martedì 30 gennaio 2024

Birraio dell’Anno: l’intervista a Enrico Ciani

Dopo un lungo periodo di silenzio dovuto a motivi personali, ritorno con un'intervista a Enrico Ciani di Birra dell'Eremo, fresco di titolo di Birraio dell'Anno, pubblicata per il Giornale della Birra.

Enrico, alcuni hanno parlato di una vittoria annunciata, dati i numerosi premi già ottenuti e i piazzamenti via via migliori nelle ultime edizioni di Birraio dell’Anno: te l’aspettavi o è stata una sorpresa?

Decisamente una sorpresa. Per quanto sia vero che c’erano segnali che potevano far pensare ad una vittoria, non la si poteva comunque dare per scontata, considerato anche l’alto livello degli altri finalisti.

 

Si dice spesso che stanno ritornando le birre “semplici”, gli stili classici, e che sono finiti i tempi delle sperimentazioni ardite. Per quanto la gamma di Birra dell’Eremo sia vasta, e ci sia quindi spazio sia per l’una che per l’altra cosa, è innegabile però che la tua cifra distintiva siano le sperimentazioni: questa vittoria è una smentita dell’affermazione iniziale? O le sperimentazioni piacciono solo agli “addetti ai lavori”?

No, confermo che c’è una tendenza alla bevuta semplice e che si sta perdendo la smania di ricerca dell’elemento “strano”, e di questo sono contento. La sintesi tra questi due opposti che voglio creare con il mio lavoro è quella di avere sempre come filo conduttore la bevibilità e la semplicità complessiva, anche se abbiamo perlopiù birre “particolari” e anche nel caso delle birre che sulla carta sono più “audaci”: la cosa che conta è la bevuta.

 

Sul palco di Birra dell’Anno è stato chiesto a tutti che 2023 è stato: a mente fredda, giù dal palco, cosa rispondi?

È stato un 2023 positivo anche se non di crescita estrema: del resto siamo arrivati da due anni post-Covid in cui si sono viste cifre anche di +20 o +30%, era evidente che non poteva essere un fenomeno duraturo, e che ci siano difficoltà di mercato legate al ritorno alla normalità dopo un periodo che che normale non è stato. Abbiamo visto una crescita più contenuta, ma che ci ha permesso di consolidare la nostra posizione e progettare la struttura del birrificio. Poi fa naturalmente fa piacere vedere di essere sempre più apprezzati, e di percepire molta positività attorno al nostro lavoro.

 

E che 2024 sarà? Molti hanno parlato di difficoltà legate al rallentamento di mercato, all’aumento dei prezzi delle materie prime, e più in generale all’inflazione…

I costi sono senz’altro uno dei problemi, ma abbiamo sempre cercato di trovare soluzioni per non incidere sul prezzo finale: dal rivedere i contratti per le forniture di malto e luppolo, al diminuire la produzione di bottiglie a favore di quella di lattine perché la seconda è meno onerosa. Nelle difficoltà si trovano modi per reinventarsi. Sicuramente il 2024 sarà impegnativo e direi selettivo: chi si è strutturato, chi ha investito in strutture e tecnologia, avrà ancor più che in passato vantaggi su chi invece non si è rinnovato, magari vivendo di rendita della crescita di questi anni. Noi speriamo di aver progettato bene il futuro: abbiamo aumentato la tecnologia dell’impianto, rifatto gli interni del birrificio, e stiamo avviando nuovi progetti.

 

Quando si riceve un premio prestigioso si apre poi la spinosa questione del “dimostrarsi all’altezza”: hai timori in questo senso?

Certo la sensazione di “dover rimanere all’altezza” c’è, ma senza ossessioni: cercheremo semplicemente di mantenere l’impegno che sia io che tutti quelli che lavorano con me abbiamo messo in questi anni, e di ripetere quello che abbiamo fatto.

 

Leggi l'intervista originale su https://www.giornaledellabirra.it/interviste/birraio-dellanno-lintervista-a-enrico-ciani/

domenica 3 settembre 2023

Il decennale di Acido Acida

 

Dopo la pausa maternità che mi sono presa lo scorso anno, sono ritornata ad Acido Acida, il festival ferrarese delle birre britanniche. Un’edizione peraltro significativa, la decima: con oltre 200 birre a listino (di cui diverse esclusive per il festival e debutti al di là dei confini nazionali) tra Inghilterra e ospiti italiani, una cinquantina di birrifici, per un panorama di produzioni selezionate tra le creazioni di punta di ciascuno dei partecipanti - con un occhio di riguardo per fermentazioni spontanee e barricate. Naturalmente, valore aggiunto è il fatto di poter incontrare i birrai o i loro collaboratori: cosa che mi ha fatta dirigere prevalentemente sui birrifici che potevano appunto contare su un loro rappresentante, dato che l’unico modo per fare una chiacchiera con loro davanti ad una loro birra sarebbe appunto recarsi in Inghilterra.


