venerdì 25 maggio 2018

Alla guerra della birra e del vino?

Aveva suscitato vive reazioni nel mondo birrario, in occasione dell'ultima edizione del Vinitaly, la presentazione della "Carta dei Prosecchi" per le pizzerie su iniziativa del Consorzio tutela del Prosecco doc - ben descritta in questo articolo di Repubblica. E fino a qui sarebbe stata semplicemente un'iniziativa di promozione e di marketing come tante altre; se non fosse che, quantomeno dal taglio dell'articolo (e qui da giornalista ricordo che il titolo di solito non lo fa chi scrive, quindi non prendetevela né con l'autrice né con chi ha presentato il progetto, che per quanto ne sappiamo potrebbero non aver mai usato quelle parole) era trasparso un chiaro intento polemico nei confronti della birra, più che la semplice proposta di un'alternativa. Avevo letto ed ero anche passata oltre, derubricandola a querelle che sarebbe durata il tempo di leggere e commentare. Poi però mi è comparso, come post suggerito sulla mia bacheca Facebook, questo pezzo - peraltro non datato, ma il post su Fb è del 10 maggio, quindi posteriore al Vinitaly - di WineDo, in cui si affronta il tema dell'abbinamento pizza-vino (e anche in questo caso le righe di presentazione del post avevano toni assai più polemici di quelli dell'articolo, per cui di nuovo faccio salva, a costo di essere ingenua, la buona fede dell'autore). Al che mi sono detta: ohibò, ma tutti adesso?

Di proporre la birra come bevanda da pasto in alternativa al vino si parla da anni, ed è sempre più spesso comunemente accettato; però nella massima parte dei casi l'ho visto fare non ponendo la birra come superiore al vino, ma come bevanda con pari dignità ma erroneamente non considerata. Anche di pizza e vino si parla da tempo; così come di abbinare diversi tipi di birra a diversi tipi di pizza perché, diciamocelo, la classica bionda con la margherita non è esattamente l'accostamento più indovinato. Si potrebbe dire, anzi, che siamo già oltre il conflitto e stiamo andando verso la sintesi: basti dire che esistono percorsi per sommelier del vino che includono anche lo studio della birra e viceversa (ad esempio il corso di primo livello dell'Ais che vi dedica l'undicesima lezione, o il master "Beer&Wine fusion della Doemens Akademie) e ristoranti e pizzerie che per ciascun piatto propongono sia un vino che una birra da abbinare. Aggiungiamoci pure che diverse aziende agricole che producono vino hanno iniziato a produrre anche birra - il che naturalmente non è reato, ma altrettanto naturalmente va fatto con le giuste competenze per non risultare una discutibile operazione di business fine a se stesso. Ancora, potremmo citare come le Iga abbiano in più casi aperto interessanti collaborazioni tra birrifici e cantine. Perché dunque tutta questa acrimonia?

La prima spiegazione potrebbe essere, molto banalmente, che sia nel mondo della birra che in quello del vino non tutti sposano la linea della conciliazione: siamo in tanti con tante idee, e quindi c'è chi sceglie di difendere le proprie posizioni andando all'attacco. E qui si innesta la seconda spiegazione che molti hanno citato: i produttori di vino iniziano a sentirsi braccati a fronte dell'avanzata della birra nella ristorazione, peraltro con una rosa (almeno potenzialmente) assai più ampia di opzioni gustative, e quindi risponde screditando l'avversario in quello che è stato tradizionalmente il suo campo - la pizza - così da recuperare le quote perse nel resto della ristorazione. A parte il fatto che reagire denigrando è tipico di chi non ha argomenti, se così fosse davvero staremmo assistendo ad uno stravolgimento non da poco: nell'Italia del vino, dove non è mai stato necessario spiegare il perché del vino a tavola - ma piuttosto quello della birra -, che il vino abbia bisogno di aggrapparsi all'unico settore della ristorazione in cui è in minoranza (per quanto sia un settore estremamente popolare, con un giro d'affari di oltre 6 miliardi di euro annui secondo i dati Doxa/Assobirra 2017) è sintomo di un cambiamento significativo. E' anche vero che, se allarghiamo al mondo, il giro d'affari è dieci volte tanto (dati Fipe): e con l'export che ha il vino italiano (21 milioni di ettolitri annui, secondo i dati presentati a Vinitaly), la cosa non è secondaria. 

