martedì 23 luglio 2013

A proposito di McDonald's

Per una volta andiamo oltre la questione birra, anche se sempre di enogastronomia - per così dire - si tratta. Risale a pochi giorni fa la notizia che McDonald's aprirà il prossimo anno il primo ristorante a Ho Chi Min: il Vietnam diventerà così il 123° Paese al mondo ad avere almeno un posto dove andare a procurarsi un BigMac, con relative prolusioni sull'egemonia culturale americana sul resto del mondo. Ora, al di là del fatto che se esistono oltre 200 Stati ciò significa che per più tenaci avversari della grande M c'è ancora speranza, la notizia mi ha stimolato qualche ulteriore considerazione rispetto ai torrenti di parole già scritti sul legame tra fast food e cultura gastronomica locale.

Innanzitutto, mi ha fatto venire alla mente per contrasto il caso boliviano: lì McDonald's, dopo 14 anni di onorata attività, nel 2002 ha deciso di lasciare il Paese semplicemente perché questa non era economicamente sostenibile: in sostanza, come diversi giornali e blog hanno riferito, il menù proposto era "l'esatto contrario di ciò che un buon pasto dovrebbe essere secondo un boliviano", e quindi erano rimasti in pochi appassionati a frequentare i fast food. A quanto pare non sono bastati gli sforzi che la multinazionale californiana da tempo compie per adattare le proprie proposte a ciascun Paese, così da intercettare al meglio il segmento di mercato in questione.

E in effetti ce ne siamo ben resi conto in Italia, dato che il potenziale enogastronomico del Bel Paese non è certo sfuggito ai piani alti dell'azienda: dall'hamburger fatto unicamente con carne italiana (basti pensare al tanto pubblicizzato McItaly), ai panini con formaggi tipici locali, non si può dire che la buona volontà di venire incontro ai gusti degli italiani sia mancata. Solo che, in un Paese come il nostro, c'è un'altra questione da considerare, fattami notare già qualche anno fa dalla mia buona amica australiana Laura Bonacci.

Ci trovavamo a Roma, vicino al Pantheon. Lì a poca distanza campeggiava l'insegna di un McDonald's, ubicato - si leggeva - a soli cinque minuti da lì. Ma come, ha chiesto Laura, permettono che venga aperto un McDonald's qui? L'ho guardata stupita: perché non dovrebbero? Beh, ha spiegato lei, la legge australiana non consente di aprire nelle città storiche esercizi commerciali che non siano "in armonia": a Beechworth, ad esempio, non c'è nessun fast food. Notare che la cittadina in questione, da cui Laura proviene, è stata fondata nel 1853: un'inezia dal nostro punto di vista, ma sufficiente secondo i canoni australiani per essere considerata patrimonio storico nazionale e soggiacere alla legislazione relativa.

Non ho potuto non pensare che, se così stessero le cose anche qui, McDonald's si troverebbe a dover chiudere buona parte dei suoi 450 ristoranti in Italia: un bel colpo sui 972 milioni di euro di giro d'affari che l'azienda ha dichiarato per il 2011 nel nostro Paese. Forse una parte relativamente poco significativa rispetto al fatturato totale di 8,6 miliardi di dollari e ai 34 mila ristoranti a livello mondiale; ma stiamo comunque parlando di un gruppo che dà lavoro a 16 mila dipendenti, e che a quanto pare mantiene comunque un certo appeal sui nostri compatrioti se serve 700 mila pasti ogni giorno (su 69 milioni a livello globale).

Certo, si dirà, specie nelle località turistiche, un luogo in cui mangiare velocemente e a buon mercato fa comodo, al di là di quanto possa contrastare con i monumenti che vi stanno accanto. Ma a voler ben vedere l'Italia - e non solo - pullula di esempi di cibo da strada che soddisfa questi requisiti da ben prima che la M sbarcasse da noi nel 1985: dalle pizze al taglio ai chioschi di panini, non c'è che l'imbarazzo della scelta. Inoltre, è un fatto che il cibo offerto in ciascuna città è una vera e propria questione immagine: Napoli non sarebbe pensabile senza le pizzerie o i banchetti che servono sfogliatelle in strada, né Palermo senza i venditori ambulanti di arancini e cannoli, per cui un fast food nel posto "sbagliato" può avere un impatto non trascurabile - appunto - sull'immagine complessiva della città stessa. Insomma, la questione non è solo gastronomica, ma investe più in largo la gestione del patrimonio storico e culturale del nostro Paese.

