martedì 31 marzo 2015

Bienvenus chez Cantillon

Beh, con tutta quest'invasione di anglicismi, un titolo in francese ogni tanto concedetemelo pure; perché in realtà c'è ancora una tappa del mio tour belga di cui rendere conto, il birrificio Cantillon di Bruxelles. Per gli appassionati di lambic e affini è uno dei nomi più noti: anche in questo caso, come per Oud Beersel, si tratta di una storica azienda di famiglia - fondata da Paul Cantillon nel 1900 - che produce birre a fermentazione spontanea. Azienda che, bisogna dirlo, ha indubbiamente beneficiato dal fatto di trovarsi praticamente in centro alla capitale: ed ha così unito l'utile al dilettevole facendo dello stabilimento un vero e proprio museo - il Musée Bruxellois de la Gueuze -, in cui i visitatori vengono guidati attraverso tutte le fasi della produzione - e degustazione finale, naturalmente.

Si comincia così con il grande tino di ammostamento, in cui circa 1300 kg di cereali vengono miscelati con acqua calda; per vedere poi i grandi bollitori in rame, la pompa dell'acqua calda, il mulino dei cereali e così via. La parte più curiosa è probabilmente la vasca di raffreddamento situata nel sottotetto, dove - grazie anche ad uun sapiente sistema di aerazione del solaio - la fermentazione parte spontaneamente: è infatti solo nella valle della Senne, il fiume che attraversa Bruxelles - almeno secondo la tradizione - che i microrganismi che ne sono responsabili si trovano naturalmente nell'aria, e solo lì è quindi possibile produrre le "vere" lambic. Altrettanto curiose sono poi le presse per spremere la frutta ciliegie e lamponi - che viene poi aggiunta al lambic per fare la kriek e la framboise -, nonché le ragnatele. Sì, le ragnatele: la frutta attira insetti, e non potendo usare alcuna sostanza chimica per liberarsene - in quanto contaminerebbe la birra -, i ragni funzionano perfettamente allo scopo.

La visita è stata piacevole, anche perché abbiamo trovato una guida particolarmente spigliata; certo, data la mole notevole di persone che visita Cantillon - o che perlomeno appare tale, dato che gli spazi sono piuttosto ristretti - non si può non avere la sensazione di trovarsi un po' in un' "attrazione turistica" più che in un birrificio - per quanto non sia certo un male se anche il turista medio si avvicina a questo genere di birra, anzi, ben venga. In quanto alle degustazioni, ho provato un lambic di un anno, una gueuze e una kriek. Il lambic, essendo giovane, non aveva un'acidità particolarmente pronunciata, risultando abbastanza amabile; e anche nella gueuze si sentiva un buon equilibrio, dando prova di maestria di chi ha miscelato i lambic. Un po' meno mi ha entusiasmata la kriek, nella quale ho trovato che sia un'acidità che una dolcezza discretamente pronunciate e presenti in contemporanea finissero per cozzare - siamo però nel campo dei gusti personali.

In tutto ciò, mi sono pure tolta lo sfizio di farmi spiegare come mai le birre a fermentazione spontanea vengano servite nel tipico cestino di vimini: il gentile signore al bancone ci ha infatti spiegato che il motivo sta nel mantenere la bottiglia inclinata, così che i lieviti rimangano sul fondo. Vedi tu, non si finisce mai di imparare...


lunedì 30 marzo 2015

Aria di novità in Valscura

Da qualche tempo non parlo del birrificio Valscura, già noto ai lettori di questo blog; così, passando da quelle parti, ho colto l'occasione per fermarmi a vedere il loro spazio degustazione rinnovato aperto lo scorso ottobre. La sala - stessa superficie di prima, ma più "ariosa" grazie alla disposizione più ragionata del mobilio - è arredata con gusto: lunghi tavoli con panche invece che tavolini "così la gente si siede anche con chi non conosce e favoriamo la socializzazione" - a detta del birraio Gabriele -, listelli in legno con i colori del birrificio alle pareti, e un bancone con otto spine invece delle quattro precedenti. Più curata è anche l'esposizione dei prodotti tipici - dai salumi, alle salse, ai biscotti - di cui Valscura si rifornisce da produttori locali; ma l'innovazione principale è la possibilità di accompagnare alle birre taglieri di formaggi e salumi, panini ed altri stuzzichini, cosa che può rendere assai più piacevole una sosta da quelle parti.


