venerdì 31 luglio 2015

La vita è sogno...e la birra pure

Dato che in questi giorni piazza Venerio qui a Udine si è riempita di stand birrari e gastronomici per una non meglio specificata - e ben poco pubblicizzata, devo dire - "festa della birra artigianale", ne ho approfittato per farmi un giro. Ammetto che, dopo la delusione di "Spirito di birra" dello scorso anno, ero un po' prevenuta; ma essendomi giunta voce che per quanto i birrifici presenti fossero pochi meritava conoscerli, sono balzata in sella al mio fedele destriero (leggi: citybike presa in sconto al Città Fiera) e mi sono avviata verso il centro - mobilità sostenibile, nessun problema di parcheggio, e soprattutto nessun problema di etilometro.


Il primo birrificio con cui ho fatto conoscenza, grazie ad una piacevole chiacchierata con il birraio Andrea - pur tra tutte le difficoltà del caso, dato il volume assordante della musica - è il Sognandobirra di Oderzo: una realtà nata da tre amici homebrewer, che hanno progettato da sé un impianto "su misura" e se lo sono fatti fare. La produzione è iniziata lo scorso novembre, ma i riconoscimenti sono già arrivati: la loro blonde ale Sayamé si è infatti classificata seconda al concorso Cerevisia 2015 nella categoria alta fermentazione Nord Italia. Nel descrivermi le birre - cinque: la già citata Sayamé, la "italian pale ale" 364, la blanche Madame Blanche, la brown ale Sisma e la ale ambrata Hoppitergium - Andrea mi ha confessato la predilezione dei tre birrai per l'amaro: tanto che anche la 364, che vuole - come il nome suggerisce - essere una reinterpretazione delle ipa, punta più sui luppoli da amaro che su quelli da aroma, seguendo l'antica tradizione inglese invece che quella americana più recente. Sempre presente, ha precisato, anche l'attenzione agli abbinamenti gastronomici: tanto che ciascuna scheda descrittiva riporta anche i suggerimenti relativi.

A questo punto bisognava decidere cosa assaggiare, nella coscienza che tutte e cinque no grazie, non le reggo. Ammetto che ad incuriosirmi di più erano la Sisma, con ben cinque luppoli a bilanciare il corpo dolce, e la Hoppitergium, con luppoli neozelandesi e americani in abbondante dry hopping (eh, lo so, la foga dei luppoli ha preso anche me, non solo la Poretti); Andrea ha però suggerito l'abbinata in sequenza Sayamé - Hoppitergium, e mi sono fidata. In effetti la Sayamé è un'ottima apertura: se l'aggettivo "delicato" può suonare come quanto di più scontato e generico si possa usare per descrivere una birra, è nondimeno il più calzante che ho saputo trovare. L'aroma tra il floreale e lo speziato è molto morbido, e anche al palato mostra un corpo meno robusto rispetto ad altre blonde ale - il che la rende particolarmente beverina. Anche l'amaro in chiusura non è assolutamente aggressivo, lasciando la sensazione di una bevuta decisamente semplice, piacevole e dissetante. In tutto e per tutto una birra "lienare" e pulita, fatta andare incontro a tutti i gusti e tutti gli abbinamenti, ma con il merito di non scadere nella banalità a cui a volte questo pur lodevole intento porta; una birra che inserirei peraltro in quella linea di pensiero, che incontra ormai sempre più adepti tra i birrai, secondo cui - dopo anni di sperimentazioni audaci - è tempo di tornare a fare le cose semplici, ma farle bene.

Sono quindi passata alla Hoppitergium - curioso il gioco di parole tra "hop", luppolo, e Opitergium, nome latino di Oderzo -: per quanto il bicchiere di plastica non aiutasse nel percepire gli aromi, la luppolatura del tutto peculiare emerge con forza, dando sentori in particolare di uva e frutta matura; e anche i sapori dolci del malto al palato, che pur sarebbero robusti, lasciano subito il posto ad una girandola di diverse tonalità di amaro  - da quello più erbaceo, a quello più terroso, a quello più citrico che ricorderebbe quasi di più i luppoli da aroma - per gli amanti delle luppolature forti. Il tutto comunque senza strafare, perché la persistenza, pur lunga, non è così intensa da risultare sgradevole, ma lascia anzi una discreta sensazione di pulito. Insomma, un birrificio giovane, ma con tutte le carte in regola per crescere bene; e se sono in tanti gli homebrewers che hanno dimostrato che avviare un birrificio non è un sogno, non posso che augurare a Patrice, Andrea e Alessandra di dimostrare che non lo è nemmeno fare strada.

