sabato 28 gennaio 2017

Tra Pordenone e...Brooklyn

Venerdì 27 gennaio ho partecipato, al Palagurmé di Pordenone, alla degustazione dell'americana Brooklyn Brewery. Per gli appassionati di birre Usa non ha probabilmente bisogno di alcuna presentazione; per chi invece non la conoscesse, ricordo che è stata fondata nel 1988 a New York dal giornalista Steve Hindy e dal banchiere Tom Potter, a cui si è unito nel 1994 il birraio Garrett Oliver - che è tuttora l'"anima" del birrificio. Tra le curiosità va annoverato il fatto che il logo è stato disegnato da Milton Glaser, giunto alla celebrità per un altro logo, quello di "I love New York": un marchio d'autore, insomma, non solo per le birre ma anche per la grafica.

L'incontro è stato interessante in primo luogo perché ha permesso, specie a chi come me non ha mai avuto modo di conoscere in prima persona il mondo birrario americano, di notare la differenza di approccio rispetto a quello a cui siamo abituati in patria. E non sto parlando solo di livello dimensionale (per la legislazione americana un birrificio può definirsi "craft" fino a 6 milioni di barili, oltre 7 milioni di ettolitri - Brooklyn ne ha prodotti 275 mila nel 2015, un "nano" -, e se è controllato per non più del 25% da un'altra società), ma anche a livello di marketing e comunicativo. A presentare il birrificio è stato infatti il "brand ambassador" (una sorta di "rappresentante 2.0", definiamolo così) Tommaso "Tommi" Locatelli, che lavora appunto per Brooklyn e Carlsberg Italia, a cui è affidata la distribuzione. E già qui c'è la prima osservazione da fare, ossia che in quel di New York non giudicano evidentemente lesivo della propria immagine di birrificio artigianale farsi distribuire da un'industria. A ciascuno decidere se essere o meno d'accordo, però è da prenderne nota. In secondo luogo, mi ha colpita l'approccio alla presentazione dell'azienda: una serie di slide, foto e video, che ripercorevano la storia del movimento craft negli Usa prima e del birrificio poi con uno stile molto improntato all'intrattenimento, quasi alla spettacolarizzazione (intesa nel senso di "fare spettacolo", senza accezioni denigratorie), facendo parlare il birraio, il fondatore, e altri ancora in una frizzante sequenza di immagini e musica - in un esempio da manuale del tanto decantato "storytelling" d'azienda. Molto "all'americana" insomma, verrebbe da dire, come è naturale che sia; però mi ha fatto riflettere su quanti birrifici italiani - vuoi per la dimensione più piccola che non consente di destinare molte risorse a questo settore, vuoi per un diverso approccio al marketing a livello culturale - usino sistemi altrettanto in grado di "catturare" il pubblico. Ovvio che se poi la bontà del prodotto non c'è la cosa è aria fritta (e, almeno idealmente, non porterà alcun frutto), però senz'altro ampia la platea di potenziali acquirenti specie tra chi è agli inizi del suo idillio con la birra artigianale. Significativo, del resto, che si decida di usare la figura del "brand ambassador" per portare in giro per l'Italia il marchio: una versione appunto più "evoluta" del classico rappresentante, occupandosi di far diventare ogni presentazione del prodotto un vero e proprio evento. Nulla che già non si faccia da qualche tempo, certo; però la cosa mi ha interpellato rispetto a quali vie i piccoli birrifici italiani intendano percorrere in questo senso.


Detto ciò, torniamo a noi. Prima dell'evento ho avuto modo di fare una piacevole chiacchierata con Tommi, in merito alle vie che la promozione di Brooklyn intende percorrere: in particolare quella dell'abbinamento birra-cibo, per quanto un marchio così intrinsecamente americano come Brooklyn incontri non poche difficoltà nell'essere accostato a quelle che sono le tipicità culinarie nostrane. Sono due, per ora, le birre disponibili (su 57 referenze che ho contato nel listino attuale): la Brooklyn Lager e la Brooklyn East Ipa.