Anche sul fronte birrario le novità non mancano. Al di là di essermi tolta lo sfizio di assaggiare la Fich - una saison bruna al figo moro di Caneva, dai forti aromi di zucchero di canna e dal corpo assai robusto in cui si sentono bene i toni caramellati del fico - ho provato la versione attuale della Kaos Ale - chi non sapesse di che cosa sto parlando, clicchi qui. Che in questo caso, in realtà, non è una ale: "Ho voluto tornare a sperimentare con le basse fermentazioni - ha affermato quasi scherzosamente Gabriele - per vedere se ero ancora capace". Ne è così uscita una lager chiara torbata, che, se devo essere onesta, ho trovato un po' carente sul fronte dell'aroma - avrei difficoltà a dire che cosa mi ricordi, tanto è leggero, ed è quasi del tutto assente il torbato -; ma che si è fatta pienamente perdonare una volta in bocca, armonizzando in maniera morbida i toni più forti dei malti torbati con quelli più leggeri e delicati del malto pils. Anche il finale non è affatto aggressivo e abbastanza secco, per cui la persistenza rimane fresca, pulita e dissentante. Esperimento promosso dunque, per quanto mi riguarda, così come promuovo quello della nuova versione della Liquentia - anche questa una pils - con un nuovo tipo di lievito: il risultato è un aroma molto più floreale e quasi speziato - personalmente ho percepito dei chiodi di garofano -, che mi ha quasi fatto pensare ad una blanche pur essendo tutt'altra cosa, e un corpo più pieno e rotondo. Un'innovazione, ha ammesso Gabriele, nata dal tentativo di riuscire tenere il grado plato più basso grazie ad un lievito più "aggressivo" così da fronteggiare l'aumento dell'accisa: ma evidentemente non tutto il male viene per nuocere, dato che personalmente ho apprezzato di più questa versione della Liquentia rispetto a quella precedente.


Chicca finale della giornata è stata quella che Gabriele e Renata hanno scherzosamente battezzato "La maledetta", ossia la loro ale rossa Santabarbara "dimenticata" a fermentare per ben trenta mesi. Una cosa bisogna ammetterla: l'aroma è tanto acido, oserei dire acetico, da risultare quasi sgradevole. Però la paura passa una volta dato il primo sorso, dato che il corpo rimane piuttosto leggero, e la persistenza acida finale ricorda quella delle birre a fermentazione spontanea - in cui come in questo caso, ha scherzato Gabriele, "i lieviti ormai si sono mangiati tutto". Insomma, non una birra per tutti i palati, ma gli amanti delle birre acide potrebbero trovarlo un interessante esperimento di connubio tra stili diversi: chissà che quei mille litri non prendano prima o poi la via della bottiglia...

mercoledì 25 marzo 2015

La birra "come una volta"

Avete mai assaggiato una lambic? O una geuze? O una kriek? Beh, dimenticatevela. Al di là del fatto che vi possano piacere di più o di meno rispetto a quelle classiche, le birre a fermentazione spontanea del birrificio Oud Beersel sono "tutta un'altra cosa" rispetto alle omologhe, come ho avuto modo - e piacere, devo dire - di constatare di persona visitando il birrificio.

