giovedì 21 maggio 2020

Coronavirus e prospettive future, parte seconda

In questi giorni è giunto nella mia disponibilità uno strumento per analizzare meglio quanto avevo già discusso in questo post (ossia le prospettive che si aprono per i birrifici artigianali in seguito alla serrata per coronavirus): i risultati del sondaggio realizzato dall'Associazione Le Donne della Birra, dal titolo "Birra e nuovi stili di consumo". Va precisato che non si tratta di un'indagine statistica (e quindi effettuata su un campione rappresentativo scientificamente costruito) ma di un sondaggio, ossia una serie di domande fatta circolare al largo; però si tratta comunque di dati di interesse in quanto non solo la sostanziale totalità dei rispondenti consuma birra (ma dai, direte voi), ma quasi l'80% consuma birra artigianale; l'85% consuma birra una o più volte a settimana, con un terzo dei rispondenti operatori di settore (birrai, distributori, publican, sommelier, ecc) e poco più di un quinto homebrewer. Insomma, lo "zoccolo duro" della platea a cui si rivolgono i birrifici artigianali italiani, e le cui opinioni e comportamenti rivestono di conseguenza particolare rilevanza.

Innanzitutto, va notato che solo il 23,5% ha diminuito i propri consumi di birra in quarantena: quasi la metà l'ha mantenuta invariata, e il 31% l'ha addirittura aumentata. Per quanto questo non ci dica nulla sulle vendite totali di birra, ci fa comunque capire che, almeno gli appassionati, non si sono fatti scoraggiare - e anzi, hanno probabilmente colto il lockdown come ragione in più per sostenere i birrifici loro cari.

Nel mio post mi ero però concentrata in particolare sul tema consegne a domicilio e e-commerce: e su questo fronte i dati sono netti. Se prima del lockdown solo il 10,5% dei rispondenti acquistava birra dai siti di birrifici, pub o beershop, e l'11% da piattaforme di e-commerce, dopo la serrata queste percentuali sono salite rispettivamente al 39% e al 22,5%, per il 61,5% di rispondenti in totale che afferma di aver fatto acquisti online. Balzo in avanti prevedibile, ma ciò che è interessante sono le prospettive future: il 52% degli intervistati ha risposto che vi farà ricorso in futuro sicuramente su base regolare o qualche volta, e il 19% che forse lo farà. Un netto cambiamento delle intenzioni di consumo, se contiamo che solo il 21% afferma di aver fatto ricorso all'e-commerce in epoca pre-Covid. I margini per gli aumenti totali dei consumi a cui facevo riferimento nel mio post probabilmente si annidano in quel 28,6% che prevede di far ricorso all'e-commerce "qualche volta", facendo intuire che intende affiancarlo all'abitudine di frequentare pub e tap room; e, se oltre l'80% degli interpellati ha risposto che la birra significa "condivisione e svago", c'è di che ritenere improbabile un passaggio totale dal bere la birra nei locali al bersela chiusi in casa.

Ma anche se gli aumenti totali non ci dovessero essere, non ci sono dubbi (se mai ci fossero stati) sul fatto che i birrifici debbano d'ora in poi attrezzarsi per questa modalità di vendita (cosa che prima non sempre si verificava), direi che ora non li ha più. Del resto, tutti i birrai con cui ho avuto modo di parlare affermano di voler mantenere e-commerce e consegna a domicilio (o il rafforzamento che hanno messo in campo in questo senso durante la serrata) almeno nel medio periodo, anche perché gli ordini tramite questo canale sono per ora sostanzialmente costanti rispetto al lockdown. Certo si impone un ricalibramento delle strategie perché il delivery impone minor marginalità e difficoltà logistiche non indifferenti, però se la virata in questo senso sarà, come pare, abbastanza stabile, potrebbe non essere un male.

L'e-commerce poi ha anche cambiato la qualità del consumo, stimolando a provare birre nuove - che magari non si conoscevano perché non erano disponibili nel proprio pub di fiducia, o non erano di birrifici locali abitualmente frequentati: un altro punto che sollevavo nel post, unitamente alle considerazioni sull'uso delle iniziative di comunicazione via social network - canale da cui oltre la metà degli intervistati riceve informazioni in questo campo. Significativo anche che 7 su 10 intervistati affermino di essere disponibili ad ordinare anche birre sconosciute.