Rimanendo in casa nostra, per quanto si possa collaborare tra birra e vino, la questione tutt'altro che peregrina è comunque quella che i birrifici artigianali ben conoscono: se siamo sempre di più a spartirci la stessa torta, le fette sono sempre più piccole. E in Italia sia i consumi di vino che quelli di birra, pur essendo in leggera risalita, non stanno comunque registrando una crescita impetuosa: dai 30 litri procapite annuali del 2015 ai 31 del 2016 per la birra secondo Assobirra, e dai 34,5 ai 36 per il vino nello stesso periodo secondo OIV. In questo caso però va detto che, pur risalito dal minimo di 33 del 2014, il vino è ancora ben lontano dalla quota 43 del 2008; mentre la birra ha fluttuato meno, rimanendo in generale abbastanza stabile attorno a quota 30. Va anche detto che il vino ha conosciuto un andamento assai più diversificato al suo interno: i dati Censis appena presentati a Federvini portano crescite a doppia cifra per vini doc e igp, cosa che non si può dire di altre fasce. Per cui anche parlare di "tonfo" dei consumi di vino non sarebbe esaustivo.

Insomma, la realtà come sempre è molto sfaccettata, ed è difficile trarre una lettura univoca da tutte queste considerazioni. Sicuramente birra e vino dovranno sempre più confrontarsi sullo stesso terreno, mentre un tempo viaggiavano su binari perlopiù separati: sarà da vedere se sceglieranno di farlo combattendo per le proprie posizioni nella logica del gioco a somma zero, o se la collaborazione potrà essere la chiave per cambiare la somma del gioco risvegliando un maggior interesse da parte del pubblico.


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martedì 15 maggio 2018

Qualche appunto da Gourmandia

Anche quest'anno ho fatto un giro a Gourmandia, creazione de Il Gastronauta alla Fiera di Santa Lucia di Piave. In realtà i birrifici artigianali occupano uno spazio limitato - quest'anno erano in tre ad essere presenti: Follina, Ivan Borsato - Casa Veccia e Birrificio del Forte - ma nondimeno risulta interessante vedere le connessioni che si possono creare tra birra e altri prodotti. Di fatto già conoscevo tutti i birrifici in questione; il Birrificio del Forte però non potevo dire di conoscerlo davvero (mi ero limitata ad una fugace visita al loro stand a Beer Attraction un paio d'anni fa) per cui di fatto è stato un conoscerlo di nuovo, e anche di Casa Veccia c'erano diverse birre - all'interno di un repertorio invero piuttosto ampio - che non avevo mai provato.

Del primo ho provato innanzitutto la Cento Volte Forte, così chiamata in onore del centenario del Comune di Forte dei Marmi celebrato nel 2014: una wit all'insegna della sobrietà, che sia all'aroma che nel corpo non vuole dare troppo risalto né ai toni speziati né a quelli di cereale, lasciando maggior spazio per cogliere il tocco - che viene definito "tutto italiano" - dell'aromatizzazione al bergamotto. Ne risulta una birra estremamente semplice e pulita, facile a bersi grazie anche alla leggera persistenza agrumata che resta sul finale. Sono poi passata alla pluridecorata Mancina - che si rifà al nome della gru del pontile di Forte dei Marmi -, una belgian strong golden ale che, nonostante i toni forti (anche sotto il profilo alcolico, 7,5 gradi) non fa del voler stupire la sua ragion d'essere: i caratteristici aromi di frutta matura lievemente speziata tipici dello stile non sono infatti soverchianti, il corpo pur robusto rimane rotondo e scorrevole, per un finale che, pur non chiudendo sull'amaro, non rende la dolcezza stucchevole grazie a quella che si potrebbe chiamare una "secchezza relativa" (perché "secchezza" e basta sarebbe eccessivo) per essere una belga. Nel complesso, direi che la filosofia mi è parsa quella di fare birre - se non necessariamente "semplici", dato che in catalogo ci sono diversi tocchi di originalità specie tra le stagionali - quantomeno pulite, che non vogliono stupire per i toni accesi ma appunto per questa semplice gradevolezza.