La prima è definita "American Amber Lager": e in effetti l'anima americana compare già in prima battuta nella luppolatura (con tanto di dry hopping) che tuttavia unisce le due sponde dell'Atlantico (Ahtanum, Cascade, Saphir, Vanguard, Hallertauer Mittelfrueh), e rimane di un agrumato delicato. Ad amalgamarsi bene a livello aromatico ancor prima che gustativo è infatti la componente del malto Vienna, tra il caramellato e il biscotto, per un corpo di moderata intensità; e che dopo la sensazione di dolcezza al palato chiude però su un amaro delicato, con un finale meno secco e netto rispetto alle lager di stampo europeo. Mi sono trovata a commentare che, con una luppolatura un po' più carica, sarebbe quasi potuta passare per una apa, data la componente maltata abbastanza vigorosa - ma che non pregiudica la bevibilità. Nel complesso l'ho trovata gradevole e appunto facile a bersi, nonché originale nel panorama della lager.

Siamo poi passati alla East Coast Ipa (da non confondere con le West Coast Ipa, mi raccomando, che gli americani se ne hanno a male: le East Coast hanno una luppolatura che richiama quelle "originarie" inglesi, più resinose, mentre le West Coast più fruttate, autenticamente "del Pacifico"). Sotto la schiuma notevolissima, che addentandola ha rivelato una potente sferzata di amaro resinoso (i luppoli usati sono Summit, Celeia, East Kent Golding, Centennial, Cascade, Amarillo) e fa il paio con l'aroma quasi di pino, si cela anche qui un corpo sui toni tostati e biscottati di intensità medio-alta, che chiude in maniera netta e secca - non gli si darebbero i sette gradi - con un amaro che è meno persistente di quanto la sua intensità potrebbe lasciar supporre. Ho trovato, a onor del vero, un certo retrogusto ferroso; non voglio chiaramente dare giudizi "con l'accetta" al primo assaggio, ma mi limito a constatare che in questo caso e a mio avviso è stato così.

Chiudo citando una frase di Tommi che mi è sembrata racchiudere buona parte del senso della presentazione: "La birra deve dare emozioni: quella artigianale ne dà di più". E se si tratta di un "dare emozioni" non solo con il prodotto, ma anche con la maniera in cui lo si presenta, tanto di guadagnato.

giovedì 26 gennaio 2017

Birrai, birre e birrifici dell'anno

Domenica 22 gennaio sono stati annunciati i vincitori del premio Birraio dell'Anno, promosso dal 2009 da Fermento Birra. Al di là delle dovute congratulazioni ai vincitori delle due categorie - Marco Valeriani del Birrificio Hammer per la categoria senior, e Connor Gallagher Deeks di Hilltop per gli emergenti - come per ogni premio sono da subito corse sui social, se non le polemiche, quantomeno le "osservazioni": cito qui, semplicemente per averla vista comparire sulla mia bacheca di Facebook, la discussione nata su Accademia delle Birre in risposta alla proposta del fondatore, Paolo Erne, di rivedere i meccanismi con cui il premio viene assegnato - così da compensare gli squilibri di rappresentatività che alcune regioni a suo avviso patiscono, e quelli che si creano tra birrifici molto piccoli e quelli più grandi.