C'è poi un altro dato che a mio avviso vale la pena sottolineare. Il 43% degli intervistati afferma di aver acquistato birra anche dalla gdo, contro il 36% pre-lockdown: prevedibile nella misura in cui il supermercato è stato per due mesi sostanzialmente la nostra unica frequentazione, e di nuovo una carta in più in mano a quei birrifici artigianali presenti anche su quegli scaffali - dato che, se il 77% dei rispondenti afferma di aver acquistato birre artigianali, è lecito dedurre che siano andati a cercare prima di tutto quelle.

Insomma, gli spunti di riflessione per ripartire sono molti, e altri ancora ce ne sarebbero. Personalmente, mi confermano la sensazione già avuta che i cambiamenti imposti dal lockdown saranno almeno in parte permanenti, e che sta ai birrifici usarli in loro favore dopo averli analizzati. Ringrazio l'Associazione Le Donne della Birra per questa iniziativa.

martedì 5 maggio 2020

Una birra a "Bondai" Beach

Come chi mi segue già sa, e come già ho scritto sul Giornale della Birra, ho avuto nei giorni scorsi il piacere di provare le birre del birrificio Bondai: una nuova attività nata da Luca Dalla Torre - che ho avuto occasione di conoscere anni fa nel giudicare nei concorsi homebrewer in regione, dove lui faceva regolarmente incetta di premi - e che si è trovata ad aprire proprio in pieno lockdown - con i pro e i contro del caso, come Luca ha spiegato bene nell'intervista linkata sopra (che vi invito a leggere, anche per avere qualche informazione in più sul birrificio). Un passo, a dire il vero, atteso da tempo e da molti; dato che Luca non aveva mai fatto mistero dei suoi sogni brassicoli, e che le sue birre avevano avuto modo di farsi conoscere ed apprezzare in maniera notevole per un homebrewer anche oltre i confini regionali. Un bene per l'inizio dell'attività, ma forse anche un'arma a doppio taglio: perché si sa che passare dall'impiantino di casa a quello di un birrificio non è facile, e se le aspettative sono alte si rischia di deluderle. Pur fiduciosa in Luca e nella sua ben nota maniacale precisione nel lavoro, ero quindi curiosa di assaggiare le birre uscite dal nuovo impianto - la Pils Beib, la Apa Point Break, la American Ipa Listen e la American Amber Ale Heya!.

In quanto alla prima, devo dire che in rima battuta mi aveva lasciata abbastanza perplessa: non tanto perché avessi riscontrato dei difetti, quanto perché all'aroma e al primo sorso mi era sembrata "la solita Pils" - senza che notassi alcuna "firma" di Luca, che tendenzialmente mira a "stupire". In realtà esibisce poi un peculiare e discretamente persistente ritorno di cereale, che in chiusura si amalgama egregiamente con l'amaro elegante: non un "marchio di stupore", ma quantomeno un "marchio di fabbrica" - per quanto gli stili tedeschi non siano propriamente nelle corde del birraio, che preferisce quelli britannici e americani.



E lo testimonia senz'altro la Apa Point Break: un tripudio tropicale all'aroma (Mosaic, Citra e Amarillo per la precisione), dall'ananas, alla papaya, al litchi; corpo snello ma non evanescente, con leggera tostatura; prima di un finale di un amaro fruttato, morbido e non troppo persistente. Si capisce che è fatta per stupire, ma ha il merito di non stroppiare - nonché di bersi con estrema facilità, pur senza cadere nel ruffiano.


Particolarmente interessante è risultato il confronto con la Listen, in quanto si coglie la precisa volontà di differenziare i due stili (si sa che i confini tra Ipa e Apa a volte risultano sfumati): qui si coglie che la volontà non è quella di stupire con mirabolanze tropicali, ma dando un profilo aromatico estremamente netto, pulito e pungente - dominano i toni tra il resinoso e l'agrumato, con anche una lieve punta erbacea. Corpo biscottato ben sostenuto ma snello, prima di una chiusura nettamente secca ed erbacea. Notevole armonia complessiva.

Da ultimo la Heya!: luppolatura tra l'erbaceo e l'agrumato, sostenuta dal biscottato del malto; corpo molto snello, che lascia il caramello solo sullo sfondo, prima di una chiusura erbacea, secca e netta in cui ritorna anche il biscotto. Personalmente avrei apprezzato un corpo in cui il caramello fosse un po' più robusto, ma non si tratta di uno "squilibrio" tale da nuocere alla gradevolezza dell'insieme.

