Ai miei lettori gli auguri di fine anno erano doverosi; e per quanto l'anno nuovo si auguri sempre sereno e pieno di belle sorprese, in questa sede non posso non ricordare che, per gli appassionati di birra e gli operatori del settore, il 2014 non si apre sotto i migliori auspici. In base al Dl 91 dell'8 agosto scorso e al Dl 7 del 30 novembre, infatti, le accise sulla birra aumenteranno da da 2,66 euro hl/grado Plato a 2,70 euro hl/grado Plato dal 1 gennaio, e a 2,77 dal 1 marzo. E si tratta solo della prima tranche, perché dal 2015 sono in arrivo ulteriori aumenti. Tradotto in termini più accessibili, dal 1° gennaio 2014 il peso delle accise passerà dai 28,2 euro per ettolitro prodotto a 32,4 euro di media, per finire a 35,9 euro 1° ottobre 2015. Un incremento di quasi il 15% che, insieme all’aumento dell’Iva dei mesi scorsi, porterà la pressione fiscale sulla birra ad un livello elevatissimo: Assobirra lo quantifica in oltre un terzo del prezzo pagato dal consumatore finale, che con questi incrementi arriverà quasi al 50%. Insomma, sappiate che se pagate una pinta 5 euro, quasi 2,5 andranno in tasse.
Naturalmente gli operatori del settore si sono mobilitati già da tempo: Assobirra ha lanciato la campagna Salva la tua birra, sul cui sito è possibile firmare una petizione per chiedere il ritiro del provvedimento. Al momento le firme sono 54.128 - un po' pochine forse, su 35 milioni di consumatori stimati -, ma è comunque unno strumento di pressione. Peraltro, ricorda Assobirra, "in Italia la birra è l’unica bevanda a bassa gradazione alcolica a
pagare le accise, e da noi le tasse sulla birra sono fra le più alte in
Europa: tre volte quelle di Francia e Spagna". Un'ingiustizia soprattutto nei confronti del vino, che le accise non le paga affatto. E anche se ci possiamo consolare sapendo che i finlandesi ne pagano 143 euro per ettolitro, gli inglesi 108 e gli svedesi 93, e che la media Ue è di 34,5 (dati della Commissione Ue pubblicati da Assobirra; la media invece l'ho calcolata io, se è sbagliata prendetevela con me), tant'è: a pagare meno di noi sono soprattutto i principali produttori (come appunto tedeschi e belgi), penalizzando i birrai italiani sul mercato internazionale.
Non mi dilungo oltre, ma il sito è comunque una miniera di dati interessanti: per esempio ricorda come "Il settore della birra in Italia comprende oltre 500 produttori tra grandi
marchi (14 stabilimenti industriali, 2 impianti produttivi di malto) e
microbirrifici artigianali". Un settore "che sta
creando concrete opportunità imprenditoriali, soprattutto per i
giovani: negli ultimi 5 anni sono nate circa 300 micro aziende birrarie,
con imprenditori nella maggior parte dei casi under 35. Tutte insieme queste aziende producono circa 13,5 milioni di
ettolitri di birra all’anno (dato 2012), che fanno dell’Italia il decimo
produttore in Europa, davanti a Paesi dalla grande tradizione birraria
come Austria, Danimarca e Irlanda. Aziende che creano occupazione: 4.700 occupati diretti (+4,4%
sull’anno precedente), 18.000 fra diretti e indiretti e 144.000 compreso
l’indotto allargato". Per quanto il 70% della produzione sia consumata in patria, poi, "nel 2012 l’export italiano di birra ha toccato i 2 milioni di
ettolitri, il doppio rispetto al 2006". E le aziende produttrici "già oggi contribuiscono alle entrate dello Stato per oltre 4
miliardi di euro annui (calcolando Iva, accise, tasse, contributi
sociali di aziend e lavoratori e tasse pagate dai settori coinvolti a
vario titolo)".
Non sono un'economista né un'esperta di diritto tributario; ma per quanto in linea di principio disincentivare tassandoli i comportamenti non virtuosi - come appunto il consumo di alcolici - possa avere un senso, in questi casi si pone una riflessione in più. Non stiamo infatti parlando di multinazionali del tabacco, ma nella maggior parte dei casi di piccoli birrifici artigianali che devono spesso sottostare alle stesse normative previste per i grandi - con relativi disagi -, e che stanno facendo rinascere un settore in cui è custodito e si sta sviluppando un vero e proprio patrimonio di conoscenze che non esiterei a definire "cultura della birra artigianale". Se la pressione fiscale crescerà a questi livelli, a meno di non ridurre i propri margini di guadagno, i birrai saranno costretti a scaricarla sul consumatore: con relativo rischio che questo rinunci, e conseguente danno per tutta la filiera. E se finora il fatto di rivolgersi ad una sorta di nicchia di appassionati disposti a non tagliare i consumi nonostante la crisi li aveva salvati, questo potrebbe non bastare più. Insomma, la questione è sempre la stessa: le casse dello Stato hanno bisogno di soldi, il problema è dove prenderli. Ma c'è da domandarsi se sia giusto prenderli qui.
Peraltro, Assobirra si è attivata anche per questo: sul sito della campagna è stato lanciato un sondaggio, in base al quale è possibile scegliere tra cinque misure alternative per evitare questo aumento, quantificato in 170 milioni di euro. Per ora, su quasi ottomila votanti, il più gettonato è l'eliminazione dei contributi statali ai partiti e all'editoria politica (43,5%), seguito dal taglio del 6% alle spese per il funzionamento di governo e Parlamento (25,2%) e da quello del 50% ai contributi alle scuole private (18,8%). Proposte certo non nuove: quel che è certo è che si rischia, come sempre in caso di aumento delle tasse sui consumi, che a causa della riduzione di questi ultimi il gettito di fatto diminuisca, come già accaduto sia in Italia che in altri Paesi.
