venerdì 30 maggio 2014

La tigre dorata di Praga


Una delle cose che mi era rimasta in mente di Praga, visitata nel lontano 2006, era che la birra costava meno dell'acqua: motivo per cui mio fratello, allora appena quindicenne, aveva avuto licenza di dilettarsi con i boccali da mezzo, e io, che birra ancora non ne bevevo, avevo finito per spendere una fortuna. In questi anni, a quanto pare, la dinamica dei prezzi è rimasta la stessa – 30 corone, poco più di un euro, per mezzo litro di pils, contro le 75 per mezzo litro d'acqua – per cui ho concluso che valeva la pena portarci anche Enrico. Naturalmente mi sono fatta consigliare qualche locale dal buon Mirko Raguso, che lavorando per Interpivo conosce la capitale ceca come le sue tasche; così la prima sera non ho potuto resistere dall'iniziare da quello che viene considerato da molti il locale più caratteristico della città.

Trattasi di U Zlatého Tygra, “Alla tigre dorata”, a pochi passi dalla piazza centrale. Qui, giusto per iniziare bene, ancor prima che abbiate modo di ordinare qualcosa vi mettono in mano un boccale di Pilsner Urquell: d'altronde, se siete lì, è evidentemente per quello, quindi perché perdere tempo. Ogni bicchiere viene contrassegnato da una riga sul foglietto che il cameriere lascia sul tavolo, e alla fine si fanno i conti: credetemi che si vedevano in giro foglietti con una selva parecchio folta di strisce. Mi raccomando, non lasciate il bicchiere vuoto sul tavolo se ne avete avuto abbastanza: è il segnale che ne volete ancora e ve ne arriverà un altro all'istante, con relativa strisciatura del foglio. Bicchiere, peraltro, lavato molto alla buona, passandolo rapidamente in una vasca con acqua corrente. La birra comunque è buona, e anche il cibo, pur non trattandosi propriamente di un ristorante, mi ha lasciata soddisfatta – basti dire che la bistecca di maiale in pastella di patate, pur essendo fritta, ha passato la mia severissima approvazione. Più di tutto però merita l'ambiente davvero accogliente e “verace”, motivo che da solo vale una visita.

Dato che Mirko aveva magnificato la cucina di U Glaubicu, mi sono fidata: e in effetti, almeno per quanto riguarda l'arrosto di maiale in salsa di birra con i tipici gnocchi di pane cechi e i crauti, aveva ragione. Anche qui si beve Pilsner Urquell, ma con la particolarità che viene spinata direttamente dai tank: una curiosità che contribuisce a dare una nota caratteristica anche a questo locale, che mi sento di consigliare pur essendo piuttosto turistico – e non potrebbe essere altrimenti, a pochi metri dal Ponte Carlo dal lato di Mala Strana.

Bocciatura senza appello invece per quella che alcune guide definiscono “la” birreria di Praga, U Fleku. Va bene, avrà pure origini quattrocentesche; va bene, avrà pure la sua unica birra nera a 13 gradi – che spacciano come prodotta sul luogo, in realtà non è più così – dalle inconfondibili note di caramello e di tostato (personalmente ho sentito assai forte il caffè); va bene, l'arredamento in legno è proprio caruccio; ma, al di là del fatto che ho trovato la birra non eccezionale pur nella sua unicità, la schiera di fisarmonicisti in abito tipico che si alternano nell'intrattenere i turisti suonando Rosamunda e simili proprio no. La cosa che più mi è piaciuta è stata in fin dei conti una delle usanze del locale che potrebbe risultare quasi irritante, ossia quella che i camerieri passano continuamente ad offrire – facendoli poi comparire sul foglietto come quello di cui sopra – dei bicchierini di liquore, dalla tradizionale Becherovka a quello alle erbe: e devo ammettere che quello al miele che ho assaggiato io era davvero buono. Ok, al di là degli scherzi: in sé e per sé è un locale storico degno di questo nome, ma l'impressione che ne ho avuto è quello di una pura e semplice attrazione turistica.

