mercoledì 28 aprile 2021

Chimay lancia la sua nuova birra: la Chimay 150

C'era il tappo rosso, c'era il tappo blu, c'era il tappo bianco, c'era poi la Dorée, e ora ci sarà anche la tappo verde: è la Chimay 150, ultima nata del noto birrificio trappista - per la precisione nel 2012, appunto per i 150 anni del monastero - e presentata oggi per il mercato italiano (dove sarà disponibile dal 1 giugno). Lo spessore della notizia può essere intuita dal fatto che Chimay ha lanciato la sua ultima birra nel 1966, la Triple: letteralmente non cosa da tutti i giorni insomma.


La "tappo verde" all'epoca era stata prodotta in edizione limitata (150.000 bottiglie) per l'anniversario, e solo nove anni dopo si è arrivati alla commercializzazione al largo: cosa che può apparire strana, ma non nuova a Chimay - la stessa Dorée è stata distribuita solo dal 2013, ma già veniva prodotta da molti anni per il consumo locale dei monaci e dei visitatori (come è appunto tradizione dei monasteri). Oltretutto, è storicamente prassi per i birrifici trappisti produrre birre non distribuite - immagino molti lettori avranno già pensato alla Petite Orval.

Si tratta ufficialmente di una Belgian Golden Strong Ale, per quanto - a detta dell'export manager per l'Italia, Alessandro Bonin, rifugga una precisa classificazione in quanto "le birre di Chimay sono nate prima che nascessero gli stili" - da 10 gradi alcolici; e il suoi 20 gradi plato fanno presupporre una notevole corposità. Coerentemente con la tradizione belga, non è il luppolo - Saaz Zatec e Halertau Mittelfruh, quest'ultimo prodotto peraltro localmente - a fare da protagonista (gli Ibu dichiarati sono 27, quindi si tratta di una birra dolce); a distinguerla però, da descrizione, sono i toni balsamici di menta, bergamotto, erbe aromatiche, e le spezie (tra cui una "segreta e preziosa", che Chimay non intende rivelare: per il resto si conoscono zenzero e coriandolo). Naturalmente rimane centrale il lievito, quello proprio di Chimay, e che viene utilizzato per tutte le birre.

Siamo quindi alla quinta birra di Chimay; che, per quanto rimanendo nel solco della tradizione, ha l'intenzione dichiarata di porsi in maniera complementare rispetto a quelle già presenti, giocando la carta di queste peculiarità aromatiche - pur rimanendo nel complesso una birra rotonda ed equilibrata, è stato assicurato.


Come preannunciato dal distributore Stefano Baldan, inizialmente le forniture saranno limitate, e andranno principalmente al "Club Chimay" (circa 80 locali); ma si aprirà poi, già nel corso del mese, anche ad altri ordini. Per ora sarà disponibile solo in bottiglia (le 0,33 da giugno, e le 0,75 da luglio). Sempre da tradizione la birra sarà accompagnata da un formaggio, disponibile in Italia dal prossimo autunno.

Nella conferenza stampa di presentazione non è mancato nemmeno un riferimento alla generale penuria di monaci, che già ha costretto Achel a perdere il logo trappista perché la produzione non può più avvenire sotto la loro supervisione: rischio che si è detto essere scongiurato per Chimay - anche se ricordo che già nella mia visita a Scourmont nel 2015 alcuni monaci mi avevano confidato qualche preoccupazione in questo senso. Certo, da giornalista che si occupa anche dei temi del sociale, non posso che avere un occhio di riguardo anche per il fatto che birra trappista significa anche destinazione degli utili a progetti di sostegno per chi ne ha bisogno, e quindi non posso che aupicare anche sotto questo profilo che nessun monastero cessi la produzione.

Naturalmente non è mancato qualche commento sulla pandemia, e su che cosa significhi lanciare una nuova birra in questi frangenti; e in effetti, per quanto questa non sia stata presentata in un'ottica di rilancio della produzione, ma di dare un segnale di ripartenza e speranza, personalmente ho comunque colto la vololtà di proporre qualcosa di "diverso" (pur senza andare a lanciarsi in stili diversi da quelli propri di Chimay), nel solco di quella pressione al rinnovamento che la pandemia e il desiderio di ripartire stanno più o meno consapevolmente ponendo su tutti noi. Per il resto, non posso naturalmente esprimermi su una birra che non ho ancora assaggiato: attendo con fiducia...

domenica 25 aprile 2021

Birra, si riapre: ma con il rischio di un dialogo tra sordi

Domani nella maggior parte d'Italia si potrà tornare - almeno in parte, posto che non tutti i locali sono nelle condizioni di offrire spazi all'esterno - a bere una birra al pub. "Traguardo" atteso da tempo da molti posto che la modalità di consegna a domicilio o di eventi online, che nel primo lockdown aveva funzionato bene, ha poi dimostrato una certa stanchezza con la seconda e terza ondata; e che in ogni caso publican e birrifici hanno bisogno di "tornare in presenza" per fare davvero il proprio lavoro, sia sotto il profilo del far quadrare i conti economicamente che sotto quello di un'adeguata promozione dei prodotti e servizio ai clienti.