Il mio blog di avventure birrarie, descrizioni di birre, degustazioni, e notizie dal mondo della birra artigianale.
lunedì 30 dicembre 2013
martedì 24 dicembre 2013
Hoppy Christmas
Sì, lo so, è un titolo per soli anglofoni e me ne scuso: ma non ho potuto resistere alla tentazione di "riciclare" il gioco di parole tra "Happy Cristmas" (Felice Natale) e "Hoppy Christmas" ("Luppoloso" Natale), nome di una delle birre natalizie della Brewdog che Matilde mi ha gentilmente fatto assaggiare qualche giorno fa. Ora che so che "è tutta questione di luppoli", tanto di cappello per la mia prima Ipa di Natale: per quanto fossi stata avvertita che "è molto amara, non so se ti piaccia", la rosa di luppoli diversi che si alternano - e che non coprono gli aromi fruttati tipici delle Ipa - fanno sì che questo amaro non risulti "pesante", e che anzi si bilanci bene con le note di frutta. Insomma, promossa.
Ma veniamo a noi. Quella sera ero in Brasserie appunto per la degustazione di tre birre di Natale con relativi abbinamenti gastronomici: la Smokin' hops di Foglie d'erba, la Krampus del Birrificio del Ducato, e la Rudolph di Garlatti Costa. Tre nomi di tutto rispetto, che lasciavano ben presagire.
Siamo appunto partiti dalla Smokin' hops, una Ipa che Ipa non avrei mai detto perché affumicata, come dice il nome stesso. L'aroma è probabilmente il tratto che più mi ha colpito, perché i profumi tipici delle Ipa non vengono comunque del tutto nascosti dall'affumicatura: ne nasce quindi un mix parecchio originale, che apriva bene la strada all'abbinamento con la torta salata con pancetta affumicata.
Ho trovato che il gusto tendesse un po' a "morire in bocca", come si suol dire, perché dopo il primo sorso l'impressione è stata quella che fosse tutto finito lì: in realtà una certa persistenza - non retrogusto - c'è, anche se meno marcato di quanto ci si possa aspettare da un'affumicata.
Insieme alla polenta con funghi porcini è poi arrivata la Krampus, un'ambrata dalla gradazione alcolica notevole - 9 gradi - che prende il nome dai demoni natalizi della tradizione ladina e carnica. Bisogna dire che si tratta di una birra per intenditori, come ha ammesso anche Norberto: il gusto particolarmente complesso, che unisce frutta, spezie, caramello (io ho sentito anche quello), risultando particolarmente dolce (nonostante abbia percepito anche qualche nota più acida), non la rende di facile apprezzabilità. Personalmente mi ha ricordato per certi versi - e qui dico un'eresia - la Coca Cola, lasciandomi un po' perplessa; salvo poi perdere questi sentori qualche minuto dopo, una volta leggermente più calda. L'abbinamento non era del tutto fuori luogo, ma dato che mi era rimasta un po' di Smokin' hops ho fatto la prova anche con quella: e devo dire che polenta e affumicato sono sempre una coppia vincente.
Da ultimo ci siamo dati alla Rudolph di Garlatti Costa, che prende invece il nome dalla leggendaria renna dal naso rosso (chi non la conoscesse, clicchi qui o qui). Trattasi di una belgian strong dark ale ad alta fermentazione che, nonostante le note di malto siano prevalenti al gusto, non fa mancare poi un'ultimo sentore di luppolo che - detto fra noi - la rende di facile bevibilità a scapito dei suoi 10 gradi a rischio e pericolo dell'avventore. Particolarmente apprezzato poi l'abbinamento con il crostino tartufato al gorgonzola piccante, perché la sapidità e il sapore forte del formaggio andavano proprio a braccetto con quello altrettanto deciso della birra.
In definitiva tre birre di tutto rispetto, al di là dei gusti personali: la prima per l'originalità della combinazione, la seconda per la complessità, e la terza - diciamocelo - per la pura e semplice gradevolezza, ed ogni tanto ci vuole pure quella, senza andare troppo in cerca di cose complicate.
Detto ciò, non mi resta che aggiungere gli auguri di Natale: i più cari pensieri a tutti i lettori, perché questa giornata porti, a chi crede e a chi no, una ventata di speranza e fiducia nel futuro! Buon Natale!
Ma veniamo a noi. Quella sera ero in Brasserie appunto per la degustazione di tre birre di Natale con relativi abbinamenti gastronomici: la Smokin' hops di Foglie d'erba, la Krampus del Birrificio del Ducato, e la Rudolph di Garlatti Costa. Tre nomi di tutto rispetto, che lasciavano ben presagire.
Siamo appunto partiti dalla Smokin' hops, una Ipa che Ipa non avrei mai detto perché affumicata, come dice il nome stesso. L'aroma è probabilmente il tratto che più mi ha colpito, perché i profumi tipici delle Ipa non vengono comunque del tutto nascosti dall'affumicatura: ne nasce quindi un mix parecchio originale, che apriva bene la strada all'abbinamento con la torta salata con pancetta affumicata.
Ho trovato che il gusto tendesse un po' a "morire in bocca", come si suol dire, perché dopo il primo sorso l'impressione è stata quella che fosse tutto finito lì: in realtà una certa persistenza - non retrogusto - c'è, anche se meno marcato di quanto ci si possa aspettare da un'affumicata.
Insieme alla polenta con funghi porcini è poi arrivata la Krampus, un'ambrata dalla gradazione alcolica notevole - 9 gradi - che prende il nome dai demoni natalizi della tradizione ladina e carnica. Bisogna dire che si tratta di una birra per intenditori, come ha ammesso anche Norberto: il gusto particolarmente complesso, che unisce frutta, spezie, caramello (io ho sentito anche quello), risultando particolarmente dolce (nonostante abbia percepito anche qualche nota più acida), non la rende di facile apprezzabilità. Personalmente mi ha ricordato per certi versi - e qui dico un'eresia - la Coca Cola, lasciandomi un po' perplessa; salvo poi perdere questi sentori qualche minuto dopo, una volta leggermente più calda. L'abbinamento non era del tutto fuori luogo, ma dato che mi era rimasta un po' di Smokin' hops ho fatto la prova anche con quella: e devo dire che polenta e affumicato sono sempre una coppia vincente.