Ad ogni modo, la “chicca di tipicità” doveva ancora arrivare: il Czech Beer Festival...

martedì 27 maggio 2014

La prima cotta non si scorda mai

No, non sto parlando di amori adolescenziali; ma del terzo giorno del corso tecnico gestionale per imprenditori della birra dell'Università di Udine, unica in italia ad organizzare simili iniziative. Mente pensante del tutto è il prof. Buiatti, per iniziativa del quale sin dal 2002 l'ateneo ha affiancato al corso di tecnologia della birra - anche questo una peculiarità - un impianto sperimentale: ed è lì che esce la Cerevisia, la birra dell'Università, e che sabato 24 maggio i partecipanti al corso hanno provato a fare la loro prima cotta. Che, per definizione, di solito non riesce bene: ma questa volta era sotto l'assistenza di Buiatti, del mastro birraio Stefano Bertoli e del tecnologo alimentare Paolo Passaghe, per cui a fine giugno ho fiducia di assaggiare una birra degna di questo nome.

Se Teo Musso aveva insistito sul fatto che "la birra è un prodotto della terra", oggi abbiamo avuto modo di rendercene conto: il primo passo è stato infatti quello di macinare l'orzo maltato - "Non troppo sottile, mi raccomando, sennò poi vi esce un pastone". Orzo che siamo poi andati a versare nel tino di ammostamento, armandoci di santa pazienza per aspettare che gli enzimi facessro il loro lavoro di degradazione dell'amido. Già perché ho dovuto imparare a destreggiarmi tra alfa e beta amilasi, destrine e maltosio, zuccheri fermentescibili e non: insomma, una gran confusione, almeno per me che di chimica ho solo un pallidissimo ricordo risalente ai tempi del liceo.

Trascorsa l'ora e mezza necessaria, abbiamo fatto passare il mosto nel tino di bollitura. Mosto che il prof Buiatti ci ha invitati ad assaggiare, "per rendervi conto di quanto sia dolce e di come gli enzimi abbiano prodotto maltosio, che è uno zucchero". Il fatto che chi già aveva avuto occasione di assaggiarlo in passato declinasse gentilmente l'offerta avrebbe dovuto farmi sorgere qualche dubbio: e infatti, mi spiace dirlo, ma era proprio disgustoso, e anche l'odore non era esattamente gradevole.Vabbè, se la birra va bevuta dopo la fermentazione e la maturazione, un motivo ci sarà.

Mentre il mosto raggiungeva il punto di ebollizione, il professore ha chiesto "un volontario che si rimboccasse letteralmente le maniche": il lavoro da fare era quello di svuotare il primo tank dal macinato, che per quanto si riesca in buona parte a far uscire dalla botola, rimane in altrettanto buona parte sul fondo. Il ragazzo in questione sembrava pure divertirsi nell'immergere le mani fino al gomito in quel pastone: d'altronde, c'è un po' di bambino in tutti noi. Intanto era ormai giunta l'ora di fare la prima delle due gettate di luppolo, all'inizio dei 60 minuti di bollitura. "E deve essere assolutamente una donna - si è raccomandato il buon Paolo Passaghe -: altrimenti la birra non viene bene. Lo giuro, non è superstizione". Così, dato che di donne - manco a farlo apposta - eravamo solo in due, la prima gettata l'ho fatta io, mentre ad Alessandra è toccata la seconda 5 minuti prima della fine della bollitura. La ragione è che il luppolo della seconda gettata rimane molto più presente poi all'aroma e al gusto finale, per cui conferisce alla birra le note caratteristiche del tipo specifico di luppolo - o luppoli - che si vuole utilizzare.