lunedì 15 luglio 2013

Una gita in Valscura

Passando da Sacile, non ho potuto non cogliere l'occasione per onorare l'invito del buon birraio Gabriele - conosciuto alla festa della birra in Brasserie, di cui avevo parlato in un precedente post post - a visitare il birrificio Valscura: un capannone sperduto sulle colline di Sarone, al quale senza navigatore avrei avuto le mie difficoltà ad arrivare. Un capannone, appunto, perché è questo che sembra a prima vista: se non fosse per le sedie, gli ombrelloni e i tavolini che "tradiscono" la presenza di una piccola sala degustazione e vendita, invitando a fermarsi per un bicchiere.

Dato che Gabriele non era ancora rientrato, abbiamo intanto fatto conoscenza con l'altra metà della società, la moglie Renata: una tipa tutto pepe intenta a servire birre alla spina agli avventori discretamente numerosi - che chiamava tutti per nome: o è una clientela di affezionati, o lei ha una memoria spaventosa. Tanto per cominciare, ci ha offerto un bicchiere: questa volta mi sono buttata sulla Panera, una weizen particolarmente dissentante. Chiedo venia per la mia scarsa sensibilità a Unionbirrai, che nel 2008 l'ha scelta come terza classificata per "Birra dell'anno", ma - per quanto buonissima - non sono riuscita a percepire quel "tocco" speciale; tocco che invece questa volta ho colto nella Liquentia (scelta da Enrico: il nostro patto è prendere sempre birre diverse, e condividere, oltre alla buona e alla cattiva sorte, anche il bicchiere), il cui retrogusto erbaceo mi ha lasciata davvero stupita e me l'ha fatta ampiamente rivalutare.

Tra una Panera e una Liquentia, quindi, Renata ci ha raccontato la storia del birrificio, aperto nel 2007. All'epoca Gabriele, che lavorava come tecnico manutentore nei birrifici, aveva avuto da un cliente l'offerta di acquistare a prezzi convenienti i fermentatori che avrebbe dismesso. E così è partita la scommessa, a cui si è unita anche lei dopo anni passati a servire nei pub. «All'inizio brassavamo a Padova perché qui le strutture ancora non erano pronte - ha raccontato -, con l'aiuto di un mastro birraio da Cuneo: poi, pian piano, abbiamo iniziato a farci conoscere alle fiere e alle feste, si è avviata la produzione qui, e alla fine abbiamo aperto il punto vendita». Punto vendita peraltro assai vario: accanto alle bottiglie si trovano diversi prodotti tipici locali - dalla farina per polenta, agli asparagi sott'olio, al miele - che arrivano direttamente dagli agricoltori dei dintorni. Insomma, non ce n'è solo per gli appassionati di birra.

Nel frattempo è arrivato Gabriele, che - nonostante le remore perché «è tutto in disordine» - abbiamo convinto a farci fare un tour della zona di produzione: in fondo, l'occasione era imperdibile. A dire il vero non c'era molto da girare fisicamente, perché si tratta di un birrificio di dimensioni modeste - per quanto riesca comunque a fare una quarantina di cotte l'anno, per 400 ettolitri: è stato più che altro un tour nel come si produce la birra. Così ho imparato, ad esempio, che per ogni 900 litri d'acqua vanno miscelati - a seconda del tipo di birra - dai 250 ai 400 kg di malto, quando va aggiunto il luppolo, e che ci vogliono circa 4 mesi per arrivare finalmente a bere la birra. Se va bene, chiaro: lì, in alcune botti di ciliegio, era lasciata ad invecchiare qualche specialità che di certo farà la gioia degli intenditori.