martedì 14 luglio 2015

Prosciutto, speck e Zahre


Da tempo ero curiosa di vedere la Festa del prosciutto di Sauris, un evento che lo scorso anno ha richiamato in questo sperduto borgo della Carnia (e non in senso dispregiativo, ma perché è sperduto proprio per davvero) circa 22 mila visitatori: tenuto conto che Sauris conta 400 abitanti, fatte le debite proporzioni è come se Roma ne attirasse 154 milioni (solo i giubilei arrivato a tanto, credo, ma non in 2 weekend). Per l'occasione Sauris di sotto si riempie di bancarelle di artigianato e prodotti tipici del luogo, gruppi musicali, e naturalmente spazi degustazione di prosciutto, speck e affini - la specialità di Sauris - abbinati ad altre prelibatezze gastronomiche e alla birra Zahre. Perché, diciamocelo, uno speck chiama un'affumicata e viceversa, per cui non osi separare l'uomo ciò che le papille gustative uniscono (sì, quello è un soddisfatissimo Enrico che addenta un grissino con il prosciutto).

Per la prima volta ho avuto l'occasione di provare l'ultima nata, la apa Ouber Zahre, alla spina: perché la volta scorsa, a onor del vero, l'avevo bevuta spillata direttamente dal tank - come ho raccontato in questo post - e non l'avevo nemmeno potuta apprezzare pienamente, in quanto non era ancora trascorso un sufficiente tempo di maturazione. E questa volta in effetti era tutta un'altra cosa: i profumi citrici del luppolo, ben bilanciati tra gli estremi del pungente e del vellutato, lasciano spazio ad un corpo che, se inizialmente fa sentire in forza il malto con qualche accenno di biscotto, poi vira in chiusura su un amaro discreto ma netto, che lascia la bocca ben pulita. E fino a qui, dirà chi ha letto il post precedente, hai detto le stesse cose della volta scorsa: sì, ma questa volta il tutto era amalgamato ed equilibrato assai meglio, con passaggi tra dolce e amaro ben congegnati.

In seconda battuta ho riprovato dopo tanto tempo la loro bionda Pilsen, che in passato avevo spesso derubricato a birra di un genere che non è nelle mie corde. Beh, sarà stata la sete, ma mi sono dovuta ricredere: l'aroma è delicato, tra il floreale e il lievito, e in bocca dà una girandola di sapori dolci di cereale e crosta di pane, per chiudere con un amaro così vellutato da non contrastare i sapori precedenti. Come testimonia la mia foto con Slavica, anima commerciale di Zahre Beer, sono quindi stata pienamente soddisfatta di aver dato una seconda possibilità - si sa che anche i gusti evolvono - a questa birra.

Nota tecnica per chi fosse da queste parti: sappiate che siete ancora in tempo, perché la Festa del prosciutto si conclude il prossimo fine settimana. Buon divertimento e buona degustazione...

lunedì 13 luglio 2015

Happy BeerDay Foglie d'Erba

Chi mi conosce, conosce anche la mia passione - che a volte ha dell'ossessivo - per la montagna: motivo in più per accettare con grande gioia l'invito ai festeggiamenti per il settimo compleanno del birrificio Foglie d'Erba a Forni di Sopra l'11 luglio, così ho potuto prima incastrarci una camminata (più una corsa, in realtà) al rifugio Flaiban Pacherini, giusto per farmi venire la sete necessaria. Scherzi a parte, essendo Gino Perissutti il primo birraio che ho conosciuto - insieme a Severino Garlatti Costa -, non potevo mancare: anche perché la cosa non si prospettava come semplice "sagra", ma come un grande evento in piena regola che ha coinvolto l'intero paese. Dai ristoranti che hanno cucinato piatti con le birre di Foglie d'Erba, a chi si è messo a disposizione per organizzare giri in carrozza o voli in parapendio, alle ricamatrici che hanno allestito una vetrina speciale per l'occasione, al centro estetico che ha battezzato con i nomi delle birre i massaggi offerti, davvero le idee si sono sprecate. Il tutto condito dagli opportuni ed immancabili gadget, tra cui la simpatica maglietta che vedete nella foto.