Ho iniziato da quella che è stata la principale novità di quest’anno, Balance Brewing&Blending, giovane (ha aperto nel 2021) nonché unico birrificio di Manchester ad occuparsi esclusivamente di affinamento, appoggiandosi ad altre aziende locali per brassare. Ho quindi fatto una chiacchierata con James e Will, i fondatori, davanti alla loro Saison de Maison Blend #3: un blend di tre diverse botti (tutto rovere di ex vino rosso) risalenti al periodo tra dicembre 2021 e marzo 2022, classificato come farmhouse ale. Al naso è proprio la componente del legno a risaltare un maniera particolarmente vivace, lasciando comunque percepire bene i profumi fruttati e una leggera nota funky sullo sfondo. Il corpo esile e fresco, che vira sull’agrumato e finanche sulla frutta tropicale (in virtù della luppolatura generosa), non lascia assolutamente presagire i 6 gradi alcolici; chiudendo infine su un’acidità da frutta, molto gentile e non troppo persistente, e un amaro erbaceo che tende ad indugiare più a lungo. Del tutto abbordabile anche per chi è alla prima esperienza con il mondo sour, nella misura in cui questo è molto bel bilanciato con la frutta.



La seconda chiacchierata è stata con quella che era la novità dello scorso anno, Pastore: un birrificio che tratta esclusivamente fermentazioni spontanee gestito da padre e figlio, Chris e Ben rispettivamente, nel Cambridgeshire, e il cui nome italiano rende omaggio alle origini della nonna. Il loro repertorio spazia da sour più “gentili”, come Waterbeach Weisse Passion Fruit & Guava (una Berliner Weisse che, al palato di chi è più avvezzo a questi stili, può apparire come ai limiti del succo di frutta), ad altre nettamente più complesse come La Pera (una Golden Wild Ale maturata per un anno in botte di sherry con fecce di pera); sempre tuttavia con la filosofia di non essere troppo estremi. Da segnalare la volontà di evitare gli eccessi anche nel caso delle pastry, a quanto mi dicono molto in voga in Inghilterra: ad esempio la loro Zuppa Inglese (una pastry sour a base avena con vaniglia e frutti rossi) può far temere il contrario se ci si ferma al deciso aroma di vaniglia, ma al palato presenta poi un encomiabile equilibrio che non va a sfociare nel dolce – detto in altri termini, sour è e sour rimane, giocando sui contrasti tra dolce e acido.


Spostandomi nella zona Yorkshire ho incontrato prima Jordan e Jack del birrificio Tartarus, nato nel 2020 con una gamma di birre di tipo Imperial ed europee, e che poi si è dato a sperimentazioni di ogni genere su tutti i fronti – compreso quello del nero di seppia per le birre scure, come riferitomi da Jack. Da segnalare in particolare la loro Valkyrie, una Black Ipa con lievito kweik: interessante lo sposalizio tra i profumi dei luppoli australiani e neozelandesi e un particolare ceppo di kweik che ha appunto reminescenze fruttate che ci fanno il paio, coronando i potenti aromi e sapori tostati e un lungo e deciso taglio amaro finale. Alle spine accanto ho trovato Andreas di Rooster’s, birrificio fondato negli anni Novanta e passato di mano nel 2011 con il pensionamento del fondatore (peraltro il primo in Uk a creare una gamma con luppoli americani): evento che ha segnato una virata anche nella produzione, che fino ad allora era stata solo in cask. Per quanto la birra della casa sia la Apa Yankee, ritengo più meritevole di segnalazione la Eeverything’s just swell, una Pils con luppoli della West Coast: provare per credere alla maniera in cui aromi fruttato-resinosi passano la mano al riconoscibilissimo corpo da Pils e all’amaro erbaceo finale, in un insieme che – per quanto possa piacere o meno, per carità – presenta un peculiare equilibrio della costruzione complessiva. Da ultimo Laurie di North, forse uno dei più noti tra i nomi presenti: è stata lei a tentarmi ad un assaggio di una Wit, la X Tool Lemon Chamomile. Personalmente avrei liquidato una wit con limone e camomilla come l’ennesima sperimentazione un po’ sopra le righe, invece devo ammettere che l’aromatizzazione è ben calibrata e non lascia indesiderate persistenze da tisana serale (perché se volevo una tisana prendevo una tisana, non una birra) in bocca.