La storia di Oud Beersel è tanto lunga quanto curiosa. Il birrificio è stato fondato nel 1882 da Henri Vandervelden, raccoglitore di frutti e dipendente del birrificio De Kroon. Il birrificio è rimasto proprietà di famiglia per oltre un secolo crescendo ed innovando, tanto da fondare nel 1973 il primo museo della birra del Belgio situato in uno stabilimento; ma nel 1991 l'ormai anziano birraio Henri Vandervelden II è andato in pensione, e Danny Draps, proprietario del pub accanto al birrificio, dopo aver preso in mano anche l'attività di quest'ultimo ha prima esternalizzato la produzione del mosto al birrificio Boon, ed infine chiuso entrambe le attività nel 2002. E' così che l'allora venticinquenne Gert Christiaens, nello scoprire una sera nella sua birreria preferita che quella davanti a lui era una delle ultime bottiglie disponibili, ha deciso di dimenticare i passati studi di economia e informatica e rispondere all'appello del vecchio birraio per trovare un successore. Dopo due anni di studi a Lovanio e la pratica sotto la guida di Henri, Gert ha riavviato la produzione nel 2005 - di qui lo slogan "Beer traditions reborn", tradizioni birrarie rinate - insieme a Roland de Bus: prima con la Bersalis Tripel - una bionda ad alta fermentazione di produzione più "rapida" per raccogliere liquidità, dato che le birre acide necessitano da uno a tre anni di maturazione -, e l'anno successivo le prime lambic giovani e kriek hanno visto la luce - pardon, la bottiglia. Oggi la produzione è arrivata a 2800 ettolitri annui, e gli attestati dei premi appesi alle pareti - "il Wall of fame", l'ha battezzato Gert - non si contano. Una onlus locale organizza visite guidate ogni settimana - finanziando così l'associazione e portando clienti al birrificio al tempo stesso -, che si concludono nel fornitissimo spazio vendita e degustazione - notevoli anche i cioccolatini da abbinare, prodotti da un'altra associazione. Insomma, qui si fa business, e lo si fa in maniera coordinata e ragionata.


Gert ci ha guidati in una lunga passeggiata tra le botti - da quelle più antiche in cui era conservato in vino porto, sbarcate ad Anversa, alle più recenti prodotte dal coneglianese Garbellotto - raccontandoci della situazione attuale e dei progetti futuri: per ora il mosto è ancora prodotto da Boon, perché il vecchio impianto non è più utilizzabile e "vogliamo fare un passo alla volta: prima cresciamo, poi facciamo l'investimento". La soglia critica, secondo Gert, è quella - ormai vicina - dei 3000 hl/anno, che permetterebbe di aggiungere un terzo dipendente; "ma non ho fretta, ho voluto salvare questa birra, ed è questo che mi interessa". Una birra che, appunto, è ancora prodotta all'antica maniera e secondo l'antica ricetta, miscelando i lambic dalle varie botti - dato che non sono tutti uguali - per equilibrare il risultato finale, ed ottenere il giusto tono di acidità - "perché di fare aceto sono capaci tutti, basta lasciare lì la bottiglia e aspettare che il tempo passi". Altra caratteristica peculiare è l'assenza di zuccheri aggiunti, anche nel caso della kriek e della framboise: "Tanti addolciscono la birra con lo zucchero per renderla più gradevole ed usare meno frutta - ha spiegato Gert -, ma noi nelle nostre lambic usiamo 400 g di ciliegie per litro e nient'altro. Proprio come si faceva una volta".

Il risultato finale, in effetti, è qualcosa che ammetto di non aver mai sentito prima: un equilibrio encomiabile tra le note dolci e quelle acide, e un gusto di ciliegia particolarmente intenso che si sposa con entrambi i sapori lasciando un finale in cui l'acidulo del frutto si confonde con quello della birra. Anche il lambic liscio di due anni che ho provato aveva un'acidità morbida e non aggressiva, intensa senza essere pungente; mentre la geuze rivela profumi ed una dolcezza inaspettata al palato, quasi fruttata, che rende poi giustizia alla sua natura di birra a farmentazione spontanea con un tocco di acidità finale.