Non entro qui nel merito della discussione, che peraltro è stata costruttiva nella misura in cui ha stimolato una serie di proposte - dalla giuria popolare, ad una giuria di birrai, ad un sistema misto di voto popolare, dei birrai e di altri esperti; certo è che per tutti i concorsi, non solo per Birraio dell'Anno, si pone non solo l'esigenza di rimanere "al passo con i tempi" - un regolamento "disegnato" su quella che era le realtà birraria anni fa potrebbe non essere più adatto a quella attuale - ma anche di mantenere il giusto equilibrio tra l'essere una bella manifestazione che riunisce operatori ed appassionati nel segno di una buona bevuta - il "bevi e un rompe er cazzo" di cui alcuni hanno fatto la propria linea guida - e l'andare a scandagliare in maniera tecnica la produzione dei birrifici. Senza contare la serie di "stilettate" che sempre segue l'assegnazione di un premio (perché, si sa, essere tutti d'accordo è difficile): dal ritenere che avrebbe dovuto vincere un birraio (o un birrificio, o una birra) piuttosto che un altro, alle critiche rivolte ad alcuni premi di essere diventati fenomeni "di cassetta" e macchine da soldi, in cui si vince se e solo se si riesce ad investire sia nella partecipazione in senso stretto (alcuni concorsi hanno quote di iscrizione non proprio modiche) che in distribuzione e marketing, o se si hanno certe conoscenze. Di qui la domanda: ma vale davvero la pena "accapigliarsi" per questi concorsi? Un titolo è davvero in grado di fare la differenza per un birrificio?

Ho avuto modo di parlarne con Simone Dal Cortivo de Il Birrone, Birraio dell'Anno 2014 (oltre che titolare di diversi altri riconoscimenti ottenuti per le singole birre). "Molto dipende da come l'azienda è posizionata - ha affermato Simone -. Nel mio caso, si può dire che è arrivato nel momento giusto: avevamo appena investito per rinnovare il birrificio, e questo ha dato una buona mano a spingere avanti e a consolidare la posizione. Certo è difficile dire quanto sia stato dovuto al premio e quanto alle innovazioni che abbiamo portato, però i risultati ci sono stati appunto perché il riconoscimento ha sostenuto il percorso che già avevamo avviato". Secondo Simone il premio è quindi uno strumento, e come tale dipende da come viene utilizzato: "La chiave è essere un minimo strutturati come azienda, sia sotto il profilo produttivo che distributivo, per essere presente sul mercato. Ho visto birrai vincere premi anche prestigiosi, e magari ritornare poco dopo ad un profilo più basso appunto per questo motivo". Insomma, benissimo i premi, ma quando arrivano bisogna essere pronti a cogliere l'opportunità che questi offrono; altrimenti costituiscono sì una gratificazione importante, ma con risvolti pratici limitati.

Un altro habitué dei podi è Gino Perissutti di Foglie d'Erba, Birraio dell'Anno 2011, e presenza stabile nel medagliere di numerosi concorsi; che, interpellato sulla questione, ha dimostrato di avere una quantità di cose da dire inversamente proporzionale ai suoi peli sulla lingua (si sa, i montanari sono gente che non la manda dire). "Ogni concorso va preso per quello che è, con pregi e difetti - ha affermato -. Non val certo la pena di stracciarsi le vesti se non premiati, ma se iscriviamo le birre ai concorsi un motivo ci sarà: da un lato la volontà e curiosità di far valutare i propri prodotti da degustatori qualificati, dall'altro l'innegabile piacere di ricevere un premio". In quanto al caso specifico di Birraio dell'Anno, Gino lo definisce "un concorso a sé, atipico e con diverse contraddizioni. Non nego il piacere di aver ricevuto tale riconoscimento e tanto meno la gioia nel vivere un week-end coi colleghi (ed amici!) in occasione delle premiazioni. Ma prendiamolo con le molle: se vinci non significa che tu sia per forza il più bravo. Ci sono davvero molti birrai altrettanto capaci ed innovativi che non riescono ad emergere, magari perché lavorano in birrifici microscopici con scarsissima distribuzione e non li conosce nessuno. Diciamo che è inevitabilmente un concorso che scende a molti compromessi e che, se non fosse stato trasformato in un vero e proprio evento, sarebbe probabilmente nel dimenticatoio. La mia premiazione è avvenuta in un noto locale romano di fronte a sì e no 30 persone, metà delle quali continuavano a bere la propira birra incuranti del tutto. L'anno successivo arrivai quinto, e in un noto locale milanese gli astanti saranno stati un centinaio. Ora il tutto si è trasformato in evento, organizzato molto bene, al Teatro Obihall di Firenze, e la premiazione avviene davanti a migliaia di persone. Direi che rende l'idea".