Finito il tour, Gabriele ha insistito per invitarci a sedere sui tavolini all'esterno e stappare una bottiglia di Valscura, nonostante le nostre perplessità dato che poi ci saremmo dovuti mettere alla guida. Ma ne è valsa davvero la pena: non solo perché è una scura dall'aroma di caffè e retrogusto di liquirizia davvero notevoli; ma anche perché è stato un momento assai piacevole con Gabriele e Renata, sentendoli descrivere la produzione delle loro birre quasi come un gioco, un esperimento «per assaggiare che cosa ne esce», con tutta la passione del caso. «Adesso è pronta la Patriarcale, un'ambrata a tripla fermentazione a cui ho fatto più di trenta luppolature - ha riferito entusiasta Gabriele -: l'abbiamo assaggiata qualche giorno fa, ed è riuscita davvero speciale. Da bere sul divano, però, perché è forte». Un po' come se stessero brassando per se stessi più che per i clienti, che sono per la maggior parte privati: solo il 20% della produzione arriva in birreria, per il resto passa tutto da questo punto vendita. Oddio, mica tutto: «Ma dov'è che Renata ha messo l'ultima bottiglia di Canipa? Accidenti, me la nasconde sempre, perché vuole che ne rimanga anche per noi». Ecco, appunto.

lunedì 8 luglio 2013

Praga caput mundi

Da una vita dico a Enrico che prima o poi lo dovrò portare a Praga: al di là delle bellezze storiche e artistiche, una città in cui la birra costa meno dell'acqua - ragione per cui a mio fratello, pur alla tenera età di quindici anni, è stato concesso di berne purché con moderazione - senz'altro merita di essere visitata.


La cosa mi è tornata in mente perché questa mattina, nelle mie quotidiane peregrinazioni sul web in cerca di informazioni del genere più svariato - modo migliore, si sa, per non trovare ciò che si cerca, ma imbattersi in compenso in tante altre cose interessanti - sono capitata su una pagina in cui si parlava del consumo di birra pro capite nel mondo. Per carità, i dati non sono tutti concordi tra le varie indagini, e non necessariamente sono aggiornatissimi: ma se c'è una cosa su cui tutti sono d'accordo, è che bisogna ricredersi in quanto allo stereotipo del tedesco bevitore.

A battere tutti sarebbero infatti proprio i Cechi: il Beer Statistics Report 2012 di Brewers of Europe lo stima a 145 litri l'anno a testa contro i 108 dell'Austria e i 107 della Germania, e anche una fonte autorevole come il Wall Street Journal lo scorso gennaio lo dava a 168 litri. Anche la buona vecchia Wikipedia, i cui dati più aggiornati risalgono però al 2010, mette la Repubblica Ceca in testa con 131 litri, seguita dalla Germania con 107 e l'Austria con 106. Altre fonti più o meno autorevoli lo stimano sempre attorno ai 150, con l'ingresso dell'Irlanda nel podio di qualche classifica che la stima attorno ai 130 (mentre Austria e Germania rimangono tendenzialmente stabili). Insomma, in fin dei conti ci si sposta di poco, e l'unico dato davvero costante è il primato di Praga e dintorni. Anche l'Organizzazione mondiale della sanità, in effetti, conferma: secondo l'ultimo rapporto sull'abuso di sostanze alcoliche, la birra rappresenta il 57 per cento sul totale degli alcolici consumati in Repubblica Ceca. Insomma, tante cose si spiegano.

I tedeschi, comunque, possono consolarsi: con 95.545. 000 ettolitri annui (sempre secondo il Beer Statistics Report 2012) il primato nella produzione non glie lo leva nessuno, così come quello sui guadagni con 702 milioni di euro di utili, e quello sulle esportazioni con 15.360.000 ettolitri. Si vede dunque come la maggioranza della produzione rimanga per il consumo interno, dato che la Germania rimane comunque il Paese che beve di più in termini assoluti (87.655.000 ettolitri l'anno).

E il Belgio, chiederà qualcuno? Loro a quanto pare rimangono intenditori: solo birre pregiate, ma in misura moderata - "appena" 78 litri a testa l'anno. In compenso, su 18.571.000 ettolitri prodotti, ben 11.091.000 sono destinati all'esportazione: insomma, nomi come Chimay, Westmalle e socie confermano che buon sangue non mente, e che la buona reputazione al di fuori dei confini rimane ben salda.

venerdì 5 luglio 2013

Luppolo e tabacco

Da non fumatrice, in realtà non avrei avuto un interesse personale in merito alla serata "Birra e sigari" organizzata dalla Brasserie; ma la curiosità rispetto ad un abbinamento insolito come quello tra luppolo e tabacco, di cui non mi era mai giunta notizia, mi ha fatto concludere che valeva la pena andare a capirci qualcosa di più.