Anche se non siete appassionati di birre acide, qui vale la pena provare: se non altro per la soddisfazione di poter dire di aver bevuto la birra "come una volta"...

martedì 24 marzo 2015

Cinghiali, folletti e birra

Alzi la mano chi di voi conosce Bastogne: tranquilli, non la conoscevo nemmeno io. Trattasi di una cittadina di neanche 15 mila abitanti nel cuore delle Ardenne, che deve la sua fama - ma non in Italia, dato che è un capitolo di storia che non studiamo - all'assedio che i nazisti vi posero durante la seconda guerra mondiale; e di cui fa oggi memoria un interessantissimo museo interattivo, che ho scoperto praticamente per caso - ma che ho visitato con grande piacere.

Già, perché in realtà non era per quello che ero lì; ma per visitare la Brasserie de Bastogne, di cui avevo conosciuto il mastro birraio Philippe Minne al Beer Attraction di Rimini. Ammetto di aver avuto le mie difficoltà a trovare il birrificio: trattasi infatti di un capannone in mezzo ai campi nell'azienda agricola di Philippe Meurisse, agricoltore biologico con cui il suo omonimo collabora. Mascotte del birrificio sono il cinghiale, animale tipico di queste zone, e Trouffette, folletto della tradizione popolare: ed entrambi compaiono infatti nelle etichette delle otto birre prodotte.

Come dicevamo, il birrificio non ha grandi dimensioni, ma questo non ha per ora ostacolato le sue capacità di crescita: aperto nel 2008, è andato praticamente raddoppiando di anno in anno la produzione fino ai 1040 ettolitri del 2014, di cui il 50% venduti oltre confine. Anche in Italia: a sentire Minne, infatti, nel nostro Paese arriva il 20% della loro produzione.


La linea base è detta appunto "La trouffette" nelle sue varie versioni - tutte rigorosamente di stile belga, ad alta fermentazione: bionda, rossa, ambrata e blanche. Di queste ho assaggiato la bionda, che ho trovato distinguersi per un aroma floreale particolarmente intenso che continua con le stesse note anche nel corpo rotondo, per chiudersi poi con una luppolatura fresca e un amaro delicato. Una versione più leggera delle classiche belgian ale - anche contando che fa solo 6 gradi -, adatta anche a chi preferisce sapori e gradazioni meno "importanti".

Interessante, per quanto sia venuta meno incontro ai miei gusti personali, anche la Bastogne Pale Ale: una base di Ipa a cui è stato aggiunto il farro - coltivazione tipica della regione -, creando un connubio del tutto peculiare tra questo e i toni erbacei ed agrumati dei luppoli tipici di questo stile. Se vi aspettate una Ipa, sicuramente rimarrete perplessi perché il risultato finale è del tutto diverso: tende infatti ad avere più spazio il cereale, e sono anche in questo caso non troppo intensi sia l'aroma, che il corpo, che il tenore alcolico - 5 gradi. Del resto, è questa la linea che Minne ha affermato di seguire: ok la tradizione belga delle alte gradazioni, ma con moderazione, devo poter bere senza troppi pensieri.


La chicca della casa è però indubbiamente la saison, che sotto il profilo dell'intensita aromatica e del corpo fa eccezione riuspetto a questa linea: già di per sé una birra ben speziata, con intense note di pepe e chiodi di garofano e luppoli hallertau e cascade in dry hopping, viene poi fatta rifermentare in bottiglia con l'aggiunta di brett. Il risultato è una rosa di odori e di sapori che si susseguono - dalle spezie, all'erbaceo e floreale dei luppoli, per chiudere con i toni acidi del brett - senza però cozzare, generando una sequenza armoniosa; e la persistenza acida lascia poi la bocca "pulita", pronta al sorso successivo. L'etichetta riporta la dicitura "Bière sauvage", birra selvaggia, e la figura di un cinghiale: e in effetti bisogna dire che, dati i sapori intensi, la definizione ci sta...