Di Casa Veccia ho provato la Nostrana, birra prodotta con il 30% di mais. Se al naso personalmente ho sentito prevalere la componente fruttata ed agrumata del luppolo, con le note di cereale più sullo sfondo, quest'ultimo ritorna al palato rinforzando il corpo dolce della bevuta, per chiudere nuovamente su toni agrumati a beneficio della bevibilità. Mi ha poi incuriosita la saison Sìsìlì, nata dalla collaborazione con il siciliano Filippo Drago dei Molini del Ponte, che ha fornito i grani antichi tipici dell'isola usati anche nel pane nero di Castelvetrano. Personalmente questi grani, più che avere delle connotazioni chiaramente percepibili in sé e per sé, mi sono piuttosto parsi dare più forza sia alla componente speziata - dal pepe, alla cannella, alla noce moscata - che a quella di cereale tipica dello stile, risultando in una sorta di "imperial saison", se così si può dire - non tanto per il grado alcolico, 6%, che è comunque più alto di altre saison, quanto per il profilo olfattivo e gustativo.Discretamente secco il finale, pur non mascherando del tutto la componente alcolica.

Più in generale, come accennavo, il giro a Gourmandia è risultato interessante anche per farsi venire qualche buona idea sotto il profilo degustativo come abbinamenti cibo-birra. Sicuramente offre spunti interessanti il consolidarsi di una tendenza che già c'è da qualche anno, ma che ho visto particolarmente consolidata in questa edizione, del declinare sotto il profilo salato o speziato preparazioni tradizionalmente dolci: dal nuovo fondente al rosmarino ed erba cipollina di Adelia Di Fant, ai biscotti salati (curry e semi di papavero, erbette di campagna, asiaso, mais e cipolla, ed altro ancora) di Biscotteria Bettina - per citarne soltanto due - l'ispirazione in questo senso non manca. Ma anche le preparazioni dolci si evolvono offrendo possibilità un tempo precluse di abbinamento con la birra: cito soltanto il panettone alle amarene di Olivieri, che avrei visto ottimamente con una kriek. Per non parlare delle sperimentazioni del mondo dei formaggi, per le quali servirebbe un trattato - cito solo quello al cioccolato di Moro Formaggi che sarebbe interessante con una stout, e quello al tabacco della latteria di Aviano che mi ha portato alla mente un barley wine. Insomma, per chi ha voglia di sbizzarrirsi le idee non mancano, e non mi stupirei se presto i tradizionali schemini di abbinamento cibo-birra - una bevanda che intrinsecamente unisce toni dolci ed amari - risultassero superati con l'evolvere dei gusti e dei prodotti.


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giovedì 10 maggio 2018

Da Benevento con furore, capitolo secondo

Seppure con ritardo, completo il mio tour delle sei birre prodotte dal birrificio Maltovivo - se vi siete persi il primo capitolo, lo trovate qui. Dopo la dark belgian ale, la american ipa e la stout, mi sono quindi data alla apa Stardust, alla weizen Huika e alla kolsch Tscho.

La prima esibisce toni discreti per il genere: niente aromi fruttati e agrumati prorompenti, si rimane su toni più delicati, in cui si coglie forse quasi meglio la componente floreale. Corpo esile e molto scorrevole, finale - per coerenza - di un amaro sobrio, secco e non persistente. Estremamente semplice, adatta ad andare incontro ad una platea più vasta di quella degli appassionati dei luppoli d'oltreoceano.

Passando alla weizen, ammetto che mi ha lasciata perplessa non per la presenza di difetti evidenti, quanto perché - almeno per l'idea che mi ero fatta dell'impronta del birrificio - me la sarei aspettata con più "personalità": i canonici aromi di cereale, spezia e banana sono infatti decisamente leggeri, e anche il corpo mi è apparso meno pieno rispetto a quello di altre weizen, prima di una chiusura acidula. Ribadisco, non una birra con difetti; solo meno caratterizzata di come me la sarei aspettata, anche se - leggendo poi la descrizione che ne viene data nella brochure - posso supporre che questa fosse l'intenzione del birraio.

Da ultimo la kolsch: semplice e pulita come da manuale, notevole la schiuma compatta da cui salgono le classiche note floreali e un leggero caramellato da malto. corpo snello e scorrevole in cui le lievi note dolci lasciano presto spazio ad un finale secco e di un amaro discreto, non troppo persistente.

Per quanto abbia trovato le birre della precedente tornata assai più caratterizzate, e sia quindi stata più incline a toni entusiastici, non è che la seconda mi abbia delusa: posso definire Maltovivo un birrificio di cui nel complesso ho apprezzato la produzione, e che ringrazio per la disponibilità.