Spostandoci dall’Inghilterra, nota di merito ad Antica Contea sia per la nuova Kidnapped (una West Coast Pale Ale che presenta una rosa di tutto rispetto di aromi e sapori erbacei e resinosi, di una bevibilità notevole) che soprattutto per la Special K 2018, Iga con Ribolla di Radikon con quattro anni di botte sulle spalle: un tripudio di vaniglia, whisky, torbato ed altre reminescenze legnose, che esaltano la componente dolce-fruttata del vitigno.


Un grazie a tutti i birrai e loro collaboratori con cui ho parlato e allo staff del festival, in particolare l’ideatore Davide Franchini.

venerdì 19 maggio 2023

Report Assobirra 2022: qualche pensiero

Come accennato nel mio post di ieri sui social, è stato presentato il Report 2022 di Assobirra, al quale ho avuto l'onore di contribuire con un capitolo finale sul tema della cultura birraria. Inutile precisare che, al netto delle ironie di qualche leone da tastiera che capita sempre, si tratta di uno strumento conoscitivo del comparto che in quanto tale interessa anche gli artigiani (e infatti a fare ironie di questo tipo è sempre chi non lavora nel settore, perché chi ci lavora questa cosa la sa benissimo): non a caso il report ospita anche un intervento del presidente di Unionbirrai Vittorio Ferraris, a riprova del fatto che, per quanto le due associazioni perseguano obiettivi e strategie in buona parte diverse e complementari (come è giusto che sia, naturalmente), hanno piena coscienza che stanno giocando la partita nello stesso campo.

Fatta questa premessa, avanzo alcune considerazioni. La prima e più ovvia, nonché quella che già ha fatto più notizia, è quella che riguarda i consumi: nel 2022 siamo infatti arrivati a 37,8 litri pro capite l'anno, in una crescita che - escluso il 2020 per ovvie ragioni - si mantiene ormai da quasi un decennio. Non quindi un semplice rimbalzo post pandemia - per quanto i dati provvisori del primo trimestre del 2023 parlino in effetti di una contrazione, ma quella probabilmente più dovuta alla congiuntura economica - ma una tendenza di lungo periodo. Un dato che, ha comunque fatto notare presidente di Assobirra Alfredo Pratolongo, è sostenuto più dall'aumento delle importazioni (cresciute del 10% nell'ultimo anno) che da quello della produzione (cresciuta della metà). C'è poi da dire che calano leggermente le esportazioni, da 3862 a 3816 migliaia di hl, con la Gran Bretagna che continua a fare la parte del leone ormai da anni assorbendone quasi la metà.

Va comunque rilevato che, oltre ovviamente sempre lontanissimi dai "soliti" capolista (Repubblica Ceca a 129, peraltro in calo, Austria a 101 e Germania a 89), non siamo dei grandi bevitori di birra neanche in confronto ai Paesi mediterranei, con i quali ha più senso fare un paragone: la Spagna è a 50, il Portogallo a 48, Cipro a 47, Malta a 41, Croazia e Slovenia (dove però c'è storicamente una tradizione austroungarica) a 77 e 78 rispettivamente. Solo Francia e Grecia sono sotto, a 33 e 32.

Dati positivi anche dall'occupazione: dall'anno precedente cresce da 5300 a 5600 quella diretta, da 16.900 a 17.800 quella indiretta, e da 118.000 a 124.000 considerando l'indotto allargato. 


Per quanto riguarda i microbirrifici nello specifico, il report ne censisce 870 contando anche i brewpub (con tutte le difficoltà che ci possono essere nel censirli, per cui non prendiamolo come un dato preciso all'unità), contro gli 814 del 2021 e i 756 del 2020. Positivo quindi rilevare che la pandemia, da cui sarebbe stato lecito aspettarsi chiusure tra il 2021 e il 2022, almeno per ora non ha fatto sentire colpi di coda: il calo (peraltro da molti pronosticato) è stato prima, dopo il tanto discusso sfondamento di soglia 1000 nel 2016, ritenuta insostenibile per quelle che erano le dinamiche di mercato. La coda della pandemia va forse cercata di più in quella che è la ripresa ancora stentata dei consumi fuori casa - il 35,8% contro il 32,6 del 2021 e il 27,1 del 2020 -: consumi peraltro già in calo prima della pandemia dal 39,5% del 2015 al 36,1 del 2019. Di qui il mio "forse": pare che ci siamo semplicemente riallineati al calo in corso, che la pandemia ha semplicemente impedito di invertire, ma non provocato, al netto dei momenti di euforia post lockdown. Potremmo discutere a lungo sulle cause, ma sarebbe un altro capitolo.