Naturalmente nella foto vedete anche una birra, per cui veniamo al dunque. La prima che ho assaggiato in realtà avrebbe dovuto essere l'ultima, in quanto "chicca" dell'occasione: trattasi della Lazzaro Nord Est (per gli amici LazzaroNE), blend di tre birre di Gino - la natalizia Nadal, la sour ale alle ciliege e lamponi Cherry Lady, e la porter Hot Night at the Village - inizialmente mal riuscite (vabbè, capita) e poi "risuscitate" - di qui il nome - con il contributo del presidente dell'Accademia delle Birre Paolo Erne grazie alla permanenza in botti di rovere. Il risultato è una birra dalla carbonatazione praticamente assente, che al naso fa risaltare la ciliegia con tutto un contorno di profumi di frutta matura - personalmente ho colto anche la prugna -; anche nel corpo il fruttato la fa da padrone, con una sorta di "litigio" tra le note liquorose e quelle quasi lattiche, per chiudere con un finale dall'acido pungente, acetico. Non la definirei una birra per tutti, ma se vi piace il genere sicuramente vale la pena provare quella che è sicuramente una birra tra le più originali e curiose, che armonizza in maniera sapiente i sapori di tre birre originariamente molto diverse. Anche Gino ha apprezzato il risultato, e sta considerando l'idea di replicare: personalmente ha tutto il mio incoraggiamento, e attendo al varco con fiducia (e con bicchiere in mano).

Alla festa non c'erano soltanto le birre di Foglie d'Erba, ma una vasta selezione da tutto il Friuli Venezia Giulia - più uno sconfinamento in Veneto: Garlatti Costa, Borderline, Antica Contea, Zahre e Il Birrone (in ordine rigorosamente casuale eccetto l'ultimo, in quanto unico Veneto, e quindi in fondo per coerenza rispetto alla frase precedente). Tra le tante mi sono naturalmente diretta su quelle che non avevo mai provato prima: inizialmente la Yakima Ipa di Borderline - una ipa dal colore ambrato (quella che tengo in mano nella foto) e dalla luppolatura particolarmente generosa sia in amaro che in aroma, che alterna tra olfatto, palato e chiusura note tra l'erbaceo, il resinoso e l'amaro terroso -; e poi la Heaven and Hell del Birrone, una blanche in cui la speziatura di coriandolo e arancia amara risulta particolarmente delicata e va a braccetto con un corpo fresco - in cui risalta bene il frumento - dalla bevibilità eccezionalmente facile (occhio, che farà pure quattro gradi e mezzo, ma di questa ne scende un litro senza accorgersene. Con estrema soddisfazione, però). Ovviamente non mancava nemmeno una vasta rappresentanza di birrai della zona. Nella foto vedete, da sinistra, Severino Garlatti Costa di Birra Garlatti Costa, Giovanni Francescon de La Birra di Meni e il padrone di casa Gino Perissutti; ma c'erano anche Andrea Marchi e Costantino Tesoratti di Antica Contea, Antonio Zanolin di Zanna Beer, e Giulio Cristancig di Birra Campestre. Guest star il Birraio dell'Anno Simone Dal Cortivo de Il Birrone, che però, al momento della mia partenza da Forni, era ancora dato da Nataly come in viaggio in sella alla sua moto: ho incontrato una carovana di motociclisti ad Ampezzo, chissà, magari era uno di loro.

Era poi presente l'associazione Homebrewers Fvg, che ha organizzato una cotta pubblica: nella fattispecie una tripel al miele di acacia e pino mugo su ricetta di Luca Dalla Torre (che vedete nella foto, accanto alla pentola di bollitura). Naturalmente non l'ho potuta assaggiare, ma gli homebrewer non hanno comunque fatto mancare le loro creazioni; su tutte segnalo la Sai Son di Paolo Erne (sì, sempre lui), una saison senza luppolo come nell'antica tradizione belga in cui si usava il gruit (una miscela di erbe: e infatti ha usato quelle di una tisana, acquistata da un suo amico come intruglio dimagrante, e finita poi a servire ben altri - e forse più nobili - fini).

