Ebbene sì, lo ammetto: avevo pensato di intitolare il post "Happy New Beer", sulla scia di quanti tra gli appassionati di birra hanno fatto gli auguri così; ma poi ho sentito risuonare in testa la voce della mia prof di italiano del liceo, che dispensava insufficienze ai nostri temi al suon di "Hai usato espressioni trite e ritrite!", per cui ho desistito. Così ho molto più semplicemente fatto il nome della birra che ho stappato per festeggiare l'anno nuovo, ossia la quasi introvabile Orodorzo di Garlatti Costa. Dico "quasi introvabile" perché si tratta di una golden strong ale stagionale, prodotta solitamente per l'inizio della primavera e in quantità limitate, per cui non ero mai riuscita a procacciarmela in tempo utile. Questa volta però, chissà come, alla Brasserie ce n'era ancora una bottiglia (e dico una), per cui mi sono fatta il regalo di Natale per stapparlo a Capodanno e colmare questa lacuna formativa.
Come il nome stesso lascia intuire si tratta di una birra di colore dorato e decisamente velata, con una schiuma bianca di grana abbastanza sottile che all'addentarla dà una sensazione tra il velluto e la panna (no, non ho mai addentato il velluto. Però mi ha ricordato questo, che ci posso fare). All'aroma risaltano bene il lievito e la crosta di pane, insieme ad una decisa nota speziata - personalmente l'ho identificata con lo zenzero -; mentre, al salire della temperatura, compaiono man mano il miele sui toni dell'acacia e la frutta tropicale. In bocca è ben calda e rotonda, e vellutata nonostante la carbonatazione importante; e per quanto lo zucchero candito faccia il suo lavoro nel conferire toni dolci, non risulta comunque eccessivo, e le note maltate - nonché alcoliche, considerando i nove gradi - non sono invadenti. Mi sono trovata a definirlo "un corpo relativamente scarico per una birra del genere": nel senso che, pur essendo in realtà ben pieno, mi sono trovata a confrontarmi con birre dello stesso stile che già al secondo sorso risultano "troppo impegnative"; mentre un calice di Orodorzo scende sì con calma, ma anche con facilità. Complice anche il finale in cui l'amaro erbaceo del luppolo fa quasi inaspettatamente il suo ingresso, facendo seguire un'ultima nota rinfrescante di zenzero (che non compare tra gli ingredienti, e suppongo quindi sia dovuto al lievito): tutti sapori ben persistenti, che contrastando il dolce del corpo preparano il sorso successivo - almeno finché il grado alcolico non comincia a farsi sentire.
Una birra che, in conclusione, coniuga in maniera equilibrata tratti più impegnativi - dal grado alcolico al corpo pieno -, con una relativa facilità di beva e la delicatezza di toni di per sé forti: si riconosce la scuola belga a cui tutte le birre di Severino fanno riferimento, ma si nota anche una rielaborazione personale volta a "smussare" certi eccessi di robustezza che tanto piacciono in quel di Bruxelles. Non mi resta che augurarvi un buon inizio anno, e passare alle prossime birre che ho in lizza...
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