In quanto all'occupazione, Assobirra parla di 3000 unità: in media quindi 3,4 addetti a birrificio, a conferma che parliamo di realtà piccole e piccolissime. La produzione di attesta a 471.000 hl, il 3,1% del totale nazionale, incluso un 13,5% di esportazioni - dato limitato ma interessante, a parer mio, dato che si tratta di un terreno su cui ogni minimo punto percentuale per i birrifici artigianali è una conquista.

Altro dato che mi è balzato all'occhio è quello dei contenitori. Per quanto questo includa naturalmente tutta la produzione, non solo quella artigianale, guardando la serie storica si nota un balzo delle lattine nel 2018: dopo essere state stabilmente attorno al 5%, sono scattate attorno al 7,5, mantenendosi poi lì. Un +50% che sarebbe interessante indagare, dato che non può essere interamente ascritto al boom delle lattine nel comparto artigianale, però è interessante notare questa "onda dell'alluminio" che sta peraltro dando vita a vere e proprie opere d'arte.

Pratolongo si è poi soffermato a lungo sulla questione accise, e sulla negoziazione con l'attuale governo per il mantenimento dello sconto. Per quanto la questione vada considerata nel panorama più ampio della tassazione totale (il famoso slogan "un sorso su tre se lo beve il fisco"), però va ad onor del vero detto che, in quanto ad accisa media, l'Italia si colloca più o meno a metà del panorama europeo con 35,28 euro a ettolitro: abbiamo una decina di Paesi che tassano più di noi - il massimo è la Finlandia, con uno spaventoso 182,84 - e una quindicina meno di noi - il minimo è la Bulgaria a 9,20. E questo non per mettere in dubbio la necessità di abbassarla per incentivare il comparto, ma per onore di cronaca, diciamo così.

Naturalmente i dati sono molti di più, accompagnati da numerosi altri interventi, interviste ed analisi: vi invito quindi a scaricare il report, disponibile a questo link, per avere un panorama completo.

Dedico un'ultima parola al mio contributo sul tema cultura della birra, partito dalla provocazione per cui molti operatori di settore stanno ormai prendendo le distanze da questa espressione talmente abusata che sembra ormai non significare più nulla. Dal fare formazione e informazione al consumatore e agli operatori della filiera, al promuovere circuiti turistici e "birrogastronomici", all'organizzare corsi di degustazione più o meno originali, pare ormai tutto finito nello stesso calderone senza che ci sia un vero filo conduttore. Di qui la domanda su che cosa significhi oggi fare cultura della birra, su cui invito tutti a riflettere.

domenica 19 marzo 2023

Tra Università e dip hopping

Sin dal mese di febbraio ho avuto il piacere e l'onore di essere coinvolta in un progetto dell'Università di Udine - per la precisione dei tesisti Alba Goi e Luca Vit, supervisionati dal ricercatore Paolo Passaghe: mi è stato cioè chiesto di entrare a far parte di un gruppo di valutazione di una serie di birre, secondo una precisa scheda di analisi sensoriale. Ognuna delle diciotto birre totali è stata valutata "alla cieca", senza cioè che ci venisse data alcuna informazione in merito a ciò che avevamo nel bicchiere; e solo alla fine delle tre sedute di valutazione è stata soddisfatta la nostra curiosità nel rivelarci in che cosa consiste questo progetto.

Trattasi di uno studio sul dip hopping, tecnica nata in Giappone da Kirin e poi introdotta nel mondo birrario artigianale negli Usa, che sta prendendo piede anche in Italia; e che consiste nell'effettuare un'infusione di luppolo dopo la fine della bollitura e prima dell'inizio della fermentazione, ad una temperatura di 60-70 gradi. Si colloca quindi, sia temporalmente che a livello di temperatura, tra il late hopping - la luppolatura in aroma a fine bollitura, e quindi ad una temperatura ancora attorno ai 100 gradi - e il dry hopping - a fine fermentazione e a freddo. Lo scopo è quello di esaltare alcune peculiarità aromatiche dei luppoli in maniera ancora diversa rispetto alle altre due tecniche già consolidate, data la diversa temperatura di infusione e le interazioni che si creano tra il lievito e le sostanze così estratte in corso di fermentazione.

