lunedì 31 marzo 2014

Cucinare, parte quarta: la teoria del Kaos

Come già anticipato, tra i vari stand c'era quello di Valscura: probabilmente uno dei birrifici che conosco meglio, per quanto la lista delle loro produzioni sia lunga e non possa ancora vantarmi di averla provata tutta. Dietro alle spine come di consueto c'era Gabriele, che senza nemmeno dire nulla mi ha messo davanti un mezzo bicchiere di Valscura (chi non la conoscesse, legga qui). "Assaggiala adesso - mi ha intimato perentorio - . Mi hanno fatto togliere tutti quei malti e quelle spezie che danno il sentore di cioccolata, è rimasto solo quello di caffè. Mah, a me piaceva di più prima".

In effetti, uno dei capisaldi della scuola di pensiero di Gabriele è la sperimentazione: per quanto ammetta che parte della bravura di un mastro birraio artigianale stia nella capacità di saper riprodurre esattamente la stessa birra, appunto perché le variabili sono moltissime e difficili da controllare, dall'altro diffida dal considerarsi "arrivati" quando si ha messo a punto una ricetta e dal ripeterla sempre identica - cosa che, a volte, è una battaglia persa.


E a questo proposito l'occhio mi è caduto su una bottiglia che non avevo mai visto, la Kaos Ale. "Nasce proprio per questo - mi ha spiegato -, come birra aperta alla sperimentazione, sempre in lavorazione. Insomma, un grande caos, che in fin dei conti è ciò che muove il mondo". In realtà, la cosa non nasce solo da un'idea balzana di Gabriele: "Diversi birrifici a fine anno brassano con le rimanenze di magazzino - mi ha raccontato -, e ho preso spunto da questo: luppoli che nessuno mai sceglie, o lieviti che di solito vengono usati in maniera diversa". Ogni cotta, quindi, è una cosa a sé: "Si osa, ci si permette anche l'errore. Direi che nasce dal caos mentale nostro". L'unica cosa a rimanere uguale è il grado plato. A dire il vero, nel parlare della Kaos Ale sarebbe meglio usare il futuro: le bottiglie in bella mostra sullo stand a Pordenone erano infatti un'anteprima, non ancora bevibile perché bisogna aspettare il tempo di maturazione necessario. Però se non altro la cosa incuriosisce, per quanto sia ancora presto per esprimersi sui risultati.


Nel frattempo, dunque, meglio darsi a cose concrete: così, data la Pasqua che si avvicina, ho portato a casa una bottiglia di Passionale, la birra pasquale, che ho poi stappato la sera successiva. Se siete amanti dei luppoli e delle birre beverine dimenticatela, ma se vi dilettate nel malto e nei sapori caldi, al contrario, non la dimenticherete: un'ambrata doppio malto a tripla fermentazione, dagli aromi vinosi e da bere a piccoli sorsi, data la complessità del corpo - che ricorda il moscato, unito alle note di malto ben decise  - e la gradazione alcolica - otto gradi. Poco persistente, lascia in bocca un sentore dolce notevole, quasi a far credere che il luppolo non ci sia proprio. Impegnativa, ma che dà soddisfazione alla fine dello sforzo (capirai che fatica). Insomma, ho spuntato un'altra birra da provare nella lista di Valscura; ma, se adesso parte la produzione della Kaos Ale, in fondo non si arriverà mai...

giovedì 27 marzo 2014

Cucinare, parte terza: un altro sorso di Tazebao

Il secondo volto noto che ho ritrovato è stato è stato quello del buon Giorgio Petrussa, del birrificio Tazebao di Trieste: una conoscenza fatta a Friulidoc, e della cui birra ambrata avevo già avuto modo di magnificare le virtù in questo post. Specie insieme al Pan di Sorc - altro stand che ho peraltro ritrovato a Pordenone -, che sebbene fosse un abbinamento casuale perché in quel momento non avevo altro, con la sua speziatura è risultato non essere del tutto fuori luogo.