Da ultimo non posso non riservare una nota di merito a tutte le signore, Annita in testa, che hanno preparato gli assaggini di frico che vedete nella foto: uno dei migliori (e anche dei più digeribili) che abbia mai provato, frutto della maestria consolidatasi in anni di esprienza (io ci ho provato a farmi spiegare i loro segreti, ma non nutro troppe speranze). La signora nella foto ha esordito dicendo "Mangia mangia, che ti vedo magrolina" (non so se sia nonna, ma se non lo è recita la parte benissimo), e finito con un "Guarda che se continui metti su anche un po' troppo peso": giusto per specificare come certe leccornie diano dipendenza...

martedì 7 luglio 2015

Il ritorno dei Sanniti

Come piacevole ricordo della Fiera della Birra Artiginaale di Santa Lucia di PIave, mi erano rimaste in cantina due bottiglie del Birrificio Pentra - di cui avevo già parlato in questo post: nella fattispecie la Castagn e la Patanai Piistiai, l'una alle castagne, l'altra con mosto di uva falanghina. Quest'ultima l'avevo già assaggiata e poi descritta nel post precedente, ma sia perché ne avevo un ottimo ricordo, sia perché all'epoca avevo una sensibilità diversa in campo birrario, ero assai curiosa di provarla di nuovo.

Già all'olfatto è ben percepibile l'aroma fruttato e acidulo del mosto, che esce dal cappello di schiuma sottile; un acidulo però che rimane assai discreto nel corpo, dove lascia più spazio ai toni maltati e liquorosi, senza tuttavia risultare alla fine di una dolcezza stucchevole. Complice sicuramente il ritorno in forze della nota acida in chiusura, a far sì che la persistenza sia "pulita" e non lasci la bocca impastata - anzi, invita piuttosto ad un altro sorso, in un connubio interessante tra birra e vino. Vino, sì: perché mi ha quasi fatto venire voglia di metterci insieme un cantuccino, come da tradizione con il vinsanto - non per dire che sia la stessa cosa, chiaramente, ma che accompagna gli stessi sapori.

Pochi giorni dopo ho invece stappato la Castagn, una ale dal colore ambrato come la precedente. Temo lo stato di conservazione non fosse ottimale - il che potrebbe essere anche colpa mia, per carità -, avendo colto un lieve odore di luce all'olfatto (per i non adepti: il cosiddetto "odore di puzzola", che non so quanti in realtà abbiano mai sentito, che si sviluppa appunto quando una birra subisce alterazioni causati dai raggi di luce - vi risparmio la spiegazione chimica su iso alfa acidi del luppolo & company). Fortunatamente era leggerissimo e non aveva pregiudicato il sapore, in cui si armonizzano i toni di castagna delicati con quelli di malto. Ammetto che appena stappata mi aveva lasciata piuttosto intrdetta la carbonatazione, a mio parere eccessiva; complice però il fatto che trattandosi di una bottiglia da 0,75 non l'ho finita in una volta sola (fa pur sempre quasi 7 gradi), ho fatto ciò che dicono non si dovrebbe fare mai, ossia tapparla e metterla in frigorifero. Mai eresia fu più felice: il giorno seguente una leggera ossidazione e la perdita di anidride carbonica l'avevano resa assai più interessante, con tanto di finale tra l'acidulo e il liquoroso che mi ha fatto pensare "però, questa qui, qualche mese in botte e vedi tu che spettacolo...". Accidenti, temo che tutti questi giri tra Arrogant Sour Festival, Notte Arrogante, eccetera eccetera mi abbiano rovinata....

sabato 4 luglio 2015

Una notte arrogante

Come già anticipato in un precedente post, uno degli eventi più attesi per gli amanti delle birre acide in zona Friuli Venezia Giulia era "La notte arrogante": una serata interamente dedicata a fermentazioni spontanee, barricate e affini organizzata dal noto publican del Mastro Birraio di Trieste Daniele Stepancich, in collaborazione con il birrificio Antica Contea di Gorizia e il fondatore di Accademia delle birre Paolo Erne. Anche per me, per quanto avessi già avuto modo di assaggiare all'Arrogant Sour Festival di Reggio Emilia buona parte delle birre annunciate, c'erano comunque degli ottimi motivi per andare - non foss'altro che per provare quelle che mi mancavano.