giovedì 12 marzo 2015

"Vide tra la folla quella nera signora"

Come avrete intuito, sono qui a rendervi conto di una nuova incursione al Samarcanda di Plaino: e questa volta su esplicito invito di Beppe e Raffaella, perché "ne abbiamo una che devi assolutamente assaggiare, fai presto prima che finiamo il fusto". Trattavasi della imperial stout - "nera signora", appunto - della danese Mikkeller, la Mikkeller Black Hole, e mi spiace per voi ma devo usare il passato: sono infatti arrivata giusto in tempo per l'ultima mezza pinta - e vi garantisco che, contando i 13 gradi alcolici, era sufficiente.

La schiuma dai riflessi scuri tanto quanto il colore della birra stessa e ben pannosa, quasi solida - tanto che c'è da divertirsi nell'addentarla - è degna delle migliori birre del genere; e sprigiona un aroma di cioccolato particolarmente intenso, che si unisce a quello di liquirizia. Il corpo è denso tanto quanto la schiuma, tanto da apparire quasi cremoso al palato; e qui dominano piuttosto i sapori di caffè, tanto da ricordarmi l'ottimo liquore che fa mia suocera - grazie Serenella, che ci rifornisci sempre così generosamente. La chiusura vira all'amaro, e per quanto inizialmente sprigioni in maniera abbastanza forte i sentori alcolici, questi durano solo un attimo: in altre parole, saranno pure tredici gradi, ma la mezza pinta scende assai bene, e forse potrebbe scenderne anche una intera. Ottimo sarebbe stato un abbinamento con un cioccolato fondente o delle mandorle, per non parlare dell'ottimo birramisù che uscirebbe da uuna bagna del genere. Indubbiamente una rarità all'interno del genere insomma, che vale la pena provare.

Come dicevamo, sono arrivata ad accaparrarmi l'ultima mezza pinta: così Enrico ha ripiegato - si fa per dire - su una Maredsous Tripel, una belga d'abbazia triplo malto dal colore dorato. La chicca del Samarcanda è poi che viene servita nel boccale di ceramica, fatto a mano dai monaci stessi: piccola rarità che Beppe e Raffaella hanno portato direttamente dal Belgio. L'aroma mi ha ricordato in particolare la mandorla caramellata, e anche nel corpo i toni dolci la fanno da padrone tra il malto, il biscotto e il caramello, con una chiusura liquorosa che fa sentire tutta la gradazione alcolica - 10 gradi. L'amaro è quasi del tutto assente, per cui non aspettatevi che vi "lavi" la bocca per il sorso successivo: per cui - parlando di "birre da meditazione" - meditate, gente, meditate...e bevete lentamente...

giovedì 5 marzo 2015

Il ritorno di Foglie d'Erba

Ce n'è voluto del tempo dato che il nuovo birrificio è stato inaugurato a fine dicembre, ma finalmente - approfittando della serata organizzata alla Birreria Brasserie per la settimana della birra artigianale - sono riuscita a riassaggiare le birre del Foglie d'Erba "nuova versione": non nel senso che siano state drasticamente cambiate le ricette - almeno così ha assicurato il birraio Gino Perissutti, che ha presenziato alla serata - ma nel senso che sono appunto parte di questo "nuovo corso". Per l'occasione la Brasserie ha messo alla spina i pezzi classici del birrificio, ossia la Babèl, la Hot Night at The Village a la Hopfelia; e le prime due, peraltro - come testimonia la foto qui accanto -, sono fresche fresche di secondo premio nelle rispettive categorie al concorso Birra dell'Anno di Unionbirrai.