Se quindi gli organizzatori hanno avuto, onore a loro, la capacità di far crescere il premio, il vero problema a detta di Gino è "la solita dietrologia italica che spunta ogni volta: se non vendi a Roma o Milano non vinci, se non sei amico del tale blogger non ti fila nessuno, se non hai le birre al tal pub o al tal evento sei fuori. No, semplicemente o fai birre buone con una certa continuità o non le fai. O sei creativo o non lo sei, o hai un certo comportamento con colleghi, addetti ai lavori, pubblico, o non ce l'hai. Per il resto, se accetti i meccanismi che fanno il premio in sé, ok, altrimenti liberissimi di non darvi peso. E' anche un premio difficilmente migliorabile: è e sarà sempre inevitabile che publican, degustatori, blogger o quant'altro vengano influenzati dalle simpatie verso un birraio col quale negli anni si instaura un certo feeling o dallo scarso feeling con qualcun altro. Com'è pressoché impossibile che le birre della gran parte dei birrifici vengano assaggiate nei pub i cui gestori hanno diritto di voto per più volte nell'anno, e con buona diffusione sul territorio nazionale. Dunque, premio importante e gran bell'evento, ma non diamogli troppa importanza". Anche riguardo ad altri concorsi, tra cui Gino cita Birra dell'Anno, "bella atmosfera e bel concorso, anche qui con dei limiti. Se vinci non significa che la tua birra sia la migliore d'Italia: semplicemente lo è stata per quel lotto, per quella giuria, in quella settimana. Sarebbe bello e giusto che venissero valutati lotti diversi, prodotti in momenti diversi dell'anno. Macome si fa? Appunto: compromessi, tutto bello e tutto migliorabile. Sta al singolo accettarlo e partecipare o non darci peso. Basta non scadere in bassezze tipo quelle di chi sosteneva che lo scorso anno ha vinto un birrificio del centro Italia solo perchè la birraia è donna ed era giusto inalzare le quote rosa in un mondo comunque piuttosto maschile e maschilista, perchè davvero mi vien da ridere. Le birre parlano: che sia davanti al cliente "x" che non ne sa e non ne vuole sapere nulla, che sia al banco del miglior pub d'Italia, o che sia altavolo di un giudice ad un concorso, o la birra è buona e piace o non lo è. Tutto qui".

Anche riguardo alle vendite, un premio "certo aiuta per qualche mese. Poi, è sempre il mercato a determinarle. Conosco publican che se ne fregano alla grande dei premi, e anzi ne diffidano forse giustamente. Come ne conosco altri che ti comprano solo per quello, convinti di non sbagliare. Opinioni, scelte, idee. Tutto rispettabile. Per me è e dev'essere sempre il prodotto a parlare, a prescindere da qualunque riconoscimento".



Da ultimo, un invito (al quale accosto, a titolo di buon auspicio, una foto di Gino con altri due birrai, Severino Garlatti Costa del birrificio omonimo e Costantino Tosoratti di Antica Contea): "Ora più che mai, piuttosto che cercare complotti, fantomatiche caste o logge della birra artigianale, disegni atti a creare nuove galassie luppolate ed abbattere mostri sacri divenuti scomodi, porporrei piuttosto due cose: remiamo tutti verso il riconoscimento della vera birra italiana di qualità, che esiste ed è realtà concreta. Uniamoci, piuttosto che dividere il poco che abbiamo costruito in questi anni. Va bene Birraio dell'Anno, va bene Birra dell'anno, va benissimo Unionbirrai. Partiamo da qui e facciamo capire chi siamo e cosa facciamo. Di bello, etico e pulito. E, per finire, godiamoci le nostre birre italiane senza darci troppo peso o importanza. Relax, dont'worry and support you local (Italian) Brewery!".