Al di là della grafica fatta circolare da Unionbirrai e qui riportata, che offre senz'altro utili spunti, mi è sorta qualche riflessione; congiuntamente al comunicato che sempre Unionbirrai ha fatto circolare qualche giorno fa, e che trovate qui sotto.

 NO ALLA "SUPERLEGA" DELLA BIRRA ARTIGIANALE ITALIANA
Le notizie che ci giungono da Roma sono a dir poco preoccupanti. In quest’anno di pandemia i birrifici artigianali sono stati sistematicamente esclusi da ogni tipo di ristoro a causa dei meccanismi legislativi più disparati.
In questo contesto drammatico ci viene confermato che gli unici provvedimenti di natura finanziaria relativi alla birra artigianale che verranno discussi in Parlamento prevedono l’innalzamento del limite per l’applicazione dello sconto del 40% sulle accise dagli attuali 10000hl a 50000hl. Tale provvedimento prevede una dotazione finanziaria di 1 milione di Euro e, per quanto di nostra conoscenza, riguarderebbe solo 8 birrifici italiani, ovvero meno del 1% dei produttori presenti sul territorio nazionale.
Unionbirrai ha sempre sostenuto la necessità di avere uno sgravio sulle accise anche per i birrifici aventi produzione superiore a 10000hl, ma con una logica di progressività fiscale, che in questo provvedimento sarebbe totalmente assente.
Un milione di Euro di certo non risolleverebbe le sorti del nostro comparto, ma potrebbe essere una grande boccata di ossigeno per decine di piccole aziende produttrici. Distribuirli a pochi e grossi costituirebbe un messaggio tragico per tantissimi piccoli imprenditori.
 
 
Partiamo dall'inizio: domani, dicevamo, si riapre. E spiace vedere che non c'è molto spazio alla gioia per la buona notizia, quanto disappunto per una riapertura che è percepita come non risolutiva per diverse ragioni - non tutti i pub e tap room dispongono di spazi all'aperto, possibilmente coperti per tutelarsi dal maltempo; esistono ancora pesanti limiti d'orario; la riapertura è stata comunicata poco più di una settimana prima, con conseguenti problemi di approvvigionamento e organizzazione; senza contare chi si chiede se a conti fatti non convenga incassare un pur misero ristoro (per chi l'ha incassato), piuttosto che tenere aperto a queste condizioni.

Mi ha dato molto da riflettere il botta e risposta avvenuto alla trasmissione di La7 L'aria che tira tra il microbiologo Andrea Crisanti - probabilmente il più esposto mediaticamente in tutta la pandemia - e un ristoratore, che a fronte della contrarietà del primo alle riaperture ha ribattuto "Allora mi dia 200.000 euro, perché tanti ne ho persi quest'anno"; ricevendo in tutta risposta la replica "Mi spiace, non sono abituato a questo genere di discorsi, se lei avesse ricevuto i ristori non saremmo qui a parlarne". Ecco, credo che nel "non sono abituato a questi discorsi" stia il nocciolo della questione: è ormai un anno che il dialogo tra operatori economici, politica e scienziati (peraltro spesso additati di avere opinioni contraddittorie, più sul piano mediatico che su quello strettamente scientifico a dire il vero) appare sempre più un dialogo tra sordi. Gli uni paiono "non essere abituati" ai discorsi degli altri, finendo per non capire e non farsi capire, rendendo impossibile trovare una conciliazione almeno parziale tra posizioni inconciliabili. Difficile spiegare a chi vede il mondo dal punto di vista della circolazione virale, potendo contare al tempo stesso su uno stipendio, che non è solo questione di ristori, ma anche della dignità del poter lavorare; così come chi si è più che legittimamente sentito preso in giro da una serie di provvedimenti contraddittori, che hanno imposto requisiti stringenti prima di costringere comunque alla chiusura e senza adeguati sostegni, sarà disposto a dare fiducia a chi dice che è necessario attendere ancora. Non so se queste riaperture potranno costituire l'occasione per tornare a parlarsi trovando un nuovo equilibrio tra gli opposti, per quanto me lo auguri; sicuramente costituiranno un momento delicato per tutti, consumatori compresi, dato che il fattore tempo - perché la voglia di bere c'è ed è tanta, il problema è quando lo si potrà fare davvero, perché potrebbe essere troppo tardi per pub, birrifici e affini - è dirimente. 

In questo si inserisce anche il comunicato di Unionbirrai, in quanto legato agli aiuti previsti per fronteggiare il calo di fatturato dovuto alla pandemia. Ora, chi ha un po' di dimestichezza con l'ambiente potrà facilmente fare quello che gli inglesi chiamano educated guess su chi siano almeno i più noti tra questi otto; peraltro, tra quelli che io personalmente ho individuato, nessuno risulta essere socio Unionbirrai (stando all'elenco pubblicato nel sito dell'associazione). Il che, più che a fare inutile dietrologia su una vera o presunta volontà di Unionbirrai di tutelare i piccoli facendo guerra ai "grandi", porta semplicemente a ipotizzare che effettivamente ci siano esigenze diverse tra i birrifici più piccoli e quelli più grandi di questa soglia, portando a scegliere forme diverse per farsi rappresentare. 
 