A quel punto non rimava che, passatemi l'espressione, "mettere tutto in fermento": trasferito il mosto nel fermentatore, Paolo ha gettato la mistura di lievito - questo sì dall'odore davvero insopportabile - e sigillare il tutto. Il lavoro della giornata, a quel punto, era finito. "Neanche per idea - ci ha bloccati il professor Buiatti - adesso c'è da pulire tutto". Pompe dell'acqua, scope e ramazze alla mano, siamo così stati di corvé ancora per un po'. Di solito mentre faccio lavori manuali rifletto: ma stavolta c'era ben poco su cui riflettere. Perché se c'è una cosa che ho capito, è che è impossibile trovare non dico una formula matematica, ma quantomeno una relazione logica tra i vari passaggi del fare la birra. Credevo che il grado alcolico dipendesse dalla quantità di zuccheri fermentescibli? Si, no, beh, dipende che lievito usi. Credevo che l'amaro dipendesse dalla quantità e dal tipo di luppolo? Si, no, beh, dipende quando lo metti e da che macinato sei partita. Per calcolare la quantità di luppolo da gettare abbiamo usato una formula matematica, è sempre quella? Si, no, beh, dipende, devi provare che cosa ne esce. Insomma, c'è da uscirne pazzi, e come ha sottolineato Buiatti, "Anche se andate a prendervi gli stessi malti e gli stessi  luppoli della Pilsner Urquell, e usate esattamente gli stessi lieviti e lo stesso procedimento, non vi uscirà mai la Pilsner Urquell. Perché ogni cotta è a sé". Proprio come quelle amorose...

Un sincero grazie al prof. Buiatti e a tutto lo staff dell'Università per avermi ospitata, nonché ai corsisti per la piacevole compagnia!

venerdì 23 maggio 2014

Teo Musso e la "birra viva" del Trovatore

Lo so, è un titolo pessimo, e alla scuola di giornalismo me l'avrebbero sicuramente bocciato (come del resto la maggior parte dei miei titoli); ma è così che riassumerei la sostanza dell'incontro con Teo Musso, titolare e mastro birraio del birrificio Baladin, venuto a Udine come relatore al corso per imprenditori del settore organizzato dall'Università - perché sì, l'Università di Udine fa pure la birra: qui non ci facciamo mancare niente.

Il buon Teo, pioniere della birra artigianale che ha aperto in Italia la strada seguita oggi da ben 706 produttori, ha così raccontato agli aspiranti  colleghi - o concorrenti che dir si voglia - la sua esperienza partita nel lontano 1986, quando ha riaperto il bar del paese - Piozzo, in provincia di Cuneo, "850 abitanti di cui la metà in casa di riposo" - chiuso da 8 anni. Il nome, Baladin, in francese significa "Cantastorie": un omaggio all'altra sua passione, la musica. Il locale infatti unisce musica e birra, tanto che nel 1989 si contano già 280 birre alla carta; ma all'inizio degli anni 90, "Ho deciso che dovevo approfondire una di queste due passioni. Ed essendo più vicino allo stile belga, è lì che sono andato".

Per la precisione a Pipaix, vicino a Mons, nell'unico birrificio a vapore ancora funzionante, dove a formarlo è tal Jean-Louis Dits: "Mi ha insegnato l'anarchia pure della birra - afferma Teo -: niente chiusura in quanto a regole, mai ripetere gli stessi percorsi, altrimenti non si sperimenta e non si fanno scoperte". Un insegnamento bilanciato da quello di un altro birraio, uscito dall'Università di Lovanio, in cui viene impartito un approccio molto più "ingegneristico" alla birra.

Nel 1996 Teo inzia a produrre nel suo locale, posizionando la sala cottura in bella vista dietro una vetrata che dava sulla strada: pessima scelta, almeno inizialmente, che spaventa i clienti nel vedere "queste grandi casseruole fumanti, in cui facevo bollire ciò che davo loro da bere mesi dopo". Risultato: -80% di clienti e debiti a gogò.