Con l'occasione ho scoperto che suddetta ambrata ha pure un nome, ossia Mittelbeer - il che non stupisce in una città come Trieste, considerata la porta della Mitteleuropa; ma anche che il Tazebao brassa diverse altre birre, nella fattispecie la Tazebier (una chiara ad alta fermentazione), la Tazeweizen (e questo lo capite da voi), la Taz'zero (un'analcolica: sacrilegio!) e la Smoked Bier (una rossa ad alta fermentazione).


Ad incuriosirmi è stata appunto quest'ultima, che non avevo mai provato, tanto più che le rosse sono in genere le birre più nelle mie corde. Come si può intuire dal nome stesso, e come mi ha confermato Giorgio, si tratta di una birra affumicata: sostanzialmente lo stesso metodo lavorazione usato per l'affumicata di Sauris che avevo spiegato in questo post, e che prevede l'uso di malto affumicato (nella foto qui sotto).

In effetti al gusto l'affumicato risalta bene, dando a questa birra una corposità che magari può risultare "impegnativa" data la notevole maltatura; all'olfatto però, prima di sorseggiare, avevo percepito un nettissimo aroma di banana. E questo che c'entra, ho chiesto a Giorgio? Non nel senso che lo trovassi sgradevole, semplicemente non me lo sarei aspettato. "Beh sai - ha spiegato - a volte, nel mescolare i vari ingredienti, saltano fuori profumi un po' a sorpresa". Già.

Non saprei dire quale ho apprezzato di più tra le due: indubbiamente entrambe hanno la loro particolarità. Certo è roba forte a livello di gusto, per cui devono piacervi le birre corpose e ben maltate; ma se è questo che cercate, indubbiamente vale la pena provare...

mercoledì 26 marzo 2014

Cucinare, parte seconda: vento d'estate

Come già accennato, al Cucinare ho ritrovato parecchi vecchi amici; e - non per una questione di preferenze, ma semplicemente perché sono stati i primi tra questi che ho trovato lungo il mio percorso - la tappa iniziale l'ho fatta per salutare i mastri del Baracca Beer di Nervesa. Li avevo conosciuti al festival di Fiume Veneto, e in questo post avevo descritto due delle loro birre: la Desideria, una blanche, e la Oppium, una imperial stout (che all'epoca era ancora in fase di lavorazione).


Dato che l'impressione era stata buona sia per l'una che per l'altra, a questo punto diventava d'obbligo - per quanto non fosse ancora stagione - provare la novità della casa: la Summer Air, una summer ale (appunto), che significativamente raffigura nell'etichetta l'aereo del celebre asso della prima guerra mondiale (perdonatemi la citazione dai Peanuts, ma è più forte di me) Francesco Baracca e la data "15-18", in vista del centenario della Grande Guerra.

In effetti, come dice il nome stesso, è una birra tipicamente estiva: bassa gradazione alcolica (3,7 gradi) e da bere ben fredda (la temperatura di servizio consigliata è 5 gradi). All'interno della rosa di aromi agrumati si riconosce bene il bergamotto (anche senza leggere la descrizione...giuro che non ho barato!) e il corpo è molto leggero, il che - data anche la luppolatura fresca ma non eccessivamente persistente - la rende ben dissetante e beverina. Il finale, del resto, non mi è sembrato particolarmente amaro (checché ne dicesse la scheda di degustazione), e rimane ben secco. In tutto e per tutto una buona birra, che però - forse perché non sono queste il mio genere - non mi ha "colpita".