 

 

La pratica è appunto già in uso da una decina d'anni, ma manca ancora una letteratura scientifica in materia; così che elementi cruciali come la temperatura precisa di infusione, la durata, che tipo di contributi apportino le diverse varietà di luppolo, l'utilizzo di tutto il mosto o di solo una parte per il dip hopping, sono ancora lasciati all'esperienza pratica del singolo birrificio. Di qui la volontà di avviare uno studio scientifico su questo fronte; analizzando in particolare le possibili interferenze con il dry hopping, la possibile valorizzazione con questa tecnica di varietà di luppolo meno pregiate, le modalità per esaltare le caratteristiche desiderate e viceversa eliminare quelle indesiderate a livello aromatico e gustativo, l'applicabilità sugli impianti artigianali e l'impatto sui costi di produzione - dato che il dip hopping richiede meno luppolo delle altre due tecniche.

Le schede compilate dai degustatori verranno quindi ora incrociate con i dati delle analisi di laboratorio fatte sui campioni di queste birre; appositamente brassate appunto per valutare i diversi aspetti oggetto di studio. Il risultato finale della ricerca non poteva poi essere che una birra: e ad ospitarne la produzione sarà il birrificio Garlatti Costa, che già ha collaborato con l'Università nel realizzare la birra alo zafferano. Il birraio, Severino Garlatti Costa, non è peraltro nuovo a sperimentazioni in tema di dip hopping: sarà quindi interessante vedere che cosa ne uscirà

Non posso che concludere ringraziando per essere stata coinvolta in questa esperienza che ho trovato istruttiva, anche per il confronto che - come spesso, fortunatamente, in questi ambienti - si instaura tra i partecipanti.

giovedì 2 marzo 2023

Un ritorno al Beer Attraction

Ammettiamolo, per molti versi è stato un ritorno. Per me personalmente, dato che non ci andavo dal 2020 – prima per la pandemia, per la gravidanza - e quest'anno sono tornata per Birra and Sound; e per tutti, visto che Unionbirrai è tornata a Rimini a Beer&Food Attraction con Birra dell’Anno – e con il carico di birrai artigiani e birrifici artigianali espositori che la cosa porta con sé – dopo due anni al Cibus di Parma. Al netto di nostalgie e romanticismi, comunque, l’impressione che nell’aria si percepisse una certa “carica”, un certo “sentore di ripresa” parlando con i birrai, era concreta. Impossibile fare in poche righe un resoconto completo: del resto, si sa, da queste fiere si torna sempre con il rimpianto di non essere riusciti a parlare con tutti, e di non essere riusciti ad assaggiare tutto. Mi limiterò quindi ad alcuni flash, scattati per l'appunto tra un'intervista e l'altra di quelle realizzate per Birra and Sound.

Partiamo dal birrificio Evoqe, che – come da consuetudine, verrebbe da dire – figurava tra i premiati. Ad attirare la mia attenzione, anche su suggerimento del birraio Mauro, sono state in particolare le due birre al caffè che il birrificio ha portato in fiera; e tra le due la Evoqesour #10 – una coffee sour con caffè Ladhatunda dal Kenya. Al naso spicca la componente sour su toni lattici, con note di chicco di caffè fresco; molto gentile in bocca, con un'acidità non persistente e ben amalgamata al caffè. Fresca e scorrevole, si nota l'attenzione nella costruzione complessiva.

Allo stand di Lzo il birraio Jacopo ha invece portato la mia attenzione sulla Oyster Sout: birra prodotta in quantità limitata per ovvie ragioni, sia per quanto riguarda il procurarsi le ostriche, sia per quanto riguarda il doverle sgusciare tutte a mano. Si percepisce bene l’aroma di mare, che in bocca sembra sparire per lasciare spazio ai tipici toni di caffè e cioccolato; ma che ritorna poi in una lunga e curiosa persistenza salata, che fa il paio con i sapori di cioccolato.

Non poteva mancare una sosta da Opperbacco – anche questo, come di consueto, birrificio avvezzo ai premi: più che le premiate, però, ha attirato la mia attenzione la sour ai frutti di bosco della linea Abruxensis, con lieviti selezionati dall'università di Teramo – tra cui un ceppo di brettanomyces; e frutta aggiunta dopo la fermentazione, con maturazione in legno. Ben coglibile ma non sovrastante la componente brettata, amalgamata con i profumi di frutta sia all'aroma che al palato; in un interessante il gioco tra le diverse tipologie di acidità. Persistenza discretamente lunga, sui toni della frutta.

