lunedì 17 gennaio 2022

Tra Moretti e Lambrate, la "contaminazione" è - nel bene e nel male - il futuro?

Ha attirato la mia attenzione, alcuni giorni fa, un post di Maurizio Maestrelli - nota firma del giornalismo brassicolo italiano, nonché giudice internazionale. Nel post, Maestrelli riferisce di aver visto alla Birreria Moretti del Mercato Centrale di Milano la birra artigianale del Lambrate alla spina; venduta allo stesso prezzo della Moretti Baffo d'Oro, ossia 5 euro per la 0,40 l. Da lì, ha coinvolto i lettori in una sorta di sondaggio:

"Questa cosa potrebbe essere vista come:
A. contaminazione/confusione
B. alto tradimento
C. il futuro
D. bravi tutti (gestori del locale, Birra Moretti, Birrificio Lambrate)
Io voto C e D. Ma con un sorriso amaro sulle labbra pensando a un passato nemmeno troppo lontano".
 
In molti hanno risposto, motivando in maniera anche parecchio argomentata la propria posizione. Si potrebbe dire che, come per tutte le faccende complesse, ciascuno dei punti di vista ha la sua parte di verità. Senz'altro equiparare sia nella collocazione che nel prezzo due prodotti completamente diversi (per tipologia, per costi, volumi e filosofia di produzione, ecc) risulta fuorviante per il consumatore che non li conosca adeguatamente; oltre a porre domande su quali strategie commerciali e quali accordi ci siano dietro ad un prezzo unico di questo tipo - che visto così e senza saperne di più risulterebbe evidentemente penalizzante per un birrificio artigianale, ma che altrettanto evidentemente poi così penalizzante non è se Lambrate ha accettato. Se il punto B è più, definiamolo così, ideologico - e proprio di chi vede in qualsiasi concessione ai birrifici industriali una resa inaccettabile -, il punto C fa riferimento a quello che è ormai da anni un auspicio e un timore al tempo stesso: che le birre artigianali escano da quella che è vista da molti come una "riserva indiana", per accostarsi ad altri prodotti di più largo consumo e quindi al largo pubblico - con gli inevitabili pro e contro del caso. Il punto D è, se vogliamo, una conclusione che se ne può trarre: bravi tutti se riescono a trovare un modo che avvantaggi ciascuna delle parti in causa per tenere insieme due mondi percepiti come separati.

Come dicevo, le opinioni sono state variegate; ma ha attirato in particolare la mia attenzione il fatto che la più gettonata sia stata la C, in quanto scelta sia da chi ha votato l'accoppiata C e D sia A e C. Insomma: sia chi lo vede come un fatto positivo (per quanto magari con disincanto, come il commento finale di Maestrelli stesso lascia intendere) sia chi viceversa non lo vede di buon occhio, ritiene che è ad una convivenza tra proposta di birre artigianali e industriali - con le conseguenti, se non omologazioni, quantomeno forti convergenze anche in termini di prezzo - che si arriverà. Nodo chiave, sostengono in molti, è quindi la comunicazione che ciascun marchio deve fare per trasmettere la propria differenza - o, usando un termine molto caro alla narrativa aziendale, unicità.

Niente di nuovo, intendiamoci: della necessità di uscire dalla nicchia - perché il 3,5% dei consumi è una nicchia -, di come farlo e della conseguente necessità di comunicazione corretta si parla da anni; per quanto esista anche una componente che sostiene viceversa l'inconsistenza dell'imperativo della crescita a tutti i costi, e propende piuttosto per una sostenibilità aziendale basata su una piccola scala cucita su misura alle proprie necessità in quanto a capacità produttiva, tipologia di prodotto e modello distributivo. Mi ha sorpresa tuttavia questa convergenza, vista da alcuni come obiettivo da raggiungere e da altri come ineluttabilità; e mi sono chiesta come la pandemia possa aver influito anche su questi modelli.

Non è ignorabile, infatti, che dopo ormai quasi due anni di chiusure e aperture a singhiozzo i birrifici abbiano bisogno, come qualsiasi altra azienda, di tornare a vendere i loro prodotti; e possibilmente di farlo con significative crescite (come quelle che in effetti si sono registrate con le riaperture), così da tamponare - letteralmente, verrebbe da dire con amara ironia - i danni patiti. Non solo: ma anche di avere una certa garanzia di stabilità in questa crescita, così evitare da un lato di avere la birra che langue in magazzino nei mesi invernali - soggetti a chiusure più o meno improvvise in base all'andamento dei contagi, e quindi allo stop agli ordini da parte dei pub - e dall'altro di non riuscire a soddisfare le richieste nei mesi estivi, quando sembra che tutti debbano finalmente recuperare le pinte mancate nella stagione fredda. E questo al netto della spinta data dall'e-commerce, fenomeno nuovo non nella sua esistenza in quanto tale, ma nella dimensione che ha assunto a partire dal 2020 (tanto che diverse ricerche confermano che, per quanto tenda a calare con le riaperture, si mantiene comunque a livelli superiori rispetto al pre-pandemia).

In questo senso, avere una piazza come il punto vendita di un birrificio industriale al mercato centrale - che quindi raggiunge una quantità significativa di clienti, in maniera più stabile rispetto ad un pub, e clienti che magari mai si sarebbero accostati ad una birra artigianale (e non sia mai che un domani vadano direttamente al pub di Lambrate per provare anche il resto del parco birre, e disposti a pagarle di più) - offre indubbi vantaggi: maggiori, o quantomeno percepiti come tali, dello svantaggio rappresentato dal vendere ad un prezzo più basso (ma qui va evidentemente capito che accordi commerciali ci sono dietro, quali sono i costi di produzione delle due birre vendute a questo prezzo, e quali sono viceversa le politiche commerciali per tutte le altre birre di Lambrate) e dall'eventuale danno d'immagine (che però, se persino chi non approva riconosce che è lì che si arriverà, è lecito ritenere sia meno impattante di quel che sarebbe stato anche solo pochi anni fa). Considerazioni naturalmente che qui porto per il caso Lambrate perché è quello che ha attirato la mia attenzione, ma che possono valere per qualsiasi altro marchio.

Insomma: se davvero riteniamo che questo sia il futuro, probabilmente è come sempre utile lasciare da parte gli estremismi - sia quelli di chi parla di "alto tradimento", sia quelli di chi ritiene che va tutto bene così e sarà la cara vecchia mano invisibile del mercato (a cui ormai non crede più ciecamente nemmeno lo stesso Adam Smith, pace all'anima sua) a fare da sola giustizia in favore della birra di qualità - e fare finalmente davvero un ragionamento più serio e disincantato su nuovi canali di vendita e le necessità comunicative che ne conseguono. Chissà che, tra le tante accelerazioni a processi già in corso che la pandemia ha impresso, ci sia anche questa.