martedì 17 gennaio 2017

Incontri in quel di Cittavecchia

E rieccomi, dopo un lungo periodo di assenza tra vacanze di Natale e dintorni.
Uno dei miei primi appuntamenti dell'anno nuovo è stato la visita al birrificio Cittavecchia, in quel di Sgonico (Trieste), che già conoscevo ma dove non mi ero mai recata di persona. Si imponeva quindi una visita, anche per fare due chiacchiere in merito al cambiamento intervenuto con il cambio di proprietà l'estate scorsa, quando l'enologo Giulio Ceschin con alcuni soci ha rilevato il birrificio. Non mi soffermo qui sui dettagli della chiacchierata con loro sulla storia del birrificio, sulle ragioni della cessione e sui progetti futuri - che anticipo già saranno oggetto di un articolo a sé, rimanete sintonizzati; quanto piuttosto su alcune riflessioni che suddetta chiacchierata mi ha stimolato.

In primo luogo ci sono quelle legate all'aspetto "pionieristico" di Cittavecchia, che ha aperto nel 1999, tra i primi birrifici artigianali in Italia, ispirato - ancor più che da Baladin o dal Birrificio Italiano, realtà relativamente lontane - da esperienze come quella del Mastro Birraio di San Giovanni al Natisone (il primo ad aprire, nel 1991). La stessa generazione di Zahre, giusto per citarne uno di cui ho parlato spesso, che ha aperto pochi mesi dopo. E in effetti si possono riconoscere caratteristiche comuni: sono entrambi partiti con birre a bassa fermentazione, nel solco della tradizione tedesca - dopotutto qui ha sventolato bandiera austroungarica fino a cent'anni fa -, semplici a bersi e di poche tipologie - quattro quelle "storiche" per entrambi - e per anni hanno mantenuto la loro offerta invariata. I tempi dei birrifici e delle nuove birre che spuntano ogni giorno, nonché delle esuberanti luppolature americane, erano ben al di là da venire; e questi due birrifici hanno avuto evidentemente modo di crearsi un loro pubblico su pochi prodotti consolidati, che non sono stati "scalfiti" nemmeno dagli ultimi sviluppi del mercato birrario che sembrerebbero imporre novità costanti. Certo, i due non sono rimasti fermi: Cittavecchia, partita con Chiara, Rossa e Weizen, ha con il tempo introdotto la strong ale Formidable, la stout Karnera, la natalizia San Nicolò, fino "cedere" alle lusinghe del luppolo con la ipa Lipa; e Zahre, dopo i "cavalli di battaglia" Pilsen, Rossa, Affumicata e Canapa (che ha conosciuto peraltro significative evoluzioni), ha fatto prima qualche sperimentazione con la ipa Primavera e la Coffea al caffè, fino a consolidare la apa Ouber Zahre. Ma il loro nome rimane comunque legato alle birre storiche, che sembrano non patire troppo l'arrivo di sorelle minori - anche perché, azzardo a dire, in virtù della loro semplicità sono appetibili ad un pubblico più vasto.

Chi ha iniziato prima, dunque, fa tuttora della semplicità e della costanza il suo punto di forza? Osservazione certo non generalizzabile - basti pensare appunto al già citato Baladin, che ha invece scelto altre strategie - però i pionieri appaiono più di altri aver puntare su questa via: se da anni fanno quelle quattro birre, e le fanno bene, non sentono evidentemente il bisogno di fare i fuochi d'artificio per dimostrare di sapere il fatto loro - al più perfezionano, perché non si smette mai di imparare, e innovano magari sul fronte del marketing o dei serivizi offerti.