Novità per me personalmente è stato il birrificio Renton, di cui ho provato per Birra and Sound la best bitter Billy Hard – una collaborazione con il birrificio britannico Roosters Brewing Co: un incontro tra la tradizione britannica e l’innovazione americana, dato che la ricetta prevede luppolo Columbus in amaro e Cryo Pop in dip hopping. Interessante il fatto che lo stile di riferimento non viene comunque snaturato e rimane riconoscibile, pur con un tocco di originalità.

Merita poi un accenno la linea realizzata dal Birrone all’interno di un progetto sulla decozione, elaborata dal birraio Simone dal Cortivo dopo un viaggio in Franconia, anche questa degustata per Birra and Sound. Si tratta di tre birre, per una degustazione in crescendo: la Czech Keller “12” (in riferimento al grado plato), la Keller Heller Bock “KHE Bock”, e la Rauch “Brauch”. Peculiari aromi tra il miele di castagno, la nocciola e il pane per la prima, mentre il luppolo resta decisamente nelle retrovie; ricca ma scorrevole e assai pulita in bocca, fa poi risaltare solo in un secondo momento il Saaz, per un finale bilanciato tra componente maltata e amaricatura. La seconda gioca sul fatto di mascherare bene i suoi sei gradi alcolici, con note dolci di cereale – tipo pane al miele – piene ma snelle in bocca; sempre sul principio dell’equilibrio anche i luppoli, Hallertau e Milttelfruh. Da notare la schiuma, che ha tenuto perfettamente anche nel bicchiere di plastica. Una Rauch un po’ sui generis infine la terza, nel senso che non c’è da aspettarsi la “classica” Rauch intensa francone: aroma di affumicato molto ma molto discreto, che si tramuta poi in un sapore altrettanto discreto e amalgamato con il resto del cereale; corta la persistenza, tale quasi da andarsene prima del sorso successivo – quasi a concatenare la bevuta, si potrebbe dire. Interessante naturalmente la chiacchierata con Simone che mi ha illustrato il progetto, soffermandosi in particolare su come voglia dare fini "didattici" - nel senso del far conoscere che cosa sia la decozione - a questo progetto.

Una menzione anche per la Supersonic, Dark Mild di Birra dell'Eremo: stile relativamente poco diffuso in Italia, ma che sempre più spesso fa capolino nei birrifici artigianali. Una Dark Mild fondamentalmente in stile: colore marrone-rossastro, aroma deciso ma non sopra le righe tra il biscotto, il caramello, il toffee e il caffè d'orzo, toni tra il caramello e il tostato in bocca per un corpo morbido e scorrevole, finale secco con un taglio di un amaro erbaceo in equilibrio con la componente maltata. Apprezzabile anche la spillatura a pompa, per quanto il bicchiere in plastica non abbia reso giustizia.

Un grazie a Birra and Sound, e a tutti i birrai che mi hanno accolta nei loro stand.

domenica 8 gennaio 2023

Un anno in cifre: qualche riflessione

 È uscita a fine anno la relazione statistica annuale di The Brewers of Europe, "European Beer Trends 2022". Già alcuni commenti in proposito sono usciti; mi riservo anch'io, tuttavia, di avanzare alcune riflessioni alla luce dei numeri che emergono da questo studio, che vuole essere sostanzialmente una fotografia dello stato dell'arte del settore brassicolo nei vari Paesi europei.

Alcuni dati non stupiscono: come il fatto che tra i Paesi produttori ci sia ampiamente in testa la Germania (quasi 85 milioni e mezzo di ettolitri nel 2021, seguita a lunga distanza dal Regno Unito a poco più di 38). L'Italia si ferma ad "appena" 17,6 milioni: cifra che la pone ad un comunque onorevole ottavo posto, ma che non la fa brillare se pensiamo che ad esempio la Spagna - altro Paese mediterraneo, e con un popolazione che è oltre 10 milioni in meno della nostra - ne ha prodotti 38 milioni; o la Francia, appena più popolosa di noi e anch'essa Paese a tradizione piuttosto vinicola, quasi 22 milioni. Il lato buono della medaglia è però che la produzione ha non solo recuperato, ma anche superato, i livelli pre-Covid: eravamo infatti a 17,2 milioni nel 2019, in crescita costante dai 14,2 del 2015. Un recupero che non è avvenuto in Paesi di ben più solida tradizione birraria come la Germania (i già citati 85,4 milioni contro i 95 del 2015, anno da cui è in calo costante: si può quindi obiettare che non è questione di Covid) o il Regno Unito (38,4 milioni contro i 39,2 del 2019, anche qui in calo rispetto ai 41,2 del 2015, per quanto un calo non costante).