Ammetto infatti di aver apprezzato su tutte la Oppium, che nel panorama delle stout è tra le più particolari che mi sia mai capitato di assaggiare, unendo in maniera assai peculiare aromi di caffè, cioccolato, tabacco, liquirizia e uva passa, il tutto chiuso da una notevole persistenza tostata. Però, a dire il vero, sono passati mesi da quando l'ho assaggiata. Toccherà passare da Nervesa per fare il bis...

martedì 25 marzo 2014

Cucinare, parte prima: una birra con i "cattivi ragazzi"

Un fine settimana di pioggia, diciamocelo, mette abbastanza tristezza. Specie per una come me poi, che se non respira l'aria pura delle montagne a cadenza regolare va in crisi d'astinenza, non c'è di peggio. Però lo scorso weekend avevo se non altro di che rimediare: in fiera a Pordenone era infatti in corso "Cucinare", il salone dell'enogastronomia e delle tecnologie per la cucina. Naturalmente a presenziare erano in buona parte i produttori locali, per cui ho trovato molte vecchie conoscenze: da Valscura, a Baracca Beer, a Villa Chazil, Zahre, Tazebao e Bradipongo, posso dire che ho rivisto degli amici. Gioco forza, però, a suscitare la mia curiosità sono stati gli stand di chi non conoscevo: tra questi il birrificio Bad Guy, di Cava Manara (Pavia).

Sconosciuto infatti non era solo il nome del birrificio, ma anche lo stile di una delle birre pronte sulla spina - la Foxy Lady - definita come "California common beer": dato che non ne avevo mai assaggiata una prima, era d'obbligo andare a scoprire di che cosa si trattasse. In effetti, mi ha confermato il mastro birraio Nino, questo è l'unico birrificio in Italia - o perlomeno l'unico di cui lui abbia notizia - a brassare secondo questa tecnica: una ricetta nata appunto in California all'epoca della corsa all'oro, quando - a causa della calura di quelle zone - ci si trovò nella necessità di far lavorare i lieviti da bassa fermentazione a temperatura più alte. Una fermentazione "ibrida", che al Bad Guy usano per produrre quello che definiscono "un classico del pre-proibizionismo americano" dal colore ramato.

In realtà, all'inizio, sono rimasta piuttosto perplessa: sarà stato il raffreddore, ma come aroma non sentivo proprio nulla. "No no, tanquilla, è normale - mi ha rassicurata Nino - non è una birra pensata per questo". Va bene, allora assaggiamo. Anche qui, nulla di che: corpo leggero, con note di malto delicate, però...dov'era la particolarità? "No no aspetta, fidati", ha aggiunto Nino. E infatti non sono bastati più di cinque secondi per capire dove stava la peculiarità: un finale notevolmente amaro e assolutamente inaspettato, forse impegnativo per certi versi, ma senz'altro diverso da qualsiasi altra birra che abbia provato prima. Bene, mi sono detta, abbiamo capito il perché della California Common Beer: che altro c'è?

Siamo così passati alla Rocket Queen, una Ipa; "Anzi, una Pipa - ha specificato Nino -, una Pacific India Pale Ale. Però abbiamo preferito commercializzarla con il nome classico, a scanso di equivoci...".Beh, si capisce, anche se magari sul mercato una birra con un nome del genere avrebbe fatto furori. Ad ogni modo, qui il vero gioiello sono i luppoli: ben cinque - tra americani, europei e neozelandesi - su una base di malto Pilsener. E' forse su questa girandola di aromi e sapori che più si nota la maestria del mastro, perdonatemi il gioco di parole, perché risultano ben equilibrati tra loro, in un mix che non finisce per essere eccessivo. Una di quelle birre che ti invita a berne ancora dato il finale discretamente secco, alla faccia dei sette gradi e mezzo che, oltre un certo limite, possono porre problemi.

A questo punto mancava solo la Anastasia, una American pale ale. Diciamo che questa rimane più sul classico del genere: ben luppolata, tendente all'agrumato, con una persistenza amara assai decisa. Buon lavoro indubbiamente, ma ha confermato la mia idea che, per quanto il "pezzo unico" del Bad Guy in quanto a stile sia la Foxy Lady, in quanto a gusto è decisamente la Pipa - checché se ne dica dei doppi sensi.