La seconda riflessione è legata al cambiamento di mentalità e del modo di operare nel campo della birra artigianale. Come spiegherò più dettagliatamente nell'intervista, una delle ragioni dietro al passaggio di proprietà è stata la constatazione da parte di Michele (a sinistra nella foto) che i tempi sono cambiati: fare buona birra artigianale è condizione necessaria ma non sufficiente, servono capacità commerciali e di marketing - con relativo personale dedicato, possibilmente - che fino a pochi anni fa non venivano nemmeno prese in considerazione. Di qui la volontà di passare la mano a qualcuno che meglio "masticasse" questi temi, e con cui ritrovarsi su un progetto condiviso di crescita per il birrificio.

E fino a qui, niente di rivoluzionario. Mi hanno però colpito alcune osservazioni in proposito di Giulio, che definendosi "esterno" proveniente dal mondo del vino, si pone da un punto di osservazione diverso da quello dei mastri birrai. "Nel mondo del vino mi sono trovato in un ambiente dove già c'è una cultura e formazione consolidata, dalle scuole di enologia ai sommelier; e devo dire che mi ha sopreso vedere invece come, nel mondo della birra artigianale, molti si siano invece fatti da sé". Senza sindacare sulla bontà dei risultati ottenuti da queste persone, Giulio si è quindi trovato a chiedersi se non serva maggior struttura e una diversificazione della squadra di lavoro che consenta di affrontare le mutate condizioni (così come ha fatto Cittavecchia, appunto) portando un termine di confronto che in queste zone è particolarmente pregnante. "Pensiamo al triangolo della sedia. Tanti imprenditori sono partiti da poveri, sono cresciuti con il boom, e quando gli affari hanno cominciato ad andare male hanno continuato a lavorare come prima e più di prima senza però dare una vera svolta, finendo per ritornare poveri senza nemmeno accorgersi di essere stati ricchi". Se davvero, come alcuni sostengono, nel settore della birra artigianale vedremo un calo dopo il boom, "Non vorrei che succedesse la stessa cosa per mancanza di capacità di capire che, se le cose vanno male, devi cambiare modo di farle - o fare qualcosa di diverso - prima che sia troppo tardi". Un settore insomma, quello della birra artigianale, che - senza voler scimmiottare il vino a tutti i costi, né sacrificare lo spirito che lo anima sull'altare del business - ha ancora da maturare sotto il profilo strettamente aziendale, condizione per espandersi al di là della minima percentuale di mercato che attualmente occupa.

Da ultimo, una menzione sulle birre. Già avevo assaggiato la Chiara e la Lipa, quindi qui riservo due parole alla Formidable, strong ale di ispirazione belga nata come birra di Natale e poi mantenuta come birra a sé. Se al naso il profumo del lievito belga, tra spezie e frutta matura, risalta bene, in bocca mi ha inizialmente ricordato quasi di più le Doppelbock tedesche, con un corpo sì discretamente pieno (ma meno di una strong ale belga "classica"), caldo e maltato, ma senza alcun ulteriore "fronzolo" né reminescenze del lievito di cui sopra - tanto che il finale risultava abbastanza secco e pulito per il genere, con tanto di leggeranota di amaro in seconda battuta. Come c'era da aspettarsi da una birra così, tuttavia, le evoluzioni con la temperatura sono notevoli: e man mano che si scalda si evidenziano di più i profumi, che arrivano a comprendere anche la ciliegia sotto spirito e finanche leggeri toni di legno e di tostato, mentre risalta di più anche la nota alcolica finale - pur non arrivando ad essere eccessiva. Rimane comunque una birra che mi ha dato l'impressione di unire la sensibilità di Michele, più vicino appunto alla tradizione tedesca, con quella belga, volendo mantenere una certa sobrietà pur all'interno dei toni forti.

Di nuovo un grazie per l'ospitalità a Michele, Giulio e Federica, e rimanete sintonizzati per il resto del resoconto!