Anche qui pare di essere di fronte ad un altro caso di dialogo tra sordi: Unionbirrai era infatti sempre stata chiara su questo punto, come esplicitato nel comunicato; e, a meno di non ipotizzare retroscena di strane pressioni da parte di qualcuno degli otto birrifici interessati (cosa che non ho elementi per fare, e sarebbe davvero notevole se un qualche birrificio in Italia avesse tale peso politico), non si vede ragione diversa rispetto al voler includere qualcuno in più (ben otto imprese, signori!) nella platea di chi riceve un qualche beneficio - poi bisognerebbe naturalmente vedere caso per caso quanto effettivamente questo sconto incida per gli otto "grandi", per capire se questo finisca per essere di fatto un inefficace aiuto a pioggia.

È un messaggio tragico? Tragico non lo so, grave sicuramente sì, perché c'è di che ritenere che i grandi abbiano in generale comunque avuto più strumenti per far fronte alla pandemia: in buona parte sono presenti nella gdo (dove le vendite sono cresciute), sono più strutturati per l'e-commerce; oltre a non essere di fatto imprese familiari, come molti piccoli birrifici sono, con un impatto più pesante sotto il profilo sociale oltre che economico sulle famiglie coinvolte. Investire di più su tante piccole imprese, piuttosto che su poche più grandi, avrebbe sicuramente avuto un ritorno maggiore.

giovedì 8 aprile 2021

La Grape Ale e la battaglia per rimanere Italian: i campanilismi del vino stanno entrando nella birra?

Sta tenendo banco online in questi giorni il dibattito sulla possibilità, resa nota da Gianriccardo Corbo - noto degustatore e giudice diplomato BJCP italiano - che nelle prossime linee guida appunto del BJCP (le ultime risalgono al 2015) non ci sia la tanto attesa "promozione" della Italian Grape Ale (IGA per gli amici) dall'appendice B degli stili locali alla sezione principale: ad entrare tra gli stili ufficiali potrebbe infatti essere una più generica "Grape Ale", senza riferimenti al Paese d'origine. La possibilità è stata giustificata, riferisce sempre Corbo, con il fatto che alcuni Paesi diversi dall'Italia in cui vengono prodotte birre con mosto d'uva hanno chiesto che venisse eliminato il riferimento esclusivo al nostro Paese, così da rimanere neutro a fronte di vitigni provenienti anche da altre parti del mondo.


La motivazione è immediatamente apparsa assurda nell'ambiente birrario: in tutta la classificazione del BJCP gli aggettivi di provenienza legati ad un certo stile non stanno infatti ad indicare il Paese in cui questo viene attualmente prodotto (dato che qualunque stile viene ormai prodotto ovunque), né quello da cui provengono le materie prime (ve la immaginate una Belgian Pale Ale fatta sempre e solo con malto e luppolo belgi?), ma quello in cui lo stile si è originato. Non si vede dunque perché in questo caso l'approccio dovrebbe essere contrario, arrecando notevole pregiudizio al movimento birrario italiano che ha creato questo stile riconosciuto in tutto il mondo: e per questo lo stesso Corbo, oltre ad essersi attivato nei confronti del BJCP, ha promosso una petizione online che trovate a questo link per la firma.

Posta quindi l'evidente incongruenza, rimane da chiedersi: perché? È "solo" una questione di, diciamo così, scarso potere contrattuale (essenzialmente per ragioni storiche) dei birrai italiani, rispetto a coloro - cechi, belgi, irlandesi, americani, britannici - che vantano una tradizione più lunga? O c'è dell'altro?

Non faccio parte del board del BJCP, e quindi non posso sapere quali considerazioni siano effettivamente state avanzate né eventuali retroscena; però, da persona nata e cresciuta tra le colline del Prosecco, dove si combatte a suon di denominazioni d'origine e si litiga su nomi, luoghi e certificazioni da tempi immemorabili, e dove bastano pochi metri di distanza nella collocazione per dire che un terreno corrisponde ai criteri per produrvi Prosecco Docg oppure no, simili rivendicazioni (pur con i distinguo del caso) non suonano nuove. Appena c'è andato di mezzo il vino - o meglio, il mosto - pare che anche per la birra le cose abbiano preso la stessa piega: là dove prima contava l'origine dello stile (anche in tempi come quelli attuali dove le materie prime locali hanno assunto primaria importanza), ora conta quella dell'elemento caratterizzante, che sottostà appunto a logiche e certificazioni diverse; nonché ai ben noti campanilismi e cavilli che coinvolgono i vari vitigni.

Credo quindi che la domanda da porsi, senza voler stimolare inutili antagonismi tra birra e vino che certo non hanno bisogno di essere rintuzzati (tantomeno ora che sono nate significative e promettenti sinergie tra le due bevande), sia quella se vogliamo ricadere nelle stesse logiche, riconoscendo al vino di avere il diritto di pretendere l'eccezione; o viceversa rivendicare che di birra in ogni caso si tratta, e come tale classificarla rendendo giustizia alla storia dello stile.