Da ultimo ci siamo dati alla Rudolph di Garlatti Costa, che prende invece il nome dalla leggendaria renna dal naso rosso (chi non la conoscesse, clicchi qui o qui). Trattasi di una belgian strong dark ale ad alta fermentazione che, nonostante le note di malto siano prevalenti al gusto, non fa mancare poi un'ultimo sentore di luppolo che - detto fra noi - la rende di facile bevibilità a scapito dei suoi 10 gradi a rischio e pericolo dell'avventore. Particolarmente apprezzato poi l'abbinamento con il crostino tartufato al gorgonzola piccante, perché la sapidità e il sapore forte del formaggio andavano proprio a braccetto con quello altrettanto deciso della birra.
In definitiva tre birre di tutto rispetto, al di là dei gusti personali: la prima per l'originalità della combinazione, la seconda per la complessità, e la terza - diciamocelo - per la pura e semplice gradevolezza, ed ogni tanto ci vuole pure quella, senza andare troppo in cerca di cose complicate.
Detto ciò, non mi resta che aggiungere gli auguri di Natale: i più cari pensieri a tutti i lettori, perché questa giornata porti, a chi crede e a chi no, una ventata di speranza e fiducia nel futuro! Buon Natale!
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giovedì 19 dicembre 2013
Non chiamatelo retrogusto
C'è da dire che Udine, per gli amanti della birra, è una città che offre parecchio: non solo perché l'università è stata una delle prime in Italia a brassare ed avviare corsi in merito alla facoltà di agraria, o perché è sede del Bire, uno dei più antichi brewpub friulani; ma anche perché le associazioni di categoria si impegnano su questo fronte, per promuovere i numerosi birrifici artigianali locali. Così la Confartigianato ha organizzato due degustazioni guidate, condotte da Walter Filiputti insieme ad alcuni mastri birrai. Chiaramente l'occasione era ghiotta e non ho potuto mancarla, per quanto si trattasse di due birrifici che già conoscevo bene: il Villa Chazil, di cui avevo parlato in questo post, e il Valscura, sul quale è suprfluo aggiungere qualcosa (ma chi non lo conoscesse, clicchi qui).
La serata si è aperta con una dotta e interessante dissertazione di Antonio, il proprietario di Villa Chazil: un'occasione per scoprire tante cose che non conoscevo sulla produzione della birra, tanto più nel caso di un agribirrificio che fa da sé sia l'orzo che il luppolo. Ad esempio, non avevo idea del fatto che i maltifici italiani non garantiscano la tracciabilità del prodotto: ossia, voi consegnate l'orzo perché venga maltato (come vedete nella foto), ma poi non potete sapere se il malto che vi viene restituito è davvero il vostro, perché viene sostanzialmente messo tutto insieme per lavorarlo abbattendo i costi. Il che, chiaramente, non ha alcun senso nel caso di un agribirrificio, il cui punto di forza è appunto quello di produrre la birra esclusivamente con le proprie coltivazioni: così Villa Chazil porta il suo orzo a maltare in Austria - come Zahre -, data la vicinanza al confine. Oppure ho scoperto che il luppolo va messo "a crudo", alla fine, perché conservi gli aromi: se viene cotto, infatti, perde tutto quel bouquet di profumi che caratterizzano le birre ben luppolate. Insomma, una scoperta dopo l'altra.
Detto ciò, si è passati alla degustazione. Avevo sinora assaggiato solo una delle loro birre, la lager, che se devo essere sincera non mi aveva entusiasmata: non perché non l'abbia gradita, semplicemente perché non ci avevo visto quel tocco di originalità che in genere tanto apprezzo nelle produzioni artigianali. Alla degustazione c'era però oltre a quella anche la Pale Ale, e in questo caso devo dire che Villa Chazil ha fatto centro: senz'altro molto più corposa, dall'aroma fruttato e da un bel color rame, che una volta in bocca fa sentire in pieno la rosa di sapori del luppolo di cui sopra lasciando un amaro che, se all'inizio mi è parso quasi troppo forte, si è poi smorzato nel retrogusto.
E qui ho avuto la pessima idea di domandare al mastro birraio che guidava la degustazione come si faccia a "controllare" il retrogusto. Non l'avessi mai fatto: dopo avermi gentilmente spiegato che è una questione di luppoli, di quali tipi vengono usati, come vengono dosati e quando vengono aggiunti, mi ha infatti puntualizzato che "non si chiama retrogusto, si chiama persistenza: se parliamo di retrogusto vuol dire che non è una birra di qualità, perché questo sta a indicare che ha lasciato in bocca una sorta di saporaccio". Insomma, come sempre bisogna imparare ad usare bene le parole: e mi sono quasi vergognata di tutte le volte in cui in questo blog ho parlato di retrogusto, per quanto sia un termine comunemente usato, senza sapere di aver inconsciamente denigrato le birre che avevo bevuto.
La seconda parte della degustazione era appunto dedicata alle birre Valscura, nella fattispecie la Blanche de Sarone e la Nadal, la birra di Natale. E qui il buon Gabriele dovrà assumersi la responsabilità di avermi ripresa perché "Non devi solo scrivere le cose che ti sono piaciute nelle birre, devi anche dire quelle che non vanno": perché se la Blanche mi ha lasciata - letteralmente - a bocca aperta per la particolarità sia dell'aroma che del gusto, date le note di frutta che giudicherei uniche, la Nadal devo ammettere che mi ha un po' delusa. Intendiamoci, non che sia male: le spezie e gli aromi caldi tipici delle birre di questo genere si fanno sentire, ma ho trovato il gusto troppo liquoroso, quasi dolciastro. Gusti personali, per carità; e a onor di Valscura c'è da dire che è la prima volta che una loro birra mi lascia non del tutto soddisfatta - e dire che ne ho provate parecchie. Insomma, che dire? Toccherà farsi la bocca buona assaggiandone un'altra...