Teo decide allora di puntare su quel 30% di italiani che vivono quella che lui definisce "la rivoluzione francese del vino", ossia un rinnovato interesse per il bere di qualità: perché non usare lo stesso approccio anche per la birra? Teo disegna sia una bottiglia che un bicchiere utili ai fini del marketing, ed inizia un lungo pellegrinaggio in 500 ristoranti italiani per lasciare a ciascuno tre bottiglie delle sue due birre - la Isaac per il "cibo chiaro" come pollo e pesce, e la Super Baladin per secondi e formaggi stagionati. L'idea è quella di sostituirle al vino in abbinamento ai piatti. "Mi hanno risposto solo in 100 - racconta -: ma da lì è nata anche l'attenzione dei media, che ha fatto conoscere un prodotto come la birra artigianale che in Italia on aveva nemmeno ancora un nome. In sostanza, sono andato a riempire un vuoto".

Nel 2000, il salto di qualità partito dal pollaio dei genitori ristrutturato per farci una cantina di fermentazione e imbottigliamento, e la scelta di dare in distribuzione i suoi prodotti ad una società concorrente per meglio posizionarle sul mercato del vino. Convinto sostenitore dell'"autarchia totale" in quanto a materie prime, Teo inizia a creare una vera e propria filiera agricola: "Purtroppo, a differenza del vino, il prodotto birra è percepito come slegato dalla terra - afferma -: invece non è così". E quindi Teo semina orzo distico prima in Piemonte e poi nel centro Italia, e avvia nel 2008 il primo luppolaio sperimentale: "Così oggi ci basiamo per l''85% su materie prime italiane. Perché non puoi sbandierare l'italianità se poi importi la maggior parte dei prodotti".


Nel 2009 Teo lancia il progetto "Open Baladin", basato su quella che lui definisce una "ricetta open source" a disposizione di tutti, come modo per far crescere l'interesse per la bira artigianale italiana e portarla nei pub facendo lavoro di squadra con gli altri produttori. E' solo l'anno successivo però, secondo Teo, che si innesca un interesse diffuso: "Innanzitutto per un rifiuto del prodotto industriale - afferma -, ma anche perché sono cambiate le dinamiche di consumo: si vuol sapere che cosa si beve, il gusto si sta qualificando, e l'industria risponde". Senza dimenticare la diffusione del movimento degli Homebrewers e la riconoscibilità del prodotto: "Quando uno assaggia una birra artigianale, così ricca di aromi rispetto a quella insdustriale, si crea un meccanismo di non ritorno nel cervello". Sante parole...

Oggi la produzione artigianale copre poco più del 2% dei consumi nazionali, "ma sono certo che nel giro di 3 o 4 anni arriveremo a raddoppiare questa quota". Rimangono però dei pesanti limiti, innanzitutto le dimensioni dei birrifici: "Sotto gli 800 ettolitri l'anno, la produzione non è economicamente sostenibile - afferma Teo -, ma la maggior parte dei produttori è sotto questa quota. Inoltre non siamo competitivi sul mercato estero: in Belgio una birra va sullo scaffale ad un prezzo compreso tra i 2 e i 4 euro, cosa che da noi sarebbe impensabile dati i costi che i piccoli birrifici devono sostenere". Da ultimo, "Non c'è ancora una cultura del marchio: la gente cerca la birra artigianale, più che un brand specifico".

Naturalmente la dotta dissertazione è finita in degustazione: nella fattispecie della Nazionale, "la prima birra 100% italiana", aromatizzata al bergamotto e coriadolo. A svelare il segreto del finale particolarmente secco è stato lo stesso Teo: "E' il lievito cerevisiae, che abbassa tantissimo il grado zuccherino". Ah, ecco. A seguire una barricata da ben 14 gradi, e che barricata: manco l'avrei detta una birra, tanto erano forti le note liquorose. Se cercate "una birra" forse non è quello che ci vuole, ma merita un assaggio.