Ultima curiosità: la ragazza allo stand mi ha raccontato che il nome del birrificio è nato sentendo Dick Cheney, allora vicepresidente degli Stati Uniti durante l'amministrazione Bush junior, dire che nelal guerra al terrorismo avrebbero stanato i "bad guys", i cattivi ragazzi: insomma, si sono scelti un nome che è tutto un programma.

venerdì 14 marzo 2014

Cjarsons e bire (virtuale)

E vabbè, ho volutamente fatto riferimento al titolo di un vecchio post, dove parlavo di una degustazione in cui al forse più celebre piatto tipico della Carnia era stata abbinata appunto la birra; questa volta però, a dire il vero, ad un altro incontro organizzato da Friuli Future Forum sulle paste tipiche di Carnia la birra non c'era. Ma tant'è, come nell'appuntamento precedente, mi sono divertita ad ipotizzare gli abbinamenti. Per carità, solo ipotesi, magari provandoli mi accorgerei di aver preso delle cantonate pazzesche: ma, si sa, fare un po' di esercizio non guasta mai.

L'artista della situazione era Corinna Gortana di Arta Terme, che nel suo laboratorio "Tradizione Carnia" produce artigianalmente i cjarsons - sorta di ravioli, ma solo in quanto ad aspetto: sia la pasta che il ripieno sono infatti molto diversi - rigorosamente a mano: "Per questo la pasta è un po' più spessa - ha specificato -, altrimenti sarebbe impossibile ripiegarli e chiuderli senza romperli".

C'è da dire che di ricette di cjarsons ce ne sono tante quante le donne carniche: quella di Corinna, ha spiegato lei, "è più simile a quella della Valle del But, meno dolce e più improntata alle erbe aromatiche". I cjarsons, infatti, possono essere sia dolci che salati, e anche in questo secondo caso "una punta di dolce serve sempre, sennò non è un cjarson: per questo nel ripieno si usano spesso uvetta, cannella e simili". La pasta dei cjarsons di Corinna è rigorosamente senza uova, e anche un ingrediente tipico di questo impasto, ossia la patata, è usato con parsimonia, "altrimenti la pasta tende a rompersi": insomma, un viaggio tra i trucchi del mestiere, custoditi con sapienza da ormai poche intenditrici.

Ad accompagnare Corinna c'era lo chef Andrea, che ha prestato la sua arte per cucinare al momento le specialità appena descritte: altrimenti, ammettiamolo, sarebbe stato un po' difficile apprezzarle fino in fondo. Il primo assaggio è stato quello dei ravioli alla trota, conditi con panna acida ed erba cipollina: un ripieno dal sapore assai delicato, che la panna, pur accompagnandolo bene, tendeva forse quasi a sovrastare. Urgeva quindi capire che birra lo avrebbe esaltato: dopo accesa discussione, io e Enrico siamo giunti alla conclusione che l'opzione migliore potrebbe essere una Freewheelin' Ipa di Foglie d'Erba, che con l'agrumato iniziale e la luppolatura finale decisa andrebbe a contrastare perfettamente la panna valorizzando tutti i sapori precedenti.

Come secondo assaggio sono arrivati i blecs (letteralmente "toppe") di grano saraceno, che - come forma - ricordano un po' i maltagliati: questo perché, ha spiegato Corinna, venivano ricavati dai ritagli della pasta usata per i cjarsons, che sono rotondi. A 'nvedi tu, non si butta via niente. Questi erano conditi con una crema di burro e acqua di cottura ed una spettacolare - consentitemi di rendere omaggio - salsa allo schioppettino: amara, ma davvero perfetta sui Blecs. Qui ci siamo trovati subito d'accordo sul fatto che l'amaro andasse contrastato con una rossa discretamente maltata, ma non troppo invadente: magari una Rossa Vienna di Zahre, o una Liquidambra (che è un'ambrata, vabbè) di Garlatti Costa, che essendo molto equilibrata nonostante una certa persistenza amara renderebbe un buon servizio.