La serata si è aperta con una dotta e interessante dissertazione di Antonio, il proprietario di Villa Chazil: un'occasione per scoprire tante cose che non conoscevo sulla produzione della birra, tanto più nel caso di un agribirrificio che fa da sé sia l'orzo che il luppolo. Ad esempio, non avevo idea del fatto che i maltifici italiani non garantiscano la tracciabilità del prodotto: ossia, voi consegnate l'orzo perché venga maltato (come vedete nella foto), ma poi non potete sapere se il malto che vi viene restituito è davvero il vostro, perché viene sostanzialmente messo tutto insieme per lavorarlo abbattendo i costi. Il che, chiaramente, non ha alcun senso nel caso di un agribirrificio, il cui punto di forza è appunto quello di produrre la birra esclusivamente con le proprie coltivazioni: così Villa Chazil porta il suo orzo a maltare in Austria - come Zahre -, data la vicinanza al confine. Oppure ho scoperto che il luppolo va messo "a crudo", alla fine, perché conservi gli aromi: se viene cotto, infatti, perde tutto quel bouquet di profumi che caratterizzano le birre ben luppolate. Insomma, una scoperta dopo l'altra.
Detto ciò, si è passati alla degustazione. Avevo sinora assaggiato solo una delle loro birre, la lager, che se devo essere sincera non mi aveva entusiasmata: non perché non l'abbia gradita, semplicemente perché non ci avevo visto quel tocco di originalità che in genere tanto apprezzo nelle produzioni artigianali. Alla degustazione c'era però oltre a quella anche la Pale Ale, e in questo caso devo dire che Villa Chazil ha fatto centro: senz'altro molto più corposa, dall'aroma fruttato e da un bel color rame, che una volta in bocca fa sentire in pieno la rosa di sapori del luppolo di cui sopra lasciando un amaro che, se all'inizio mi è parso quasi troppo forte, si è poi smorzato nel retrogusto.
E qui ho avuto la pessima idea di domandare al mastro birraio che guidava la degustazione come si faccia a "controllare" il retrogusto. Non l'avessi mai fatto: dopo avermi gentilmente spiegato che è una questione di luppoli, di quali tipi vengono usati, come vengono dosati e quando vengono aggiunti, mi ha infatti puntualizzato che "non si chiama retrogusto, si chiama persistenza: se parliamo di retrogusto vuol dire che non è una birra di qualità, perché questo sta a indicare che ha lasciato in bocca una sorta di saporaccio". Insomma, come sempre bisogna imparare ad usare bene le parole: e mi sono quasi vergognata di tutte le volte in cui in questo blog ho parlato di retrogusto, per quanto sia un termine comunemente usato, senza sapere di aver inconsciamente denigrato le birre che avevo bevuto.
La seconda parte della degustazione era appunto dedicata alle birre Valscura, nella fattispecie la Blanche de Sarone e la Nadal, la birra di Natale. E qui il buon Gabriele dovrà assumersi la responsabilità di avermi ripresa perché "Non devi solo scrivere le cose che ti sono piaciute nelle birre, devi anche dire quelle che non vanno": perché se la Blanche mi ha lasciata - letteralmente - a bocca aperta per la particolarità sia dell'aroma che del gusto, date le note di frutta che giudicherei uniche, la Nadal devo ammettere che mi ha un po' delusa. Intendiamoci, non che sia male: le spezie e gli aromi caldi tipici delle birre di questo genere si fanno sentire, ma ho trovato il gusto troppo liquoroso, quasi dolciastro. Gusti personali, per carità; e a onor di Valscura c'è da dire che è la prima volta che una loro birra mi lascia non del tutto soddisfatta - e dire che ne ho provate parecchie. Insomma, che dire? Toccherà farsi la bocca buona assaggiandone un'altra...
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martedì 17 dicembre 2013
Mercatini di Natale reloaded
Vabbè, se non l'avete ancora capito, sono una fanatica: dove ci sono mercatini di Natale, lì trovate anche me. Così ne ho approfittato di una gita a casa dei miei per andare a quelli di Cison di Valmarino, pittoresco paesino ai piedi delle Prealpi Venete. Ai più è noto per la fama di Castelbrando, castello medievale caduto quasi in rovina e riportato agli antichi splendori dall'imprenditore Colomban; ma il centro storico è un vero gioiellino, avendo conservato case e viuzze d'altri tempi. Una cornice perfetta, appunto, per i mercatini, se non fosse per l'umidità che in questa stagione penetra fino alle ossa.
Il paesello era comunque frequentatissimo, tanto che io e mia madre abbiamo dovuto farci strada a forza tra le bancarelle: dai prodotti artigianali in legno, alle decorazioni natalizie in feltro, allo stand di un caseificio lombardo che esibiva una crema al gorgonzola da leccarsi i baffi, davvero ce n'era per tutti i gusti e per tutte le tipologie di regalo - per sé o per altri - che si possa cercare. Naturalmente non mancavano i birrifici, tra cui la nostra vecchia conoscenza Baracca Beer, e il San Gabriel di Ponte di Piave.
In realtà anche questo era una mia vecchia conoscenza, perché avevo già avuto modo di assaggiare le loro birre sempre a Cison in occasione di Artigianato Vivo. Se avevo trovato la Nera di Tarzo, una nera - appunto - al fico, un po' troppo sbilanciata nel gusto verso l'aromatizzazione, così non è stato per l'Ambra Rossa: qui entra in gioco nella giusta dose il radicchio di Treviso, creando un connubio interessante tra l'amaro spiccato dell'ortaggio simbolo di quelle zone e il caramello dato dal malto.
E proprio l'Ambra Rossa è l'ingrediente principe di quella che per me è stata una novità, presentata alla bancarella del San Gabriel: un formaggio stagionato nella birra, in cui i sentori dell'Ambra rossa sono davvero molto decisi. Devo dire che l'abbinamento è indovinato, nel senso che il formaggio in questione si sposa molto bene con questa birra; più che altro il problema si pone in quanto al cosa berci insieme, perché metterci un boccale di Ambra Rossa sarebbe quantomeno ripetitivo. Ho così chiesto consiglio al ragazzo alla bancarella, il quale ha però dovuto ammettere che lo trovavo impreparato: posto dunque che a questo punto bisogna andare per contrasto, o quantomeno su qualcosa di abbastanza neutro, potrei pensare alla classica Bionda, oppure alla Birra dell'Apostolo aromatizzata al miele - che, almeno per quanto mi riguarda, con i formaggi va sempre e comunque a nozze, checché ne dicano i veri intenditori di formaggi. Si accettano comunque suggerimenti...
