Sono due le notizie che in questi giorni hanno tenuto in fibrillazione il mondo birrario italiano: l'unione tra Toccalmatto e Caulier, e la cessione del 35% delle quote del Birrificio del Ducato a Duvel (per chi si fosse perso qualcosa, suggerisco le interviste e Bruno Carilli e a Giovanni Campari su Fermentobirra, e il commento di Andrea Turco su Cronache di Birra). Non mi soffermo sulle considerazioni già fatte da loro e da molti altri, in merito a se e in che misura questo possa rappresentare una minaccia per il mondo della birra artigianale; e che sviluppi futuri possa riservare (dato che i dettagli dell'accordo Toccalmatto-Caulier non sono ancora stati del tutto resi noti). Al netto della diatriba sul fatto che questi birrifici possano o meno definirsi ancora artigianali, c'è stato un aspetto in particolare che mi ha colpita.
Sia Carilli che Campari parlano in termini di "crescita obbligata", di insostenibilità economica della "media dimensione", di saturazione dei tradizionali canali di distribuzione - e fin qui è la conferma di quanto già emerso da una ricerca di MoBi -; ma soprattutto di difficoltà nel reperire risorse per crescere, impraticabilità del crowdfunding e di altri canali di credito (banche in primo luogo). Queste scelte quindi vengono presentate come unica via per garantire all'azienda la liquidità necessaria - e quindi in prospettiva la stessa attività del birrificio -, pur senza perderne il controllo. La domanda che mi è sorta è quindi: davvero il settore birrario italiano è in una fase in cui i birrifici sono destinati a trovarsi "alle corde" sotto questo profilo? Troppe volte sento parlare di birrifici che "sono piccoli, sì, ma sono così bravi, se solo investissero un po' potrebbero fare grandi cose, è un peccato...."; considerazioni a cui i birrai prontamente rispondono di voler rimanere piccoli perché il passo da fare sarebbe troppo lungo (in barba alle teorie secondo cui "troppo piccolo non è sostenibile"). O viceversa vedo birrai che, quando decidono di crescere, lo fanno in grande stile, cercando magari chi entri nella compagine societaria come finanziatore. Tutti aspetti non certo nuovi; ma che evidenziano come i birrifici italiani si trovino una sorta di "trappola asfittica" per cui sono costretti o a rimanere piccoli (per forza o per scelta, con tutto ciò che ne consegue nel bene e nel male), o viceversa a dover fare scelte anche non del tutto "ortodosse" pur di riuscire a proseguire il cammino intrapreso (anche qui, per scelta o per forza).
Se la lettura è corretta, è utile chiedersi come agire, perché la questione va oltre gli "impuntamenti ideologici" a cui alcuni in questi giorni hanno gridato. Una questione che sicuramente non può essere ignorata - e del resto non credo lo sia - da Unionbirrai: se è giusto e doveroso che l'associazione tuteli i birrifici artigianali attraverso una puntuale precisazione normativa (come notato da Andrea Turco), è altrettanto verso che il suo operato deve anche essere mirato a far sì che vengano rimossi quegli ostacoli che possono impedire ai birrifici - mi si permetta l'espressione - di "esercitare al meglio l'artigianalità" (penso ad esempio alle azioni che alcune associazioni di categoria fanno sul fronte della concessione del credito). Perché altrimenti la discussione su chi sia e non sia artigianale rischia di diventare un dibattito sì utile e legittimo, ma svuotato di una componente fondamentale del suo senso.
Intanto la cosa pare fare il paio con il lancio, da parte dell'americana Brewers Association, del logo "Birrificio indipendente": un marchio di cui potranno fregiarsi appunto i birrifici artigianali (secondo la definizione data dall'associazione) che "portano avanti la loro attività senza alcuna influenza da parte di altre aziende produttrici di bevande alcoliche che non siano anch'esse birrifici artigianali". Anche in questo caso è stato quindi messo in secondo piano l'abusato termine "craft", artigianale, (che pur compare nel logo, ma meno in evidenza), ormai travisato in mille modi; per preferire il concetto di "indipendente", che - afferma lo stesso comunicato - "ha vasta eco tra chi beve birra artigianale".
Insomma, che l'indipendenza (e non già l'artigianalità) sia "il nuovo must" è una notizia ormai non più tanto nuova; ma diciamo che arrivano sempre più tasselli a confermarla.
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