Per finire, Teo ha dato la sua definizione di birra artigianale: "Una birra viva, perché né pastorizzata né microfiltrata. Credo che così il messaggio sia più chiaro".

venerdì 9 maggio 2014

Anche Maria Teresa beveva la Ipa

Almeno qui in Friuli, il nome di Maria Teresa d'Austria ancor prima che Vienna evoca Trieste: la celebre imperatrice ha infatti lasciato la sua impronta nella città, non solo nell'architettura - a lei si deve l'ospedale maggiore - ma anche, diciamo così, sotto il profilo birrario. E' lì infatti che nel 1766 tal signor Lenz ha aperto la prima fabbrica di birra della città, diventata poi lo storico birrificio Theresianer, in omaggio alla monarca. Potete così immaginare quale è stata la mia sopresa nello scoprire che in realtà lo stabilimento ora è nelle mie terre d'origine, e precisamente a Nervesa della Battaglia (Treviso).


Scoperta che ho fatto qualche sera fa al Caffè Al Portello - di cui avevo già scritto in questo post -, quando ho deciso di lasciar fare al buon Luca nel scegliere la birra per quella sera. Preannunciandomi che "questa è speciale", mi ha messo davanti una Ipa della Theresianer: ed ho così scoperto, leggendo l'etichetta, che il noto marchio si è spostato più ad ovest. Poco male, mi sono detta, l'importante è che la birra sia buona.

In effetti, di una cosa devo dare atto a Luca: speciale è speciale, in quanto l'ho trovata diversa da altre Ipa. Sin dall'aroma si nota che la luppolatura è parecchio più intensa della media, con qualche leggera nota di spezie e di agrumi. Anche il gusto non delude le anticipazioni: il corpo è ben robusto e amaro, ma senza lasciare poi - scusate la ripetizione - l'amaro in bocca, perché pur essendo ben persistente tende a smorzarsi lasciando un sentore di "pulito".

Chiaramente a questo punto si apriva la questione dell'abbinamento, anche se le birre dal gusto così intenso a volte stanno quasi meglio da sole - della serie, non roviniamoci il gusto. Sicuramente qualcosa di salato - non a caso Luca ci aveva messo davanti delle noccioline -: più di tutto, abbiamo concluso, potrebbe andarci insieme un formaggio ben stagionato, per quanto la scehda di degustaizone suggerisse anche salumi piccanti e pesce. Ottima, comunque, anche da sola, non c'è che dire.

Un'ultima nota per la scheda di degustazione allegata alla bottiglia: la curiosità è che comprende anche una descrizione in 5 passaggi successivi, con tanto di fotografie, di come riempire il bicchiere nel modo giusto - partire inclinandolo a 30° per poi riportarlo lentamente in verticale finché si riempie per 3/4, aspettare che si compatti la schiuma e poi finire l'opera - in modo da valorizzare al meglio questa Ipa. Della serie, se sbagliate qualcosa e la birra vi delude, non potevate dire che non ve l'avevamo detto.

domenica 4 maggio 2014

A tutta birra, parte seconda: tra canapa e pompelmo

Come già accennato, tra gli stand di "A tutta birra" c'era anche il ben noto Zahre: e lì ci ha accolti a braccia aperte Danila, per quanto fosse impegnata tra griglie e affettatrici. Come spesso accade, infatti, il birrificio e il prosciuttificio Wolf fanno squadra: e così come non abbinare un'affumicata al tipico speck, o una chiara pilsen al prosciutto crudo. Per l'occasione, poi, c'è stata anche l'innovazione della griglia: "La nuova salsiccia di Wolf, è spettacolare - ci ha anticipato entusiasta Danila -, aspettate che ve ne metto una sul fuoco con un po' di polenta...". Insomma, non ci si fa mancare niente.

In quanto a beveraggi, Enrico ha puntato sulla rossa Vienna, che rimane al di là di tutto la sua preferita; io invece, data la gola riarsa, ho optato per quella che trovo più dissetante, la Canapa. "Buona scelta - ha osservato Danila -, questa cotta l'abbiamo fatta con la canapa di Sauris, la nostra, è diversa dalle altre. Fammi sapere cosa ti sembra".