Il paesello era comunque frequentatissimo, tanto che io e mia madre abbiamo dovuto farci strada a forza tra le bancarelle: dai prodotti artigianali in legno, alle decorazioni natalizie in feltro, allo stand di un caseificio lombardo che esibiva una crema al gorgonzola da leccarsi i baffi, davvero ce n'era per tutti i gusti e per tutte le tipologie di regalo - per sé o per altri - che si possa cercare. Naturalmente non mancavano i birrifici, tra cui la nostra vecchia conoscenza Baracca Beer, e il San Gabriel di Ponte di Piave.
In realtà anche questo era una mia vecchia conoscenza, perché avevo già avuto modo di assaggiare le loro birre sempre a Cison in occasione di Artigianato Vivo. Se avevo trovato la Nera di Tarzo, una nera - appunto - al fico, un po' troppo sbilanciata nel gusto verso l'aromatizzazione, così non è stato per l'Ambra Rossa: qui entra in gioco nella giusta dose il radicchio di Treviso, creando un connubio interessante tra l'amaro spiccato dell'ortaggio simbolo di quelle zone e il caramello dato dal malto.
E proprio l'Ambra Rossa è l'ingrediente principe di quella che per me è stata una novità, presentata alla bancarella del San Gabriel: un formaggio stagionato nella birra, in cui i sentori dell'Ambra rossa sono davvero molto decisi. Devo dire che l'abbinamento è indovinato, nel senso che il formaggio in questione si sposa molto bene con questa birra; più che altro il problema si pone in quanto al cosa berci insieme, perché metterci un boccale di Ambra Rossa sarebbe quantomeno ripetitivo. Ho così chiesto consiglio al ragazzo alla bancarella, il quale ha però dovuto ammettere che lo trovavo impreparato: posto dunque che a questo punto bisogna andare per contrasto, o quantomeno su qualcosa di abbastanza neutro, potrei pensare alla classica Bionda, oppure alla Birra dell'Apostolo aromatizzata al miele - che, almeno per quanto mi riguarda, con i formaggi va sempre e comunque a nozze, checché ne dicano i veri intenditori di formaggi. Si accettano comunque suggerimenti...
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giovedì 12 dicembre 2013
Se sull'arca non ci sono solo animali
Mi permetto di sviare un'altra volta dalla questione birra, ma sempre per una buona ragione: ossia il Terra Madre Day 2013, che Slow Food celebra ogni anno. Gli incontri organizzati dai seguaci di Petrini mi incuriosiscono sempre parecchio, e non tanto - anche se, diciamocelo, fa piacere - perché spesso e volentieri si concludono con brindisi e degustazioni; ma soprattutto perché ogni volta finisco per scoprire qualcosa di nuovo, vuoi in campo agricolo, vuoi in campo enogastronomico. Così, dato che uno degli eventi organizzati per la giornata si teneva al cinema Visionario qui a Udine, non ho mancato di partecipare.
A leggere l'invito, in realtà, almeno la prima parte della serata poteva apparire piuttosto "accademica": era infatti previsto l'intervento di un agronomo, Costantino Cattivello, sul tema della biodiversità. Che in sé è interessante, per carità, ma il timore di una sorta di lezione universitaria poteva dirsi legittimo. Invece la cosa è stata del tutto abbordabile anche ai non addetti ai lavori, con tante notizie e curiosità magari apparentemente banali, ma estremamente esemplificative della questione: lo sapevate, ad esempio, che un centinaio d'anni fa si coltivavano sette varietà di asparagi, mentre ora se ne contano solo due? O che vicino a Trieste c'è una famiglia di agricoltori che da un secolo fa un lavoro di selezione delle sementi di lattuga agostana, per cui questa non viene attaccata da un fungo che generalmente attacca le altre lattughe - alla faccia degli antiparassitari? Beh, io no. Né avevo mai pensato, per quanto possa essere intuitivo, che la creazione di biodiversità è un processo naturale che consente di conservare la specie - variando il genoma, cioè, si riduce la possibilità che questo venga attaccato -; o che, come ha fatto notare il buon Gregorio Lenarduzzi, produttore di cipolla della Val Cosa, andando a comprare le sementi pronte si perde l'antico sapere del contadino, che ad ogni stagione selezionava con cura le piante che avrebbero garantito la semina per l'anno successivo. Insomma, d'ora in poi quando metterò la verdura nel piatto mi porrò un sacco di problemi, ma probabilmente non è un male.
Poi si è passati alla parte, diciamo così, più godibile: la presentazione delle prelibatezze tipiche inserite o da inserire nell'Arca del gusto - una lista prodotti che Slow Food si impegna a promuovere - dalla viva voce dei coltivatori. Ho così scoperto l'esistenza del broccolo friulano, resistente alle gelate e coltivato soltanto in poche zone del Friuli; l'aglio di Resia, salvato dall'oblìo da pochi orti domestici, ma che grazie ad un paziente lavoro di tutela e recupero anche in collaborazione con le università ora tocca il 25 per cento della produzione regionale; e la cipolla di Cavasso e della Val Cosa, la cui coltivazione è stata recuperata grazie al ritorno nelle zone d'origine di alcuni emigranti che ne avevano conservato la memoria. Ma la storia più curiosa è forse quella del mais cinquantino, ingrediente base del Pan di sorc (già noto ai lettori di questo blog), del cui metodo di produzione erano rimasti solo due anziani testimoni e che si credeva scomparso; senza dimenticare quella dell'asparago di Nogaredo, anche questo dato per perduto ed ora recuperato, la cui pianta arriva a vivere anche trent'anni. E la lista potrebbe proseguire con la pitina, il crafùt, e molto altro ancora: ma non sto a tediarvi, né a farvi venire fame - e se siete curiosi, san Google verrà in aiuto.