E' stata quindi la volta dei cjarsons veri e propri, con un ripieno che definire originale è un eufemismo: rhum, uvetta, menta, melissa, verbena, cannella e un tocco di marmellata, conditi con una spolverata di ricotta affumicata, una foglia di maggiorana e "ont". Non chiamatelo burro: si tratta infatti, ha spiegato Corinna, di uno "stadio successivo", in cui il burro - per poter essere conservato in assenza di frigorifero - veniva cotto in fasi lunari particolari, e ripulito dalle impurità grazie all'aggiunta di farina di mais tolta poi a fine cottura. "Molto più leggero e digeribile", ha assicurato, e "con un naturale sapore arrostito indispensabile per accompagnare i cjarsons. Col burro fuso non è la stessa cosa". In effetti sia il ripieno che il condimento sono stati qualcosa per me del tutto nuovo ed apprezzato: spiccava bene la menta, che non mi era mai capitato di accostare a sapori affumicati. E con una rosa di gusti così diversi tra loro, anche ipotizzare una birra non è stato facile: dopo ulteriore lunga discussione, la premiata commissione Chiara&Enrico ha quindi deliberato a favore della Canapa di Zahre, che fa il paio con il ripieno grazie alle note erbacee e floreali.

Da ultimo i ravioli di grano saraceno ripieni di fromadi frant - tipico friulano, ricavato dai resti di lavorazioni di formaggi precedenti - e noci, con fonduta di ricotta e montasio e mostarda di fichi. Devo dire che è stata quest'ultima il tocco di classe, confermando la teoria di Corinna che in queste paste un po' di dolce serve: specie con formaggi come il frant, che non avevo mai provato assieme alle noci e che ho trovato assai interessante come abbinamento. In quanto a birra, se inizialmente ci siamo diretti senza indugi sulla Westmalle Tripel, decisamente caramellata al gusto ma pù amara poi in quanto a persistenza, ci è poco dopo venuto lo sfizio di una Matrimoniale di Valscura, che con le note decise di malti pils e pale ale accompagnerebbe il dolce del piatto senza però risultare eccessiva.

Il problema, in tutto ciò, era che alla fine ci era venuta sete sul serio: per cui, sazi e soddisfatti, usciti di lì ci siamo diretti in birreria...

giovedì 13 marzo 2014

E chi l'ha detto che col malto si fa solo la birra

Dopo la degustazione guidata di birre organizzata nella sede di Friuli Future Forum - di cui avevo parlato in questo post -, che mi aveva lasciata particolarmente soddisfatta, ho accolto con piacere l'invito ad un altro appuntamento, questa volta sul mondo del pane e sulle nuove vie che la panificazione sta prendendo. Sempre sotto l'abile guida di Walter Filiputti, protagonista della serata è stata Ada Pinzano - dal significativo soprannome di "Ada Pan" - titolare del Forno Arcano di (appunto) Rive d'Arcano. Una tipa tutto pepe che, dopo aver fondato in gioventù il primo circolo macrobiotico di Udine "Il risveglio", ha iniziato a fare il pane "per quella gabbia di matti" (parole sue) senza alcuna esperienza pregressa: tutto nasceva come un esperimento, più o meno riuscito a seconda dei casi. Ed è lo stesso spirito che anima oggi il suo panificio biologico, che tiene a definire "un laboratorio" appunto per questo motivo. "Mi piace sperimentare soprattutto con le farine - ha spiegato -: avena, riso, frumento, integrale".

Ad iniziare la sua presentazione è stata quella che a me è sembrata una sorta di mostro, la pasta madre: un impasto la cui lievitazione non si interrompe mai - tanto che va tenuta legata in un panno, in un vaso a chiusura ermetica o in un sacchetto - ed è utilizzato come base per gli impasti successivi. Si fa sempre con la farina bianca, ha spiegato, e ci si aggiunge il malto per stimolare i batteri della lievitazione: ecco qui, ho pensato, dal lievito al malto, il legame tra mastri birrai e panettieri è stretto.

