, incentrato sugli aromi tra il floreale e l'agrumato intensi ma non volti a stupire, corpo fresco nonostante i toni biscottati sullo sfondo - anche qui non si intuirebbero gli oltre sei gradi alcolici - e taglio amaro finale netto, citrico e non troppo persistente.