Siamo poi sesti per consumi totali, 20,8 milioni di ettolitri nel 2021 (in testa è sempre la Germania con oltre 76 milioni), senza grossi scossoni negli ultimi anni (anche nel famigerato 2020 eravamo poco sotto i 19); siamo però quasi in fondo alla classifica (come di consueto) per i consumi pro capite, 35 litri, anni luce dai 129 dei cechi e dai 101 dei vicini austriaci. Anche qui però va rilevato che, salvo la caduta a 32 nel 2020, la crescita è stata costante dai 31 del 2019; mentre molti altri Paesi hanno osservato da allora una tendenza alla decrescita, come la già citata Germania (da 106 a 89), l'Irlanda (da 80 a 61) e la stessa Repubblica Ceca (da 143 a 129). Qui sicuramente entrano in gioco anche fattori sociologici, tra cui la maggiore attenzione al consumo moderato di alcol a livello di opinione pubblica, ed economici, relativi all'andamento dell'economia e ai prezzi al consumo nei sigoli Paesi. Ad ogni modo diciamo che, a differenza di altri Paesi a tradizione più consolidata, l'interesse per la birra in Italia appare in lenta ma costante crescita.

In quanto ai consumi, è interessante anche vedere la composizione tra on trade (ossia nel canale HoReCa, quindi ristoranti, pub e affini) e off trade (nei negozi, prevalentemente gdo): se nel 2015 la percentuale era 40 a 60, la pandemia l'ha portata a 27 a 73 accentuando la tendenza già manifestata a favore del secondo canale, pur con un rimbalzo nel 2021 che ha registrato un 33 a 67. Ci sono elementi per pensare che l'interesse nel consumo fuori casa dopo la pandemia abbia continuato a crescere, ma in quale misura sarà il tempo a dircelo.

Merita uno sguardo anche la parte relativa al numero di birrifici attivi: The Brewers of Europe ne censisce per l'Italia 827 (il record è, udite udite e di gran lunga, della Francia con 2500, seguita dallo Uk con 1810). Una crescita con alti e bassi dal 2015, quando erano 688, con un picco nel 2018 di 874. Il report censisce poi nello specifico i microbirrifici, quelli con una produzione annua inferiore ai 1000 hl: e ne conta 814, anche qui in crescita non lineare dai 540 del 2015, ma il picco stavolta è proprio nel 2021. C'è poi il numero di società attive nella produzione birraria, che sono 822. Incrociando questi dati, si evince che in Italia la grandissima maggioranza dei birrifici ha una produzione inferiore ai 1000 hl, e ciascuna società detiene tendenzialmente un solo stabilimento. Un dato che a mio avviso merita attenzione è che, a fronte dell'aumento del numero dei birrifici, non c'è stato però - stando ai dati di Brewers of Europe, quantomeno - un pari aumento dell'occupazione diretta: 5300 persone, sostanzialmente stabile rispetto ai 5350 del 2015, e in calo sul picco di 5700 nel 2019. Pare quindi che ciascun birrificio lavori con sempre meno personale, contrariamente ai tanti discorsi sulla crescente necessità di diverse professionalità: che vengono quindi probabilmente fornite, se vengono fornite, da collaboratori e consulenti esterni.

Capitolo controverso è quello relativo alla tassazione sulla birra: nel 2021 in Italia le entrate hanno sforato i 700 milioni di euro. Tanti? Pochi? Confrontando con altri Paesi, vediamo ad esempio che per la Germania, con una produzione quasi 5 volte la nostra, ammontano a "solo" 584 milioni; sono però ben 948 milioni in Francia, che ha una produzione poco superiore alla nostra, e oltre 4 miliardi nel Regno Unito, il primo della classifica ad abissale distanza. La situazione è quindi molto diversificata; ma non può non riportare l'attenzione sull'annosa questione delle accise, tanto più che con il 2023 non è ad oggi stata confermata l'aliquota agevolata. Si capisce come, unitamente a tutti gli altri rincari, questo ponga pesanti incognite sulla sostenibilità economica dell'attività di molti piccoli birrifici.