In effetti, man mano che procedevamo in questo viaggio di riscoperta di antiche tradizioni panettiere, non potevo che fare continue associazioni con la birra. Un viaggio che parte dal recupero di cereali un tempo comuni in Friuli ed ora caduti in disuso, come il miglio, che è tornato a popolare i campi grazie al Parco alimentare di San Daniele: "E' piuttosto amaro e si ossida facilmente - ha spiegato la buona Ada -, per cui la farina va impastata subito". Oppure il grano saraceno, che grano non è né cereale perché appartiene alla famiglia delle poligonacee, originario dell'Asia centrale e coltivato in Europa sin dal 1500: "Il gusto può lasciare perplessi perché non ci siamo abituati - ha ammesso -, ma vale la pena provare gusti nuovi nel pane".

Gusti nuovi che molto spesso nuovi non sono, ma semplicemente il recupero di antiche ricette. Ada è infatti l'unica produttrice di Pan di Sorc - chi si fosse perso la spiegazione di che cos'è, clicchi qui e qui - grazie al sapere del vecchio panettiere di Buja, che le ha insegnato a creare questo impasto di farina di segale, frumento e mais cinquantino, tutti rigorosamente coltivati e macinati a Gemona del Friuli; nonché della torta di segala, dal colore scuro, a lei tramandata da una vecchia nonna. Insomma, meno male che con lei lavorano i figli, altrimenti tutto questo lavoro di "salvataggio" andrebbe perso col suo pensionamento.

I collegamenti alla birra di cui parlavo, naturalmente, hanno iniziato ad venirmi alla mente quando - finalmente, dato che tutte queste descrizioni e il profumo di pane nel forno avevano stimolato l'appetito - siamo passati alla degustazione: ciascun tipo di pane o di dolce, infatti, mi richiamava alla mente un diverso tipo di birra. Con il primo, il pane all'avena, dal sapore delicato ma del tutto peculiare, avrei visto bene una blanche che ne esaltasse i profumi freschi senza coprirlo: magari una Blanche de Sarone di Valscura, oppure - rimanendo sulla falsariga delle blanche - una Opalita di Garlatti Costa o una Freya dell'Acelum. La Lunatica di garlatti Costa, che usa appunto il malto d'avena, forse risulterebbe un po' troppo "ripetitiva": non lo so, dovrei provare.

Sicuramente il Pan di Sorc, con la sua speziatura, non è facile da abbinare: il pensiero è andato subito alla Canipa di Valscura, con le sue dodici spezie, ma chiaramente il rischio - eccetto per i palati forti, che sicuramente apprezzerebbero moltissimo - è quello di strafare. Ci sono comunque una lunga serie di birre natalizie, dalla Krampus del Birrificio del Ducato alla Nadal sempre di Valscura, che farebbero la loro parte. In quanto alla torta di segala, poi, reclamava a gran voce una stout: dalla Songs from the Wood di Foglie d'Erba, alla Verdi del Ducato - senza tralasciare le scure come la Valscura e la Orzobruno -, le possibilità sono innumerevoli. Peraltro, aggiungeteci la serie di pane di frumento, plum cake allo yogurt e pane al grano saraceno, e capite come la sete iniziasse a farsi sentire. E vabbè, non sarà un caso che la birra viene chiamata "pane liquido"....

mercoledì 5 marzo 2014

Una calda notte di carnevale

Come credo sia intuibile, una tipa come me preferisce di gran lunga festeggiare il carnevale con una buona birra piuttosto che con crostoli e frittelle (che comunque non disdegno: ma se proprio bisogna scegliere, non c'è paragone). E così ho riesumato il mio autentico vestito cinese in pura seta - o che almeno mi ha venduto come tale una vispissima dodicenne con gli occhi a mandorla al mercato di Porta Portese, facendo da interprete tra il romanesco e il mandarino per l'anziana nonna proprietaria della bancarella - e truccata di tutto punto sono andata con Enrico alla Brasserie, dove Matilde e Norberto avevano preparato una festa di carnevale con estrazione a premi per chi si fosse presentato in maschera.

