martedì 13 settembre 2016

E' (ri)tornata la Thomas Hardy's

Come chi segue la mia pagina Facebook già saprà, ieri alla Milano Beer Week ho partecipato alla presentazione in anteprima della Thomas Hardy's Ale, nella "nuova vita" ridatale dai fratelli Vecchiato - titolari di Brew Invest e di Birra Antoniana - con l'acquisizione del marchio. Non mi dilungherò sulla storia di questa birra - peraltro già raccontata con dovizia di particolari da Maurizio Maestrelli nel libro "Thomas Hardy's Ale, la storia, la leggenda" -: mi limito a dire che si tratta di un barley wine prodotto per la prima volta nel 1968, per il quarantennale della morte dello scrittore Thomas Hardy che nel suo libro "The Trumpet Major" aveva tessuto le lodi di una "strong beer" di Dorchester. A produrla fu il birrificio Eldridge Pope, che intendeva farne una birra creata solo per l'occasione; ma riprese poi la produzione nel 1974 per portarla avanti fino al 1999, anno in cui i costi e la laboriosità del processo fecero decretare la sospensione. 


Dal 2003 al 2008 fu la volta del birrificio O'Hanlon, su iniziativa dell'imprenditore americano George Saxon; finché nel 2012 il marchio (e relativa ricetta) è stato acquisito dai fratelli Vecchiato. In questo senso mi trovo d'accordo con Maurizio Maestrelli che, nel presentare la birra, ha sottolineato come questa sia anche una "case history imprenditoriale": i Vecchiato non sono birrai né vogliono esserlo, semplicemente sono degli imprenditori che - in quanto tali - aguzzano la vista in cerca di prodotti che reputano interessanti, e quando li trovano ci investono. Dopo aver cercato tra i birrifici inglesi qualcuno che intendesse produrla per loro conto - intendevano infatti lasciare la produzione in Inghilterra - alla fine l'accordo è stato raggiunto con Meantime Brewery (sì, quella che è prima stata acquisita da SabMiller e poi ceduta ad Asahi; però non è qui che voglio ritornare sulla tanto discussa questione dell'irrefrenabile istinto allo shopping dei grandi gruppi); e dopo un anno e mezzo di lavoro è stata presentata appunto ieri, alla presenza - oltre che di Maestrelli e Sandro Vecchiato - del giornalista inglese Roger Protz, autore di The World Guide to Beer.

Diciamocelo, le aspettative erano alte: stiamo parlando di un barley wine con fermentazione secondaria in bottiglia pensato per essere bevuto dopo anche 25 anni - nove mesi sono considerati il minimo sindacale -, inserito da Adrian Tierney-Jones nelle "1001 birre da provare prima di morire"; e che nelle sue precedenti versioni aveva raccolto il plauso di alcune tra le più eminenti personalità del mondo birrario, e in quella attuale si è aggiudicata l'oro all'International Beer Challenge e quello di Country Winner per il Regno Unito ai World Beer Awards. Impossibile insomma non essere curiosi, e quando i camerieri sono arrivati con le bottiglie - tutte rigorosamente nuerate, in quanto edizione limitata - ci ho subito tuffato il naso. L'impatto è notevole: dalle note che a me hanno ricordato il legno - pur non essendo uscita da una botte, anche se una prima cotta sperimentale sta attualmente maturando in botti di rum -, a quelle liquorose della frutta sotto spirito (prugne e fichi in particolare), a quelle di cuoio e tabacco, ai sentori torbati e alcolici, l'intensità è di quelle per narici che non hanno paura. In bocca arriva poi il calore del malto, tra il caramello, il miele e la frutta secca, insieme però ad una carbonatazione che ho trovato piuttosto sopra le righe per un barley wine; così come il finale, in cui oltre ad una lieve punta speziata, arriva in grande forza la componente alcolica accentuata ancor di più dalla carbonatazione di cui sopra. Intendiamoci: non oserei mai contraddire grandi critici che si sono espressi in favore di questa birra; però prima di dire se il risultato è di mio gradimento o se, a mio pur modesto e discutibile parere, c'è da migliorare, mi riservo di attendere: la birra che ci è stata servita ieri è giovane, e sicuramente presenta ancora delle "spigolosità" - su tutte la mancanza di un'attenuazione tale da assecondarne la beva, dati anche gli 11 gradi alcolici - dovute, diciamo così, alla giovane età. Del resto, come ha riferito Derek Prentice di Meantime, fare una birra del genere è una sfida soprattutto sotto il profilo del lievito, e si procede anche per tentativi: Vecchiato ha assicurato che, su tre lotti fatti sinora, i birrai hanno sempre affinato la tecnica, ed è fiducioso in ulteriori perfezionamenti futuri. Insomma, non mi permetto di "bocciare" niente e nessuno, ma la Thomas Hardy's - almeno quella di nove mesi - non mi ha convinta. Rimango fiduciosa di bere tra un paio d'anni la bottiglia che ho portato a casa ed apprezzarla meglio, ma appunto ne riparleremo.

In quanto al futuro della Thomas Hardy's, Vecchiato si è detto certo che, grazie anche alle nuove tecnologie produttive "che rispettano comunque la tradizione della Thomas Hardy's", questa volta la birra sarà economicamente sostenibile sia per il produttore che per il consumatore (ha prospettato un prezzo attorno ai 10 euro per la 0,33); e se la Thomas Hardy's originale rimarrà in Inghilterra come produzione, non esclude possibili reintepretazioni anche in Italia. E qui fa capolino il vulcanico Teo Musso - e non a caso la presentazione è avvenuta al Baladin Milano -: Vecchiato ha infatti riferito di interlocuzioni in corso col birraio di Piozzo. Dato che quando si parla di Musso, dire che "una ne fa e cento ne pensa" è un eufemismo, rimaniamo in attesa di notizie su questo fronte.

Che altro dire? Se siete curiosi e vi dovesse capitare tra le mani una bottiglia, non mi resta che suggerirvi - come del resto hanno fatto anche gli intervenuti alla presnetazione - di avere pazienza e non berla subito...


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