La prima scoperta della serata è stata che esiste una professione come il "fummelier": ebbene sì, c'è il sommelier che degusta vini, e il fummelier che degusta sigari. Quello presente in Brasserie, Marco Prato, è relatore del Club Amici del Toscano: seconda scoperta della serata, visto che nemmeno di questo conoscevo l'esistenza. Il club si fregia di essere, mi ha spiegato il fummelier, un gruppo di intenditori del "fumo lento": rispetto al fumo della sigaretta, che venendo aspirato nei polmoni porta ad assumere la nicotina più velocemente - oltre che a finire prima -, quello del sigaro, limitandosi alla bocca e al naso, rende il tutto meno rapido, tanto più che un sigaro fumato con calma dura circa mezz'ora. Terza sorpresa della serata: altro che pausa sigaretta, se uno preferisce un buon toscano deve prendersi un permesso dal lavoro.


La cosa che più mi incuriosiva, però, era capire il perché dell'abbinamento tra birra e sigari, e secondo quali principi venga fatto. E qui la quarta sopresa della serata è stata che, di fronte al mio «Mi spieghi un po', mi sembra una novità interessante», mi sono sentita rispondere «Ma non è certo una novità, il responsabile nazionale eventi del nostro Club da tempo setaccia i microbirrifici». Touché, te l'ha sempre detto tuo padre che stare zitti non costa nulla. Ok, passiamo alla prossima domanda...con la New Morning del Birrificio del Ducato che ho in mano - una bionda ad alta fermentazione, sullo stile delle Saison belghe - che cosa suggerirebbe? «Gli abbinamenti si fanno per similitudine oppure per contrasto - ha esordito il fummelier, nella sua dotta dissertazione -: per cui si può puntare o su un tabacco puro, o su un sigaro aromatizzato, ad esempio al cioccolato». Ohibò, questa mi mancava: delle sigarette aromatizzate sapevo, dei sigari no. E poi, ha continuato, l'aroma del sigaro deve essere bilanciato rispetto a quello della birra: «Né troppo forte, così da coprire il gusto di ciò che si beve; né troppo debole, sennò non si apprezza il fumo». Nel caso di specie, volendo puntare su un tabacco puro piuttosto che su uno aromatizzato, «meglio un Modigliani, che è più leggero rispetto ai toscani classici, perché ha un'essiccatura diversa».

Resta il fatto che non fumo: per cui, al di là di dare un'annusata ai sigari per avere quantomeno un'idea, in quanto al come si fa a degustare tabacco e birra in abbinamento e che sensazioni dà devo per forza farmelo spiegare. «Si inizia aspirando tre o quattro boccate - ha spiegato Prato -, così da dare un senso di astringenza alle papille gustative: una sensazione che invita a bere, e consente quindi di apprezzare l'abbinamento. Personalmente preferisco quello classico con i superalcolici, ma sta avendo molto successo anche quello con le bollicine». Insomma, evviva il Prosecco, sempre detto che le mie zone sono superiori. Il terzo step è l'abbinamento con uno stuzzichino dolce o salato: nel caso di specie erano disponibili cantuccini, taralli, bruschettine al pomodoro e - udite udite - crostini di formaggio caprino con del toscano grattuggiato sopra. Peraltro, specificava Prato, il Club privilegia sempre prodotti locali, sia in quanto a cibo che in quanto a bevande.

Avrei voluto concludere il mio dialogo con il fummelier con una provocazione in merito a quel "Il fumo danneggia gravemente te e chi ti sta attorno" che campeggiava sui dépliant informativi della serata: certo è che con un bicchiere di birra in mano, dato che nemmeno l'alcol è propriamente un toccasana, non ero nella posizione migliore per farlo. Ma si sa che ho la lingua lunga e l'ho fatto lo stesso, citando il mio buon prof. Toniello della scuola media, che fumando la sua pipa usava giustificarsi dicendo che «non è la stessa cosa del fumo della sigaretta». «Se diceva così, diceva una cosa vera - ha amesso il fummelier -; ma se sosteneva che una boccata dalla pipa è la stessa cosa di una boccata d'aria di montagna, allora no». Onore all'onestà.