Come di consueto, ho per prima cosa dato un'occhiata a che cosa c'era alla spina: la Brasserie tiene sempre a rotazione delle birre che diversamente sono disponibili soltanto in bottiglia, e qualsiasi esperto vi dirà che alla spina "è tutta un'altra cosa". Ammetto di non riuscire sempre a cogliere la differenza tra le due opzioni all'interno dello stesso tipo di birra, ma mi sono detta che stavolta ne doveva valere la pena dato che la birra in questione era la Hot Night at the Village (chiamata così in onore del Villaggio della Birra di Siena) di Foglie d'Erba: alias una signora porter che si è agguindicata la medaglia d'oro al Brussels Beer Challenge, nonché un posto d'onore nella mia personale classifica. Gino me ne aveva infatti procurata una bottiglia in occasione di Friuli Doc, che con Enrico avevo gustato a casa con estremo piacere; per cui a questo punto provarla alla spina era d'obbligo.

Rispetto alla bottiglia, in questo caso un di più che offre la spina è sicuramente la schiuma: densa e compatta, quasi cremosa - vabbè, non immaginatevi una Guinness che è tutt'altra cosa, però non c'è male - che offre un ottimo biglietto da visita insieme all'aroma ben tostato ancor prima di aver bevuto un solo sorso. Il corpo, nonostante la tostatura e la maltatura decisa, non è eccessivamente robusto: le note di liquirizia e di caffè, pur ben distinguibili, non sono particolarmente persistenti, così come i luppoli che danno il loro contributo alla rosa di profumi e smorzano il dolce del malto. Una birra che definirei quindi equilibrata nonostante tutto questo bendidio di aromi e gusti, e quindi assai più beverina rispetto ad altre dello stesso tipo - peraltro non è nemmeno molto alcolica, poco più di 5 gradi. Insomma, alla spina o in bottiglia, si conferma tra quelle che più gradisco.

Al di là della birra, una nota di merito va riservata agli stuzzichini che Matilde, Norberto e collaboratori avevano preparato con le loro mani ed elargivano con generosità (fin troppa, oserei dire, sono uscita che ero ben sazia) in occasione del carnevale: soprattutto a
i muffin salati con prosciutto e funghi, particolarmente ben riusciti, e alle fettine di polenta con uovo e formaggio (si, avete letto bene: le avevo prese per una frittata e detto così suona assai strano, però merita). Nota tecnica, all'estrazione a premi non ho vinto nulla. Vabbè, ho capito: da oggi quaresima...

martedì 4 marzo 2014

Al Carnevale di Rodda reloaded

A grande richiesta, interrompo per un po' - anzi, per un post...ok era pessima, chiedo venia - l'argomento birra per tornare su un argomento che già l'anno scorso aveva riscosso parecchio successo: i Pust di Rodda - chi non sapesse di cosa sto parlando, vada a rileggersi il resoconto della mia spedizione 2013 nelle Valli del Natisone cliccando qui.


Dopo la prima esperienza "di assaggio", in cui ho seguito la banda di scalmanati locali nel giro serale delle case dei borghi, questi hanno evidentemente deciso che ero pronta per il passo successivo: partecipare alla sfilata vera e propria, che inizia invece la mattina. Già, inizia: perché dura poi fino a sera, in un lungo pellegrinaggio che tocca tutte le frazioni. A differenza del giro serale, in cui i partecipanti si mascherano come più loro aggrada o non si mascherano affatto, in quello diurno il ruolo principale lo giocano le figure tradizionali del carnevale delle Valli del Natisone: l'angelo, il diavolo, e appunto i Pust, coloratissimi personaggi muniti di una sorta di pinze - le kliesce - usate per combinare i guai più svariati, dallo spargere per il giardino la legna delle cataste ad appendere gli ombrelli alle imposte del piano superiore. Giusto per farsi notare, i Pust sono poi muniti di rumorosissimi campanacci, che scuotono procedendo a passo di corsa: tenendo conto che il carico può arrivare anche a 30 kg, non è cosa di tutto riposo, specie se dura una giornata intera. Aggiungiamoci pure che è severamente vietato andarsene dalle case visitate senza aver mangiato e soprattutto bevuto qualcosa, mentre si allietano le famiglie con le canzoni tipiche del carnevale accompagnati dalla fisarmonica, e si capisce come arrivare a sera sia assai impegnativo. Ma tant'è, è lì che sta il bello.