Nel complesso, direi che il Bondai non ha deluso le aspettative per la partenza: birre semplici ma non banali, pulite e ben costruite. Per certi versi si sente ancora il "tocco dell'homebrewer", quello intento a "fare le pulci" alle proprie birre e a cercare sempre che cosa si potrebbe migliorare. Che come inizio, si dirà, non è male.


sabato 2 maggio 2020

Verso la fase 2...in ordine sparso?

Dopo la lettera da parte del comitato spontaneo dei gestori dei pubblici esercizi milanesi, ho iniziato a fare più attenzione a quelle che sono le istanze di gestori di pub e affini. In particolare dopo l'annuncio del tanto atteso decreto per la fase 2; che, tra stupori e polemiche, ha prospettato al 1 giugno la riapertura di bar e ristoranti (categoria sotto al quale ricadono la grande maggioranza dei pub).

Inizialmente le reazioni erano state di contrarietà: impossibile aspettare così a lungo, molti rischiano di chiudere, consentire soltanto l'asporto non risolve perché genera più costi che incassi. Si sono mossi presidenti di Regione - alcuni, al momento in cui scriviamo, intendono anticipare le riaperture -, associazioni di categoria e singoli gruppi, con tanto di raccolte di firme, flashmob e affini.

Nel giro di poco tempo però hanno iniziato a farsi sentire anche altre voci - che in realtà c'erano anche prima, semplicemente erano passate più in sordina: ossia quelle che sostengono che riaprire in una fase in cui è ancora necessario osservare pesanti misure per evitare la ripresa del contagio sia in realtà, come si dice dalle mie parti, "un tacòn pedo del sbrech" (per i non venetosinistrapiavofoni: una toppa peggiore dello strappo). Posti a sedere ridotti anche di oltre la metà, spese per l'adeguamento dei locali a fronte di pesanti incertezze su quali saranno effettivamente le normative di sicurezza, prospettive di un flusso di clienti assai ridotto: tutti elementi che, secondo i sostenitori di questa tesi, condannerebbero ugualmente gli esercizi pubblici al fallimento. Meglio a questo punto, dicono, prevedere adeguate misure di sostegno pubblico per qualche mese in più (e che queste misure arrivino sul serio, senza i pesanti ritardi visti finora), e per poi ripartire a pieno regime o quasi. Tra queste voci c'è stata ad esempio quella del Comitato HoReCa Lombardia, che la settimana scorsa ha simbolicamente consegnato le chiavi dei propri locali al sindaco di Milano con questa richiesta.

Si può dire che siano due facce della stessa medaglia, e non solo nella misura in cui sono due punti di vista (diversi ma altrettanto legittimi) su come affrontare un problema che è lo stesso per tutti; ma anche perché è ragionevole credere che, a seconda dei singoli casi, possa essere più adatto l'uno o l'altro approccio. Credo ad esempio non sia un caso che il primo punto di vista sia più diffuso in quelle zone che sono state meno pesantemente colpite dall'epidemia, o che comunque vi hanno fatto meglio fronte (e lo vedo concretamente qui a Nordest); nonché che siano evidentemente molti i fattori da prendere in considerazione per valutare se la riapertura convenga o se la chiusura sia ancora sostenibile (l'essere più o meno grandi e strutturati, l'avere più o meno dipendenti, l'avere o meno cucina, essere proprietari o affittuari della struttura, trovarsi in un luogo con più o meno afflusso di pubblico, ed altro ancora). Questo per dire che, come sempre nelle situazioni complesse, sarebbe illusorio voler cercare una soluzione semplice (che sia il "riapriamo tutto senza se e senza ma" o la chiusura ad oltranza).

Senza però voler giudicare le singole posizioni (visto che non sono publican e quindi non potrei mai permettermi di farlo), una considerazione mi sento di farla. Ossia quella che mi dispiacerebbe vedere spuntare i coltelli tra chi vuole riaprire subito, e chi invece invoca il prosieguo della chiusura con sostegno statale. Già ho sentito qualche espressione di astio di una corrente di pensiero verso l'altra, e non vorrei si andasse in peggio. Andare divisi come categoria è spesso (per non dire sempre) pericoloso, e a rischio di trovarsi "cornuti e mazziati" (e no, questo non è un modo di dire veneto). Mi chiedo se sia possibile trovare una posizione di sintesi; o una sorta di soluzione flessibile per cui si possa optare, per un periodo di tempo definito, per l'apertura oppure per la chiusura sostenuta da apposite misure. Sarei felice di ricevere l'opinione di qualche publican o ristoratore in merito.