La punta di diamante - e non sono l'unica a sostenerlo - rimane la Babèl (insieme alla Freehweelin' Ipa, ma questa un'altra storia): una American Pale Ale dalla luppolatura generosa come poche, e dall'aroma che personalmente - in barba a tutte le descrizioni che ne magnificano i toni agrumati - trovo così intenso da virare all'erbaceo tanto è acre. Toni pungenti che si confermano anche al palato, lasciando poi una persistenza amara e secca in cui però ritorna anche l'agrume; facendo sì che anche chi - come me - non apprezza troppo che si esageri su questo fronte possa bersene due pinte senza colpo ferire - e senza nemmeno rendersene conto, soprattutto. Insomma, direi che dopo tanto tempo che non la bevevo ha confermato i buoni ricordi.

Mi ha invece sorpresa - e positivamente - la Hot Night at The Village, la porter di casa Foglie d'Erba: non ricordavo infatti i profumi di vaniglia così netti, che quasi sovrastano il tostato tipico di questo genere. Tostato che però ritorna in forze nel corpo decisamente robusto per una porter, che lascia un lungo finale di caffè particolarmente intenso. Quasi da bere a fine pasto al posto della "tazzulella", insomma: se non altro, invece che nervosi vi renderà piacevolmente rilassati...

martedì 3 marzo 2015

Beer Attraction, parte quarta: di tutto un po'

No, non è per sminuire i birrifici di cui parlerò in questo post, che hanno la stessa dignità di quelli ai quali ho dedicato un post intero; semplicemente, per amor di sintesi, ho deciso di riunire quelli di cui - vuoi perché il tempo ormai stringeva, vuoi per la necessità di conrtollare il tasso alcolico - ho provato una birra sola o al cui stand mi sono fermata poco tempo, ma che ho comunque considerato meritevoli di una menzione.

Iniziamo dal Birrificio Pontino di Latina, al cui stand campeggiavano spine dalle etichette curiose come "La spaccapalato", "La zitella" e "Magic Circe" - naturalmente ciascuna con la sua storia. Come birra più rappresentativa del loro repertorio mi è stata indicata la Runner Ale, una american pale ale pienamente in stile e senza particolari vezzi, dal corpo delicato pur senza risultare annacquato. Anche in questo caso, dunque, una birra "pulita", che prima che per l'originalità mira a farsi apprezzare per il buon risultato raggiunto senza uscire dagli schemi; e c'è da dire che il Pontino in quanto ad originalità comunque non manca, dato che vanta operazioni più audaci come la 41mo parallelo - una fermentazione spontanea con agguinta di brett e kiwi giallo dell'Agro Pontino - e la Orange Poison - una ale con zucca mantovana, mostarda di frutta, senape, pepe, mandorle amare e noce moscata.

E una buona originalità pur senza voler stupire a tutti i costi vanta anche il ferrarese BiRen, di cui ho provato la weizen Charlotte: probabilmente una di quelle che più rende giustizia all'importanza dei lieviti in questo stile, caratterizzata da un notevole aroma di banana. Mi è rimasta quindi la curiosità di assaggiare una delle loro stagionali, la Extra Charlotte, una weizenbock da sette gradi e mezzo ottenuta a partire dalla Charlotte di cui sopra: uno stile che non ho mai provato prima, e dalle buone premesse vista la birra di base.

E sempre rimanendo in tema di weizen, merita una mezione anche quella del birrificio Batzen di Bolzano: anche in questo caso notevoli gli aromi - qui tendenti quasi allo speziato, pur non tralasciando né la corposità del lievito né il fruttato - e piacevolmente rinfrescante, con un finale leggermente più dolce rispetto alla media dello stile. L'ho peraltro trovata ottima in abbinamento al tipico pane altoatesino ai semi di finocchio, proposto come "stuzzichino" in degustazione: le leggere note speziate si sposano egregiamente con il sapore deciso del finocchio, per quanto non l'avrei detto prima di provarlo.