Fame che a noi nel frattempo era venuta, per cui ci siamo spostati al bar del cinema per assaggiare i crostini di polenta con la scuete frante - una crema di ricotta - e gli strucchi lessi, tipici dolci delle valli del Natisone: una sorta di gnocchi di pasta di farina e patate, ripieni di uvetta, noci, pinoli, burro, pangrattato e zucchero, lessati in acqua bollente e conditi - come se non bastasse - con burro fuso, zucchero e cannella. In effetti, l'artefice degli strucchi che abbiamo assaggiato ha ammesso che "Molti me li chiedono conditi solo con lo zucchero"; ma al grido di "Barbari!", e in nome della tradizione, quelli serviti per l'occasione erano rigorosamente imburrati. Ok, se ci mettono il burro un motivo ci sarà, perché in effetti ci stava proprio.
A racchiudere il senso della serata però, ancor più che il brindisi, penso sia stata la chiacchierata con il vicepresidente di Slow Food Fvg, Giorgio Dri: con il quale ci siamo detti che questi incontri non sono solo un'occasione godereccia, altrimenti basterebbe infilarsi in una qualche osteria, ma prima di tutto di conoscenza. E in effetti, posso dire di essere tornata a casa avendo notevolmente ampliato il mio bagaglio sia culturale che umano.
A leggere l'invito, in realtà, almeno la prima parte della serata poteva apparire piuttosto "accademica": era infatti previsto l'intervento di un agronomo, Costantino Cattivello, sul tema della biodiversità. Che in sé è interessante, per carità, ma il timore di una sorta di lezione universitaria poteva dirsi legittimo. Invece la cosa è stata del tutto abbordabile anche ai non addetti ai lavori, con tante notizie e curiosità magari apparentemente banali, ma estremamente esemplificative della questione: lo sapevate, ad esempio, che un centinaio d'anni fa si coltivavano sette varietà di asparagi, mentre ora se ne contano solo due? O che vicino a Trieste c'è una famiglia di agricoltori che da un secolo fa un lavoro di selezione delle sementi di lattuga agostana, per cui questa non viene attaccata da un fungo che generalmente attacca le altre lattughe - alla faccia degli antiparassitari? Beh, io no. Né avevo mai pensato, per quanto possa essere intuitivo, che la creazione di biodiversità è un processo naturale che consente di conservare la specie - variando il genoma, cioè, si riduce la possibilità che questo venga attaccato -; o che, come ha fatto notare il buon Gregorio Lenarduzzi, produttore di cipolla della Val Cosa, andando a comprare le sementi pronte si perde l'antico sapere del contadino, che ad ogni stagione selezionava con cura le piante che avrebbero garantito la semina per l'anno successivo. Insomma, d'ora in poi quando metterò la verdura nel piatto mi porrò un sacco di problemi, ma probabilmente non è un male.
Poi si è passati alla parte, diciamo così, più godibile: la presentazione delle prelibatezze tipiche inserite o da inserire nell'Arca del gusto - una lista prodotti che Slow Food si impegna a promuovere - dalla viva voce dei coltivatori. Ho così scoperto l'esistenza del broccolo friulano, resistente alle gelate e coltivato soltanto in poche zone del Friuli; l'aglio di Resia, salvato dall'oblìo da pochi orti domestici, ma che grazie ad un paziente lavoro di tutela e recupero anche in collaborazione con le università ora tocca il 25 per cento della produzione regionale; e la cipolla di Cavasso e della Val Cosa, la cui coltivazione è stata recuperata grazie al ritorno nelle zone d'origine di alcuni emigranti che ne avevano conservato la memoria. Ma la storia più curiosa è forse quella del mais cinquantino, ingrediente base del Pan di sorc (già noto ai lettori di questo blog), del cui metodo di produzione erano rimasti solo due anziani testimoni e che si credeva scomparso; senza dimenticare quella dell'asparago di Nogaredo, anche questo dato per perduto ed ora recuperato, la cui pianta arriva a vivere anche trent'anni. E la lista potrebbe proseguire con la pitina, il crafùt, e molto altro ancora: ma non sto a tediarvi, né a farvi venire fame - e se siete curiosi, san Google verrà in aiuto.
Fame che a noi nel frattempo era venuta, per cui ci siamo spostati al bar del cinema per assaggiare i crostini di polenta con la scuete frante - una crema di ricotta - e gli strucchi lessi, tipici dolci delle valli del Natisone: una sorta di gnocchi di pasta di farina e patate, ripieni di uvetta, noci, pinoli, burro, pangrattato e zucchero, lessati in acqua bollente e conditi - come se non bastasse - con burro fuso, zucchero e cannella. In effetti, l'artefice degli strucchi che abbiamo assaggiato ha ammesso che "Molti me li chiedono conditi solo con lo zucchero"; ma al grido di "Barbari!", e in nome della tradizione, quelli serviti per l'occasione erano rigorosamente imburrati. Ok, se ci mettono il burro un motivo ci sarà, perché in effetti ci stava proprio.
A racchiudere il senso della serata però, ancor più che il brindisi, penso sia stata la chiacchierata con il vicepresidente di Slow Food Fvg, Giorgio Dri: con il quale ci siamo detti che questi incontri non sono solo un'occasione godereccia, altrimenti basterebbe infilarsi in una qualche osteria, ma prima di tutto di conoscenza. E in effetti, posso dire di essere tornata a casa avendo notevolmente ampliato il mio bagaglio sia culturale che umano.
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mercoledì 11 dicembre 2013
Sauris, dove i mercatini sono solo una scusa
Quella di andare ai mercatini natalizi a Sauris, sperduto paesello della Carnia, era per me e Enrico una questione di principio: due anni fa infatti, leggendo sulla locandina che sarebbero stati aperti in data "6-8 dicembre", con buone speranze ci siamo andati il 7. E invece no, erano aperti proprio il 6 e l'8, senza il 7 di mezzo: per carità, gita piacevole, ma niente bancarelle. Quest'anno non c'erano possibilità di errore, essendo aperti in data 7-8 dicembre: così siamo saliti in macchina con la certezza di andare a colpo sicuro.