Innanzitutto la "What stay in the soup", la nuova creatura di Antica Contea, di cui Costantino mi aveva promesso la spiegazione del nome. Che in realtà mi ha dato Andrea: tutto nasce da un loro viaggio in terra britannica, in cui si sono trovati di fronte ad un nostro connazionale che al ristorante - giusto per confermare la proverbiale dimestichezza degli italiani con l'inglese - invece della "soup of the day", la zuppa del giorno, ha chiesto la "what stay in the soup". Di lì l'idea di battezzare così la loro prossima ambrata, dato che la zuppa in questione era al pomodoro; trattasi infatti di una ale ambrata, sorprendentemente monomalto e monoluppolo. Dico sorprendentemente perché, nonostante un lieve aroma dolce di fragola, all'olfatto la si direbbe quasi una luppolatura "all'americana", piuttosto sbilanciata verso l'amaro erbaceo, e comunque risultato dell'armonizzazione di più luppoli; e che invece si rivela essere frutto di un solo luppolo, peraltro australiano, e malto monaco. A farla da padrone è comunque l'amaro, sia nel corpo che in chiusura, lasciando sapori erbacei assai persistenti pur senza essere eccessivi.

Sempre di Antica Contea ho riprovato la Rinnegata - chi non sapesse di che cosa sto parlando riveda questo post -, questa volta però alla spina e maturata in botti di rovere anziché di ciliegio. Ad essere onesta, trovo che renda molto meglio spillata da cask - e quindi senza gasatura - e con il "ricarico" di sapori e aromi dato dal ciliegio; ma anche così si difende bene, soprattutto se si ha la pazienza di scaldarla un po' così che liberi al meglio i profumi di amarena e cioccolato.

Una novità per me era invece la Vingraf, una ale brettata a cui è stato aggiunto mosto di sauvignon di un'azienda agricola locale dopo la fermentazione primaria. Partita come ambrata, ha assicurato Costantino, "ora il brett s'è mangiato anche il colore", ormai dorato - come la foto testimonia. All'olfatto risaltano gli aromi tra il dolce e l'acido del vino, che si combinano poi armoniosamente al palato insieme alle note liquorose; per chiudere con una punta di acido tipico del genere - è notizia recente infatti che è stato codificato lo stile "Italian Grape Ale", birra italiana ad alta fermentazione all'uva. Vi risparmio i vari commenti del tono "W la IGA".

Da ultimo, pur piangendomi il cuore per la Hybrida Rubra di Paolo Erne al mosto di Terrano, dovendo scegliere - perché ormai era tardi...- non ho potuto andarmene senza riprovare IL barley wine, ossia la sua Godzilla: un nome un programma, trattandosi di un triplo mash - in altre parole, tre infusioni successive nello stesso liquido, che portano ad un totale di 18 gradi alcolici  - a cui è stata aggiunta, tra le innumerevoli altre cose, una generosa quantità di uvetta sultanina. Dopo due anni di maturazione in botte, il bilanciamento del dolce è giunto ad un punto ottimale: se l'uvetta e i profumi quasi da sherry risaltano soprattutto all'olfatto, in bocca oserei definirli vellutati, per chiudere con un tocco tra malto e caramello che non lascia la bocca impastata.

Ultima nota va "alla casa", ossia alla cucina del Mastro Birraio: assai simpatico il format del "San Bernardo", ossia della ragazza con botticella appesa al collo a mo' di salvadanaio, dove infilare le monetine per procacciarsi il contenuto del vassoio che aveva in mano. E che contenuto: polpette di patate e salumi, tempura di orata e di tonno, cotti a dovere senza risultare pesanti - e chi mi conosce sa quanto io sia severa sul fritto. Insomma, che dire: buon cibo e ottima birra in piacevole compagnia, per una serata da ricordare.