giovedì 22 dicembre 2022

Un Natale nel segno delle Porter

 

Mi è capitato di recente di essere coinvolta da due birrifici – che ringrazio – nell’assaggio delle loro birre di Natale 2022: nella fattispecie il birrificio Dimont, con la Porter Gjan, e Birra di Naon, con la Angelica Porter. Caso ha voluto che si tratti, per l’appunto, in entrambi i casi di una Porter: il che non ha potuto non stimolarmi una riflessione. È vero sì che “birra di Natale” non è uno stile, ma semplicemente un’etichetta che viene messa ad una birra presentata appunto in occasione delle festività: storicamente birre di gradazione alcolica alta o medio-alta, corpose, calde e spesso speziate. Personalmente, la maggior parte delle birre natalizie in cui mi sono imbattuta sono robuste birre di ispirazione belga; e, per quanto riguarda gli stili d’Oltremanica, ho visto fondamentalmente Stout di notevole carattere e Strong Ale. Curioso quindi l’ingresso in contemporanea di due Porter, stile più “sobrio” – sia dal punto di vista del tenore alcolico che delle caratteristiche organolettiche – che sulla carta si presta meno a fare da birra di Natale.


Al di là delle ragioni che possono aver spinto i birrifici in questione a questa scelta (fondamentalmente la volontà di introdurre uno stile che non avevano in repertorio), non è difficile identificare due motivi per farla. La prima è che il mercato si sta “normalizzando”: sono finiti da un pezzo i tempi in cui, girando per locali, sembrava di vedere la gara a chi “la fa più strana”. Qualunque birraio conferma che alla lunga il pubblico ritorna su stili più classici, facilità di beva e gradazioni alcoliche più contenute. Requisiti a cui una Porter risponde assai meglio di una classica belga – giusto per rifarci alla famiglia stilistica più gettonata per le natalizie. Il secondo motivo, molto più banalmente, è che ha più senso investire su una birra che possa poi rimanere come birra fissa: e anche in questo senso una Porter, pur richiamando i mesi invernali (rimane forte anche solo l’associazione cromatica tra birre di colore più scuro e freddo all’esterno, caminetto, sapori caldi e quant’altro), non è disdegnabile nemmeno in altre stagioni – tutt’altro, se ben costruita può essere assai rinfrescante. Natale diventa così – com’è ovvio, direte voi – “solo” l’occasione per il lancio di una nuova birra.


Assaggiando le due birre in questione, entrambe di buona schiuma pannosa e persistente color nocciola a grana fine c’è da notare che – sempre casualmente – c’è anche dell’altro che le accomuna: in particolare la volontà di fare leva in un caso sulla luppolatura, nell’altro sull’aromatizzazione con semi di angelica delle Dolomiti friulane – in linea con la filosofia di Naon di mettere in ogni birra un ingrediente locale oltre all’orzo, prevalentemente una botanica –, per rendere ancor più fresca la bevuta. La Gjulit infatti si fa notare per aromi balsamici che accompagnano quelli tostati, e per un sapore analogo che chiude la bevuta dopo il tipico amaro da malto tostato; mentre la Angelica Porter gioca allo stesso modo con, per l’appunto, i semi di angelica. Per quanto la Gjulit sia più calda e avvolgente al palato rispetto alla Angelica, parliamo in entrambi i casi di corpi scorrevoli; e di birre dominate dai toni amaro-tostati di caffè, sebbene nella Gjulit facciano comunque sentire la loro presenza anche il cioccolato e la liquirizia – che rimangono invece appena percettibili nella Angelica. Entrambe di buona secchezza, mascherano bene il loro già non elevato gradi alcolico – 5,5 per la Gjulit e 6,5 per la Angelica. Nel complesso dunque birre fresche e bevibili, pur non lesinando sui toni un po’ più forti come sono appunto quelli tostati.


Concludo precisando che tendenzialmente non uso fare recensioni “comparative”, dato che non è mia intenzione in questa sede dare una valutazione su quale interpretazione dello stile Porter io trovi meglio riuscita tra le due; mi è sembrato tuttavia particolarmente curioso, e se vogliamo istruttivo, il fatto che mi siano capitate nello stesso momento due birre che si prestano così bene ad un confronto. Confronto che dà la conferma anche di una tendenza di mercato già nota, e che sta riguardando anche le birre tendenzialmente più “forti” come quelle presentate per Natale.


Buone feste!