In effetti, già l'aroma era nettamente più agrumato del consueto: quasi non si sentiva il classico erbaceo che contraddistingue questa birra. Al gusto poi, lasciando a bocca aperta la povera Danila che non si sarebbe aspettata una simile trovata, ho sentito delle chiare note di pompelmo: vabbè, sarò pure l'unica che le percepisce, ma c'erano. E non ci stavano male, devo dire, perché la rendono molto più dissetante, senza nulla togliere poi - anzi, forse valorizzando - la persistenza amarognola. Insomma, l'ho trovata migliorata, e complimenti ai birrai - e alla canapa locale.

Ora attendo con ansia di assaggiare la Ipa: i primi test sono già usciti dai fermentatori, e sono pure stati collaudati - leggi: birrai e assaggiatori si sono fatti un'allegra bevuta, meritata dopo tante fatiche creative. Danila, Massimo, Slavica e compagnia, siete avvisati: mettetemi da parte una bottiglia che arrivo...

sabato 3 maggio 2014

A tutta birra, parte prima: il fascino della volgarità

Fino a questa sera, appuntamento imperdibile per gli amanti della birra in quel di Udine è "A tutta birra", che occupa ben tre padiglioni della fiera. In realtà, non la definirei una fiera nel senso classico del termine, ossia un momento di incontro tra operatori del settore: più che altro un'occasione per i birrifici di distribuire generosamente le loro creazioni agli appassionati, in un tripudio di spine, fusti e bottiglie. Un appuntamento estremamente informale insomma, in cui ho peraltro ritrovato parecchi amici - da Tazebao, a Zahre, a Baracca Beer.

Nuova conoscenza è invece stato il birrificio Ottur di Salgareda (Treviso), nome che può risultare piuttosto misterioso finché non se ne vede il logo, in cui la r finale è rovesciata a specchio: chiaro invito a leggere la parola al contrario, che si svela così essere "rutto". "Perché la birra è una cosa semplice, da bene in compagnia, senza pretese né galateo - ha sentenziato il birraio Federico -. E soprattutto in gran quantità, senza doverci pensare". Anche lui, mi sono detta, è della stessa scuola di pensiero di Gino Peressutti di Foglie d'Erba. Tenendo conto che di formazione è sommelier - oltre che istruttore di scuola guida di professione, il che potrebbe porsi in serio conflitto di interessi con l'attività di birraio - si capisce perché, come lui stesso ha ammesso, abbia preferito darsi ad un mondo con meno lustrini.

Non a caso la linea di birre che escono dai loro due fermentatori - per ora piccoli, appena un centinaio di litri l'uno - è stata battezzata "Volgare": c'è la bianca, la rossa, la nera e la bionda, a cui si aggiunge - fuori catalogo, diciamo così - la ipa. Tutte quante, ha precisato Federico, "con una nota decisa di acidità: perché a me piace così, le trovo più bevibili".

In effetti l'acidità si pone come nota distintiva della bionda - una ale chiara che per il resto non ho in realtà trovato distinguersi particolarmente da altre dello stesso genere - e della bianca; questa sì invece merita una nota a parte, perché questa persistenza, sposandosi con l'aromatizzazione al coriandolo, ne fa una blanche indubbiamente diversa dalle altre. Insomma, l'ho apprezzata nonostante i miei preconcetti verso l'acido, come ho ammesso io stessa a Federico.

Assai curiosa poi la nera, in cui - acidità caratteristica a parte, che di solito non è presente nelle birre di questo genere - si distingue un certo aroma di oliva che Federico ha ammesso essere non intenzionale, ma "una sorpresa degli ingredienti". Ammetto che, non essendo un'appassionata di olive, non mi ha entusiasmata; però, se siete alla ricerca di aromi e sapori insoliti, indubbiamente fa al caso vostro. Meno luppolata rispetto alle altre dello stesso genere e soprattutto molto più beverina è poi la ipa, tanto che l'altro birraio, Zarko, completamente calvo, mi ha messa in guardia: "Attenta che è parecchio alcolica: io, prima di berla, avevo i capelli lunghi e biondi". Beh, almeno la collaudano: e se la bevono loro, è una garanzia...