Oltretutto, di certezza ne avevamo un'altra: ossia la possibilità - dato che avevamo preso preventivaente contatto - di una visita guidata al birrificio Zahre, nostra vecchia conoscenza. Climaticamente parlando la giornata non era delle migliori, perché nonostante il sole faceva - passatemi il termine - un freddo becco: così rifugiarsi tra tank e fermentatori, nonostante il capannone non fosse riscaldato, è comunque stato un sollievo, mentre ascoltavamo la moglie di uno dei titolari raccontarci la storia del birrificio e le tecniche di produzione.
Storia curiosa, quella di Zahre: un birrificio nato 14 anni fa, quando le realtà di questo genere erano ancora poche, dalla falegnameria di due fratelli che durante i lunghi mesi invernali avanzavano tempo per brassare. Inizialmente "alla buona", tanto che i nomi delle birre sono stati dati quasi con ingenuità: la chiara Pilsen perché è fatta con malti pils, anche se pils non è; la rossa Vienna perché è fatta - indovinate un po'? - con malti Vienna; l'affumicata perché ha il 30 per cento di "rauchmalt", un malto affumicato sopra braci di legno; e la canapa perché viene agguinta appunto la canapa. Una produzione che è rimasta invariata nel corso degli anni, e c'è da dire che hanno avuto modo di affinarla: Zahre ormai è un nome conosciuto nel panorama birrario, soprattutto in abbinamento agli altri prodotti tipici del paese - speck in primo luogo.
Devo dire che ho scoperto un sacco di cose nuove sulla produzione della Zahre, non da ultimo il perché vada assolutamente tenuta in frigo: essendo una birra a bassa fermentazione, infatti, c'è il rischio che questa riparta in bottiglia. "Ma tranquilli, non vi fa male - ha assicurato la nostra guida - al massimo diventa acida e vi fa andare in bagno un paio di volte in più". Beh, meglio comunque non rischiare. Proprio per non interrompere la catena del freddo, la Zahre non viene commercializzata se non su brevi distanze: "Il trasporto in celle frigo è costosissimo - ci è stato spiegato - e in più dobbiamo essere sicuri che, una volta arrivata a destinazione, venga subito trasferita in un'altra cella frigorifera". Motivo per cui Zahre non ha distributori, che non sarebbero in grado di garantire i 4 gradi centigradi costanti.
La visita al birrificio era pubblicizzata come "Birra a km 0": titolo forse un po' fuorviante, perché malti e luppoli non vengono certo coltivati a Sauris. La Zahre ha acquistato dei campi nella bassa fiulana per far crescere l'orzo, che viene poi mandato a maltare a Vienna: paradossalmente più vicina che altre malterie in Italia, data la vicinanza al confine austriaco. A km zero è comunque la brassatura, che avviene tutta entro quei pochi metri quadrati in cui - per ammissione della stessa moglie - i titolari a volte addirittura dormono durante i periodi di pieno lavoro.
Lavoro che, fortunatamente per loro, non manca: sono infatti in arrivo due nuovi tank da 25 mila litri perché la produzione è diventata insufficiente alle richieste, nonché due nuovi tipi di birra meno sensibili alla catena del freddo. Che dire, speriamo si mantengano comuque fedeli all'operato di questi 14 anni: il bicchiere di affumicata che ci hanno offerto alla fine del tour, infatti, era sempre buono come una volta...
Oltretutto, di certezza ne avevamo un'altra: ossia la possibilità - dato che avevamo preso preventivaente contatto - di una visita guidata al birrificio Zahre, nostra vecchia conoscenza. Climaticamente parlando la giornata non era delle migliori, perché nonostante il sole faceva - passatemi il termine - un freddo becco: così rifugiarsi tra tank e fermentatori, nonostante il capannone non fosse riscaldato, è comunque stato un sollievo, mentre ascoltavamo la moglie di uno dei titolari raccontarci la storia del birrificio e le tecniche di produzione.
Storia curiosa, quella di Zahre: un birrificio nato 14 anni fa, quando le realtà di questo genere erano ancora poche, dalla falegnameria di due fratelli che durante i lunghi mesi invernali avanzavano tempo per brassare. Inizialmente "alla buona", tanto che i nomi delle birre sono stati dati quasi con ingenuità: la chiara Pilsen perché è fatta con malti pils, anche se pils non è; la rossa Vienna perché è fatta - indovinate un po'? - con malti Vienna; l'affumicata perché ha il 30 per cento di "rauchmalt", un malto affumicato sopra braci di legno; e la canapa perché viene agguinta appunto la canapa. Una produzione che è rimasta invariata nel corso degli anni, e c'è da dire che hanno avuto modo di affinarla: Zahre ormai è un nome conosciuto nel panorama birrario, soprattutto in abbinamento agli altri prodotti tipici del paese - speck in primo luogo.
La visita al birrificio era pubblicizzata come "Birra a km 0": titolo forse un po' fuorviante, perché malti e luppoli non vengono certo coltivati a Sauris. La Zahre ha acquistato dei campi nella bassa fiulana per far crescere l'orzo, che viene poi mandato a maltare a Vienna: paradossalmente più vicina che altre malterie in Italia, data la vicinanza al confine austriaco. A km zero è comunque la brassatura, che avviene tutta entro quei pochi metri quadrati in cui - per ammissione della stessa moglie - i titolari a volte addirittura dormono durante i periodi di pieno lavoro.
Lavoro che, fortunatamente per loro, non manca: sono infatti in arrivo due nuovi tank da 25 mila litri perché la produzione è diventata insufficiente alle richieste, nonché due nuovi tipi di birra meno sensibili alla catena del freddo. Che dire, speriamo si mantengano comuque fedeli all'operato di questi 14 anni: il bicchiere di affumicata che ci hanno offerto alla fine del tour, infatti, era sempre buono come una volta...
giovedì 5 dicembre 2013
Una serata senza zucchero
Da tempo avevo in programma una visita ad uno dei pub che mi erano stati descritti da più parti come da non perdere, il King's Arm di Pordenone: e dopo diverse sollecitazioni e buoni propositi andati a vuoto, a darmi finalmente l'occasione di andare è stato il buon Francesco, peraltro frequentatore abituale - tranquilli, non è un alcolista; anzi, alle ragazze single mi permetto pure di suggerirlo come buon partito, se volete il numero di telefono fatemi sapere - di suddetto pub.
