lunedì 20 marzo 2017

Birra al calzino e pensieri in libertà

Veramente non era mia intenzione scrivere qualcosa sull'articolo di Valerio Visintin apparso il 17 novembre su Vivimilano del Corriere della Sera, con il provocatorio titolo de "L'era della birra al calzino"; non ritenevo infatti di dare seguito a quella che definirei appunto semplicemente una provocazione, basata peraltro su cliché riguardanti la birra artigianale non certo nuovi, e a cui già è stata ampiamente data risposta. Ma dato che continuo a ricevere provocazioni e richieste di opinioni in merito, eccomi a cedere alla vanesia dei fuffblogger - come nell'articolo vengono definiti - e a dare libero sfogo alla mia arte di scribacchina.

Do innanzitutto atto ad Eugenio Signoroni di aver dato forma in questo suo pezzo a buona parte dei pensieri che mi erano nati leggendo l'articolo: in particolare per quanto riguarda affermazioni del tipo "Purtroppo esiste un numero ancora troppo alto di persone che producono (e vendono) birra solo perché qualche amico un paio di volte gli ha detto che le prove casalinghe fatte nel garage e portate alla grigliata erano buonissime. O peggio ancora che produce solo perché crede nel sillogismo per cui visto che tutti parlano di birra artigianale allora con questa si fa una valanga di soldi" - o che sia una valida alternativa alla disoccupazione che purtroppo colpisce molti giovani, mi verrebbe da aggiungere: lode allo spirito imprenditoriale, senza dubbio, però senza le competenze necessarie non si va lontano. Lo stesso dicasi per la critica al paragone tra birra e vino in quanto al legame con il territorio - questione nota, ma evidentemente non chiara a tutti. Così come per quanto riguarda il concetto che "la birra artigianale, purtroppo, da più parti viene interpretata come l’eccezione e in quanto tale deve essere strana, eccentrica, con qualcosa di diverso dallo standard" - ma meno che in passato, mi verrebbe da dire, dato che tra i birrai vedo la volontà di tornare a produzioni più semplici e pulite.

A tal proposito mi è stata in qualche modo rivelatrice la visita alla Doemens Akademie di Grafelfing, una delle maggiori istutuzioni per quanto riguarda la formazione di mastri birrai. L'impressione che ne ho avuto è che in Germania fare la birra sia considerata una scienza e un mestiere, e per farla si studi e si studi tanto: chimica, fisica, biologia, legislazione relativa al settore birrario, e molto altro. In Italia, per contro - complice anche la limitatezza dell'offerta formativa in questo senso -, la scuola dei birrai è prevalentemente l'homebrewing - utilissimo, certo, ma l'equazione tra bravo homebrewer e bravo birraio non è automatica. Mi capita di sentire a volte qualche birraio italiano dire "Questa birra non mi è venuta come volevo, ma non so perché": ho pensato che un birraio tedesco non avrebbe magari saputo concepire quella ricetta lì - e in questo senso sono pienamente d'accordo con Alfonso Del Forno nel paragonare un bravo birraio ad un bravo chef -, però più facilmente avrebbe saputo dire perché, scientificamente parlando, la birra non è uscita come previsto. Questo per dire: la creatività i nostri birrai ce l'hanno, non posso che invitarli ad usarla bene, prendendo coscienza del fatto che formarsi anche sotto il profilo teorico è condizione necessaria per far fruttare al meglio l'esperienza pratica. Una consapevolezza che del resto si sta diffondendo, tanto che diversi birrai seguono corsi di formazione sia in Italia che all'estero; ma sono forse ancora pochi rispetto al totale.

Sottoscrivo anche la necessità di formarsi e di formare da parte dei ristoratori: purtroppo mi è capitato di sentire in certi ristoranti palesi inesattezze nel presentare le birre in listino, e la cosa non ha potuto che contrariarmi. Alcuni birrifici organizzano dei veri e propri momenti di formazione per i loro clienti e distributori, e sono convinta che sia la strada giusta; senza tralasciare le scuole alberghiere - anche questa una carenza nota da tempo, e che ci si sta muovendo per colmare. Il giorno in cui la maggior parte dei ristoratori sarà in grado di scegliere con cognizione di causa che birre tenere e presentarle nella maniera giusta avremo risolto molti dei problemi sollevati da Visintin. Nonché arginato il problema di chi, sia tra birrai che tra publican, lavorando male danneggia l'immagine di tutto il settore - chi di voi non ha un amico che ha una cattiva opinione della birra artigianale perché ne ha provata solo una, ed era per giunta fatta o servita male?