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mercoledì 9 maggio 2018

Decennali, birra e territorio

Come già avranno visto coloro che seguono la mia pagina Facebook, sabato scorso ho partecipato al decennale de La Birra di Meni - birrificio di cui ho già raccontato la curiosa storia in questo post. Si direbbe che il 2008 sia stato un anno prolifico in Friuli Venezia Giulia, dato a luglio sono previsti festeggiamenti analoghi per Foglie d'Erba; e, al di là dell'ovvia considerazione che mi ha fatto piacere esserci e provare la nuova birra lanciata per l'occasione, il momento inaugurale mi ha dato lo spunto per alcune considerazioni.


Erano infatti presenti per i discorsi di benvenuto le autorità locali, i rappresentanti di Confartigianato e di altri produttori del territorio (ricordo che Cavasso Nuovo, dove si trova il birrificio, è celebre per la cipolla rossa, presidio Slow Food); e dai loro discorsi ho colto una percezione del birrificio come "attore del territorio" e parte di una squadra che mi è parsa andare al di là delle semplici frasi di circostanza sul "fare sistema" che spesso si sentono in questi casi - salvo poi sentire altrettanto spesso lamentele sul fatto che a fare sistema davvero non ci si riesce mai. Chi vive in Regione avrà riconosciuto lo stesso approccio usato a Sauris - dove il prosciutto non è conosciuto come "Wolf" ma come "di Sauris", e la birra è conosciuta più che come Zahre (peraltro nome locale del paese) come "birra di Sauris"; fatto sta che, se l'ex sindaco ha affermato che "Grazie a Meni, anche a New York sanno dov'è Cavasso", significa che l'idea è non tanto e non solo quella di esportare una birra ma di esportare un brand che è il paese stesso. E' una dinamica che richiama il modello degli agribirrifici, ma che è in parte diversa; perché mira a promuovere il "marchio paese/territorio" in virtù della gente e delle attività umane che in questo territorio hanno sede, ancor prima che in virtù del fatto che le materie prime su cui questa attività si basa abbiano origine in loco.


E fino a qui, appunto, nulla che non sia stato già fatto e su cui si sia già disquisito; ma fa riflettere come anche i birrifici artigianali stiano sempre più spesso entrando all'interno di questa dinamica. Il che da un lato sdogana definitivamente non solo la mussiana massima secondo cui "la birra è terra", ma anche che "la birra è territorio" - in un Paese come l'Italia dove tale prerogativa era sempre stata del vino. Lo è in modo diverso dal vino, nella misura in cui le materie prima non sono necessariamente prodotte in loco o quantomeno non tutte, ma nondimeno è ormai percepita come tale. Dall'altro, in un mercato della birra artigianale in cui da tempo si grida alla saturazione a fronte del numero in costante crescita dei birrifici artigianali, offre un canale diverso e più ampio, rivolgendosi non solo agli appassionati di birra artigianale ma a tutti gli interessati di ciò che un territorio ha da offrire - che sia sotto il profilo storico, naturalistico, gastronomico o che altro. Con questo non intendo dire che tale modello sia migliore, peggiore o in contrasto rispetto a quello degli agribirrifici: anzi, si potrebbero portare esempi di come risultati interessanti si siano ottenuti là dove le due cose sono andate di pari passo. Però mi ha fatto molto riflettere il fatto di percepire questo sentire condiviso.

Detto ciò, due parole sulla birra presentata per l'occasione, la DecennAle: una russian imperial stout - stile che mancava al repertorio di Meni dato che l'unica altra scura, la Pirinat, pur ricordando molto le stout è tecnicamente una bassa fermentazione - che avrebbe dovuto, nelle intenzioni originali, avere appunto 10 gradi alcolici. In realtà, mi ha spiegato Giovani, complice il lievito particolarmente "focoso" - che non ha praticamente lasciato zuccheri residui, conferendo una notevole secchezza - la gradazione finale è salita ad 11, ma tant'è. Schiuma nocciola, di un nero impenetrabile; intensa soprattutto la componente di liquirizia, sia al naso che al palato, e in secondo luogo quella del cioccolato; per una birra che "scalda" notevolmente bocca e petto, mascherando comunque in parte la gradazione alcolica data la secchezza di cui sopra. Finale appunto secco e sull'amaro tostato, pur concedendo una fugace nota liquorosa. Concordo con Meni e Giovanni sul fatto che è una birra che potrebbe probabilmente dare il suo meglio con un po' di invecchiamento; le premesse sono comunque buone, e se in futuro vorranno metterne un po' da parte ed attendere pazientemente, volentieri attenderò pure io.