Da ultima quella che definirei in primo luogo una curiosità, ossia l'idea del birrificio La Casa di Cura - "perché i nostri sono elisir curativi" - di Crognaleto (Teramo): ciascun lotto della loro ipa monomalto e monoluppolo - battezzata T.S.O. - vanta infatti un luppolo e una spezia diversi, così che ogni volta è una sorpresa. Si va dal luppolo chinhook con gli aghi di abete douglas, al luppolo amarillo accostato al timo serpillo, all'east kent golding con aroma al melograno. Insomma, un po' come le scatole di cioccolatini, direbbe il buon Forrest Gump: non sai mai quello che ti capita...


lunedì 2 marzo 2015

Beer Attraction, parte terza: il ritrovo dei vecchi amici

Naturalmente al Beer Attraction c'erano diversi birrifici che già conoscevo; e per quanto il moi proposito fosse quello di rivolgere la mia attenzione ai nuovi, almeno alcuni non ho potuto mancarli se non altro per provare alcune novità: il Croce di Malto, il Birrificio di Cagliari, l'Argo e l'Elav.

Del primo ho assaggiato la "Che bella Gose" - brassata in collaborazione con Civale e Montegioco -, il cui nome scherzoso già rivela lo stile: la Gose è infatti una - poco nota in Italia - birra di frumento originaria della Sassonia, la cui peculiarità è quella di essere fatta fermentare con acido lattico e aromatizzata con coriandolo e sale. Tra me e gli altri avventori l'abbiamo scherzosamente definita "entry level per le acide", nel senso che ha un sentore acidulo piuttosto leggero se confrontata con lambic e simili: anzi, lascia quasi una puna punta di dolce, prontemente bilanciata dal sale che crea un curioso gioco di contrasti.

Del Birrificio di Cagliari ho invece provato la Meli Marigosu - letteralmente "miele amaro" -, una saison aromatizzata al miele di corbezzolo che è, appunto, più amaro degi altri mieli. Devo essere onesta: non l'ho trovata affatto amara, anzi. I sentori di miele all'aroma sono parecchio decisi così come lo sono nel corpo, e la persistenza dolce non è in questo caso bilanciata dall'amaro del luppolo e tende ad essere abbastanza lunga. Intendiamoci, non è una cattiva birra: forse ha semplicemente deluso le mie aspettative rispetto al nome, ma di fatto non presentava difetti. O forse avevo del birrificio di Cagliari un ricordo troppo bello della Figu Morisca - vedi il post precedente che ho linkato sopra -, che ho infatti riassaggiato con estremo piacere e che, per quanto possa far gridare al sacrilegio ai puristi, penso sia la meglio riuscita tra le loro creazioni.

Assai peculiare anche la Threesome dell'Argo, una imperial red ale - per i non adepti: una rossa ad alta fermentazione un po' più "tosta" - invecchiata per sette mesi in botti di pinot nero della cantina Haderburg. Notevoli i tocchi resinosi soprattutto all'aroma, per passare ad un corpo caldo con una punta di acidulo che ricorda il vino che l'ha preceduta. Indubbiamente una curiosità da provare ma certo non molto beverina, anche dato il discreto tenore alcolico (7 gradi).

Da ultimo la Cybotronic, una Imperial Ipa dell'Elav: un'evoluzione del genere al momento più in voga che si distingue perché all'olfatto ancor più dell'agrumato del luppolo simcoe - da notare che è una single hop, utilizza cioè soltanto questa varietà - riasaltano le note di miele del malto. Note che si confermano altrettanto intense nel corpo - per gli addetti ai lavori, stiamo parlando di un mosto ben robusto da 20 gradi plato. Anche questa insomma una particolarità da centellinare, con i suoi quasi nove gradi. Ultima nota sull'Elav: a settembre sarà a regime la loro azienda agricola per la produzione di luppolo e frutti rossi, ed è stata avviata una collaborazione con la pasticceria Ferrandi per la produzione di ganache alla birra ed altri dolci.

Non me ne vorranno gli altri birrifici che già conoscevo se non sono passata anche da loro: ma con tutti gli stand presenti, vi garantisco che scegliere è stato davvero arduo...