Il posto è arredato in maniera senz'altro consona ad una birreria: le pareti sono letteralmente tappezzate di poster, foto, bandierine e chi più ne ha più ne metta dei marchi più o meno conosciuti. Il pezzo forte è però il listino: non a caso il simpatico proprietario ci ha detto "Vi lascio un elenco telefonico", ad indicarne lo spessore. E in effetti siamo rimasti parecchio disorientati, tanto che la povera cameriera è dovuta tornare più volte a prendere l'ordine: tra birre alla spina e in bottiglia se ne contano infatti più di 150 tipi, per cui la scelta è stata piuttosto laboriosa.
Meno male che ci è venuto in soccorso appunto il titolare, che con fare esperto ci ha consigliati.Veramente io una mezza idea ce l'avevo già: per colpa o merito dell'amico Gino di Foglie d'erba mi sono appassionata alle birre con poco zucchero, più facilmente "assimilabili" e dal gusto che trovo più "genuino" perché permette di apprezzare meglio i sapori - qualunque essi siano. Così, quando il mio sguardo è caduto sulle Caulier - una casa belga che pubblicizza birre "senza zucchero per natura" -, non ho potuto reisstere alla curiosità. Rimaneva solo da scegliere quale: giusto per andare sul sicuro rispetto alle mie preferenze consolidate ho optato per la bruna, nonostante i 6,8 gradi a stomaco vuoto mi lasciassero un po' perplessa. Devo dire che è valsa la pena aver osato: non ho ricordi di aver provato birre dal malto così intenso - prevedibile, direte voi -, con tutta la rosa dal caramello al tostato in sequenza. Curioso come tenda, partendo dal dolce, a virare in una seire di sfumature verso l'amaro, fino a lasciare un retrogusto che di zuccherino non ha proprio nulla: per palati forti, ma da provare.
Francesco a dire il vero mi aveva consigliato piuttosto la Caulier 28, la sua preferita: una bionda, decisamente più leggera (5 gradi) e anche in questo caso senza zucchero. Naturalmente, dato che lui ha ordinato quella, sarebbe stato un peccato non assaggiare una birra che mi era stata magnificata così tanto: compito a cui ho prontamente adempiuto, barattando la cosa con un sorso di bruna. Anche in questo caso il tocco della casa si sente: le note di agrumi sono ben bilanciate con quelle di tostato del malto, esaltate appunto dall'assenza di zucchero a differenza che in altre bionde.
Chiaramente, a quel punto urgeva tamponare l'alcol prima di rimettersi alla guida: così ci siamo dati alla lista di toast, panini e piadine che in quanto a lunghezza non ha molto da invidiare a quella delle birre - altra particolarità del King's Arm, nel caso in cui siate appassionati di questi sfizi e soprattutto delle innumerevoli salse di ogni genere di cui sono guarniti. Il migliore ricordo della serata rimane comunque la dotta dissertazione birraria del titolare: come sempre, apprezzi di più se sai cosa bevi, e se lo fai in buona compagnia...
Il posto è arredato in maniera senz'altro consona ad una birreria: le pareti sono letteralmente tappezzate di poster, foto, bandierine e chi più ne ha più ne metta dei marchi più o meno conosciuti. Il pezzo forte è però il listino: non a caso il simpatico proprietario ci ha detto "Vi lascio un elenco telefonico", ad indicarne lo spessore. E in effetti siamo rimasti parecchio disorientati, tanto che la povera cameriera è dovuta tornare più volte a prendere l'ordine: tra birre alla spina e in bottiglia se ne contano infatti più di 150 tipi, per cui la scelta è stata piuttosto laboriosa.
Meno male che ci è venuto in soccorso appunto il titolare, che con fare esperto ci ha consigliati.Veramente io una mezza idea ce l'avevo già: per colpa o merito dell'amico Gino di Foglie d'erba mi sono appassionata alle birre con poco zucchero, più facilmente "assimilabili" e dal gusto che trovo più "genuino" perché permette di apprezzare meglio i sapori - qualunque essi siano. Così, quando il mio sguardo è caduto sulle Caulier - una casa belga che pubblicizza birre "senza zucchero per natura" -, non ho potuto reisstere alla curiosità. Rimaneva solo da scegliere quale: giusto per andare sul sicuro rispetto alle mie preferenze consolidate ho optato per la bruna, nonostante i 6,8 gradi a stomaco vuoto mi lasciassero un po' perplessa. Devo dire che è valsa la pena aver osato: non ho ricordi di aver provato birre dal malto così intenso - prevedibile, direte voi -, con tutta la rosa dal caramello al tostato in sequenza. Curioso come tenda, partendo dal dolce, a virare in una seire di sfumature verso l'amaro, fino a lasciare un retrogusto che di zuccherino non ha proprio nulla: per palati forti, ma da provare.
Francesco a dire il vero mi aveva consigliato piuttosto la Caulier 28, la sua preferita: una bionda, decisamente più leggera (5 gradi) e anche in questo caso senza zucchero. Naturalmente, dato che lui ha ordinato quella, sarebbe stato un peccato non assaggiare una birra che mi era stata magnificata così tanto: compito a cui ho prontamente adempiuto, barattando la cosa con un sorso di bruna. Anche in questo caso il tocco della casa si sente: le note di agrumi sono ben bilanciate con quelle di tostato del malto, esaltate appunto dall'assenza di zucchero a differenza che in altre bionde.
Chiaramente, a quel punto urgeva tamponare l'alcol prima di rimettersi alla guida: così ci siamo dati alla lista di toast, panini e piadine che in quanto a lunghezza non ha molto da invidiare a quella delle birre - altra particolarità del King's Arm, nel caso in cui siate appassionati di questi sfizi e soprattutto delle innumerevoli salse di ogni genere di cui sono guarniti. Il migliore ricordo della serata rimane comunque la dotta dissertazione birraria del titolare: come sempre, apprezzi di più se sai cosa bevi, e se lo fai in buona compagnia...
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