Chiudo qui, facendo di nuovo gli auguri a Meni e famiglia - dato che di un birrificio familiare si tratta - per il decennale, e ringraziando per l'invito a presenziare.


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giovedì 3 maggio 2018

In quel di Acido Acida

Anche quest'anno mi sono con piacere concessa un giro a Ferrara, per la manifestazione Acido Acida - dedicata alle produzioni "estreme" della Gran Bretagna, acide ma non solo, con in più qualche ospite da altri Paesi d'Europa e dall'Italia. E proprio dagli ospiti italiani ho iniziato il mio giro. Ero infatti curiosa di fare un giro da BioNoc', dopo il successo che li ha visti occupare - insieme a Nicola Coppe - tutti e tre i posti sul podio nella categoria al Barcelona Beer Festival. In realtà non mi sono data alle birre premiate in quella sede ma, su consiglio del birraio, ad altre specialità: nella fattispecie alla Pojerina - una Iga con mosto d'uva Solaris, fermentata un anno in barrique con lieviti da vino Pojer e Sandri - e alla Ardiva - una farmhouse con erbe essiccate di campo d'alta montagna. La prima, pur facendo pronosticare dall'aroma - molto ricco in quanto alla componente del mosto d'uva - un corpo altrettanto "pungente", al palato risulta invece vellutata, con note dolci fruttate; soltanto alla fine arriva un acido gentile a chiudere, peraltro non molto persistente. Delicata, adatta anche a chi si accosta per la prima volta al genere. La seconda è di tutt'altro stampo: alla base di saison non solo sono state aggiunte le erbe, che al naso ricordano proprio un prato alpino, ma anche i batteri lattici in compagnia dei quali si è fatta quattro mesi in barrique. Entrambe le componenti - erbacea e lattica - sono quindi ben presenti sia all'aroma che al palato, forti ma reciprocamente equilibrate, nonché discretamente persistenti a fine bevuta. Per i palati più forti, e amanti della sperimentazione.

D'obbligo era poi anche una sosta da Antica Contea, di cui mi erano state preannunciate alcune chicche; in particolare la "Super K", una Iga con mosto di ribolla gialla della cantina Radikon del 2015. Già dalla descrizione c'era di che costruire fantasie su questa birra: 50% di frumento e 50% d'orzo in quanto a cereale, 13% di ribolla, un anno di maturazione in acciaio e uno in rovere. Al naso il profumo della ribolla la fa da padrone, e anche in bocca il dolce dell'uva si impone sulla componente del cereale; ma è una birra che non concede nulla alle vezzosità zuccherine, perché sul finale di una secchezza notevole subentra un amaro tanninico che chiude la bevuta. Molto beverina nonstante superi i dieci gradi alcolici, per cui occhio perché potreste ritrovarvi ad avene bevuta una pinta senza nemmeno esservene accorti. Il birraio Andrea mi ha riferito che c'è la versione 2017 in arrivo; e al mio "La aspetto con ansia" ha giustamente risposto che no, con ansia meglio di no, perché servirà almeno un altro anno e mezzo ancora. Però vabbè, non abbiamo fretta, si sa che le temps ne respecte pas ce qui se fait sans lui - citando il noto adagio di Cantillon.

Cambiando totalmente genere, cito poi tra le birre provate la Yannaroddy di Kinnegar - una porter al cocco, assaggiata anche per rendere giustizia alla sezione delle "birre dessert" introdotta quest'anno: una birra tutto sommato discreta, secca e beverina, è e rimane una porter e non una batida, semplicemente viene aggiunto un leggero tocco di originalità che può far piacere a chi cerca qualcosa di diverso. Esperienza del tutto insolita poi quella con gli svedesi di Narka Kulturbryggeri: ho infatti provato una Braggot - birra medievale speziata, in cui però personalmente ho trovato risaltare molto di più la componente del miele, riusltando estremamente dolce al palato per evidenziare leggermente le spezie soltanto in chiusura - e un sahti - storica produzione di origine finlandese che per la prima volta mi capitava di provare, dalle intense note affumicate.

Non che le altre birre assaggiate non fossero comunque degne di nota, mi sono limitata qui a quelle che più mi sono sembrate rilevanti; nel complesso una manifestazione interessante, che è riuscita negli anni a creare una selezione di birrifici e di birre di tutto rispetto.


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