Ero particolarmente curiosa di partecipare dopo aver intervistato Silvana Buttera, che vive in paese, di professione mascheraia: una delle ultime custodi di una tradizione secolare - che sta fortunatamente trasmettendo al nipote -, che scolpisce nel legno le maschere utilizzate per il carnevale. Era stata lei ad introdurmi alla storia dei Pust - che inizia addirittura nel XIII secolo - raccontandomi la sua: «La passione ce l’ho sempre avuta – mi ha riferito –, tanto che mi sono costruita gli attrezzi da sola; ma solo dagli anni Novanta ho iniziato a dedicarmi alle maschere». Con discreto successo, a quanto pare, dato che è stata chiamata a tenere seminari e simposi in Austria, in Slovenia e in varie zone d’Italia. Oltretutto è pure stata una pioniera, in quanto prima donna a cimentarsi nel campo, nonché fondatrice dell'Associazione mascherai alpini. A dare il via alla sua opera è stato nientemeno che un furto: «Ci avevano rubato la maschera del diavolo, che insieme a quella dell’angelo è la più importante nella tradizione dei Pust – mi ha spiegato –, così ne ho realizzata un’altra». Solo la punta di diamante di una serie di maschere che un tempo erano più numerose: «C’erano anche l’orso, il cane, il gatto, il gallo e la gallina; ora ce ne sono di meno, non è più come una volta. I giovani, che sono rimasti in pochi, vorrebbero trovare tutto pronto, e molto spesso non preparano nemmeno i costumi per le sfilate. E poi una volta si facevano più scherzi, si coinvolgevano di più le persone: ora invece sembra quasi che non abbiano il coraggio di far ridere la gente».


Sarà, ma questi giovani qui di voglia di fare ne hanno parecchia: la mattina di sabato 1 marzo si sono alzati di buon'ora, hanno indossato i costumi - e fidatevi che ci vuole un po' di tempo -, e alle 9 erano già a combinare guai in giro per il paese. Ad aprire il corteo è il diavolo, tenuto alla catena dall'angelo, seguito dai Pust scampananti - per quanto Silvana sostenga che dovrebbe essere il contrario: non so, chiedo lumi. La gente del paese, salvo poche eccezioni, non si offende per gli scherzi - in fondo buona parte di loro ha fatto lo stesso in gioventù - e apre le porte di casa: lì, davanti ad un buon bicchiere, si parte con un repertorio che va dai canti tipici del carnevale (di cui molte nel dialetto slavo locale) alle canzonacce più dissacranti, e tappate le orecchie ai bambini (e a volte anche gli occhi, dati certi siparietti). Insomma, il carnevale recupera qui quella che è la sua radice medievale più profonda: l'unico periodo dell'anno in cui poter fare tutto ciò che non è moralmente, socialmente e magari anche legalmente permesso, sovvertendo le gerarchie e concedendosi ai piaceri della vita. In maniera comunque "sana": non stiamo parlando di un ubriacarsi e di un fare danni fine a sé stessi, ma inseriti in quella che è comunque una dimensione di comunità. Non a caso, a quanto mi hanno riferito gli episodi spiacevoli accaduti negli anni si contano sulle dita di una mano.


A fine giornata ero a dir poco distrutta, ma felice: perché, per quanto mi avessero sempre detto che la gente di lì è chiusa, che se non sei "indigeno" verrai sempre guardato con almeno un po' di diffidenza, e simili, sin dal primo giro di Pust i ragazzi sono riusciti a scardinare tutti i luoghi comuni, a farmi sentire accolta come se fossi nata e cresciuta lì, e a dimostrare che questo non è solo folklore da riesumare una volta l'anno perché "non bisogna far morire la tradizione" (a costo di renderla un fenomeno da baraccone), ma un modo ancora vivo di quel "fare comunità" che in tanti posti si sta perdendo.E colgo l'occasione per ringraziarli.