Devo però dar ragione a Visintin su un punto, quando parla di "estremizzazione culturale maturata nel mondo introverso dei birricoli": io stessa ho a volte la sensazione, quando parlo con appassionati di birra artigianale, di confrontarmi con una piccola cerchia di iniziati; in cui i pochi eletti avvezzi a gusti nobili snobbano chi quei nobili gusti non ce li ha e stroncano senza mezze misure quei birrai che a loro insindacabile giudizio non sfornano prodotti all'altezza dei loro palati. Ok, ho volutamente estremizzato, ma il senso della mia estremizzazione è "calmiamoci un po' tutti quanti": nessuno ha la verità in tasca, e - al di là del far notare eventuali difetti nella birra che stiamo bevendo, se abbiamo le conoscenze necessarie a farlo - dare della capra a chi non apprezza l'ultima barricata uscita dal blasonato birrificio XY mi pare francamente un po' eccessivo. Più volte nelle degustazioni che ho condotto ho sentito ad esempio persone chiedermi che cosa penso di una tal birra, affermando che non è di loro gusto, ma di sentirsi quasi "moralmente costretti" a berla da veri o presunti intenditori: un caso estremo per dire che la "fanatizzazione" del settore birrario è controproducente, allontanando anche chi magari sarebbe interessato a saperne di più. Se c'è chi ha gusti diversi dai nostri, ed è nella natura delle cose, spieghiamo il nostro punto di vista ma facciamocene una ragione senza giudicare. Né arrocchiamoci nel sillogismo secondo cui la birra artigianale è sempre buona e quella industriale sempre cattiva: sono due prodotti diversi, e sia nell'uno che nel'altro caso esistono esempi virtuosi e non, l'importante è saperli riconoscere. Se nascono articoli di questo tono - e non mi riferisco solo a questo perché non è il primo -, magari pure infarciti di inesattezze o affermazioni tendenziose, trovo che gli appassionati di birra artigianale debbano chiedersi se non sia stato il loro stesso comportamento a fornire parte del materiale per questi pezzi.

Un ultimo punto su cui mi sento chiamata in causa, poi, è quello dei "Fuffblogger". Da giornalista sono la prima a dire che purtroppo nel marasma del web c'è tanta gente - anche giornalisti professionisti miei colleghi - che scrive con scarsa cognizione di causa, senza la formazione adeguata per farlo, sia in termini di ortografia e sintassi che di contenuti. E questi danneggiano il settore intero tanto quanto il birraio che fa birra scadente o il publican che la serve male. Sono arrivata al punto di dovermi spesso "difendere" dall'etichetta di blogger, nella misura in cui il blogger è nella visione comune colui che chiede bottiglie gratis in assaggio e poi spara a zero senza sapere quel che dice, osannato o silurato da lettori che non sanno quel che leggono. Ho sempre difeso e sempre difenderò la professionalità che mi impone di (in)formarmi costantemente, di scrivere solo ed unicamente nel rispetto delle persone e del loro lavoro, di confrontarmi con il birraio sulle perplessità che nutro rispetto ad una sua birra prima di scriverne senza magari avere nemmeno le informazioni necessarie, nonché eventualmente di tacere. Essendo un blog niente più che un mezzo, il problema è come viene usato: e generalizzare considerando i blog e i blogger un male è sbagliato. Piuttosto, come lettori, premiate i blog e le testate validi: condividete i post, sosteneteli come potete (sì, anche economicamente, perché gli articoli che leggete online qualcuno li ha pur scritti: un abbonamento  a un giornale online non è una contraddizione in termini). E dico ai birrai: puntate all'informazione di qualità. Perché anche la buona comunicazione è un elemento fondamentale per andare oltre i luoghi comuni che la reazione all'articolo di Visintin ha messo all'indice.

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