
Per la precisione a Pipaix, vicino a Mons, nell'unico birrificio a vapore ancora funzionante, dove a formarlo è tal Jean-Louis Dits: "Mi ha insegnato l'anarchia pure della birra - afferma Teo -: niente chiusura in quanto a regole, mai ripetere gli stessi percorsi, altrimenti non si sperimenta e non si fanno scoperte". Un insegnamento bilanciato da quello di un altro birraio, uscito dall'Università di Lovanio, in cui viene impartito un approccio molto più "ingegneristico" alla birra.
Nel 1996 Teo inzia a produrre nel suo locale, posizionando la sala cottura in bella vista dietro una vetrata che dava sulla strada: pessima scelta, almeno inizialmente, che spaventa i clienti nel vedere "queste grandi casseruole fumanti, in cui facevo bollire ciò che davo loro da bere mesi dopo". Risultato: -80% di clienti e debiti a gogò.

Nel 2000, il salto di qualità partito dal pollaio dei genitori ristrutturato per farci una cantina di fermentazione e imbottigliamento, e la scelta di dare in distribuzione i suoi prodotti ad una società concorrente per meglio posizionarle sul mercato del vino. Convinto sostenitore dell'"autarchia totale" in quanto a materie prime, Teo inizia a creare una vera e propria filiera agricola: "Purtroppo, a differenza del vino, il prodotto birra è percepito come slegato dalla terra - afferma -: invece non è così". E quindi Teo semina orzo distico prima in Piemonte e poi nel centro Italia, e avvia nel 2008 il primo luppolaio sperimentale: "Così oggi ci basiamo per l''85% su materie prime italiane. Perché non puoi sbandierare l'italianità se poi importi la maggior parte dei prodotti".
Nel 2009 Teo lancia il progetto "Open Baladin", basato su quella che lui definisce una "ricetta open source" a disposizione di tutti, come modo per far crescere l'interesse per la bira artigianale italiana e portarla nei pub facendo lavoro di squadra con gli altri produttori. E' solo l'anno successivo però, secondo Teo, che si innesca un interesse diffuso: "Innanzitutto per un rifiuto del prodotto industriale - afferma -, ma anche perché sono cambiate le dinamiche di consumo: si vuol sapere che cosa si beve, il gusto si sta qualificando, e l'industria risponde". Senza dimenticare la diffusione del movimento degli Homebrewers e la riconoscibilità del prodotto: "Quando uno assaggia una birra artigianale, così ricca di aromi rispetto a quella insdustriale, si crea un meccanismo di non ritorno nel cervello". Sante parole...
Oggi la produzione artigianale copre poco più del 2% dei consumi nazionali, "ma sono certo che nel giro di 3 o 4 anni arriveremo a raddoppiare questa quota". Rimangono però dei pesanti limiti, innanzitutto le dimensioni dei birrifici: "Sotto gli 800 ettolitri l'anno, la produzione non è economicamente sostenibile - afferma Teo -, ma la maggior parte dei produttori è sotto questa quota. Inoltre non siamo competitivi sul mercato estero: in Belgio una birra va sullo scaffale ad un prezzo compreso tra i 2 e i 4 euro, cosa che da noi sarebbe impensabile dati i costi che i piccoli birrifici devono sostenere". Da ultimo, "Non c'è ancora una cultura del marchio: la gente cerca la birra artigianale, più che un brand specifico".
Naturalmente la dotta dissertazione è finita in degustazione: nella fattispecie della Nazionale, "la prima birra 100% italiana", aromatizzata al bergamotto e coriadolo. A svelare il segreto del finale particolarmente secco è stato lo stesso Teo: "E' il lievito cerevisiae, che abbassa tantissimo il grado zuccherino". Ah, ecco. A seguire una barricata da ben 14 gradi, e che barricata: manco l'avrei detta una birra, tanto erano forti le note liquorose. Se cercate "una birra" forse non è quello che ci vuole, ma merita un assaggio.
Per finire, Teo ha dato la sua definizione di birra artigianale: "Una birra viva, perché né pastorizzata né microfiltrata. Credo che così il messaggio sia più chiaro".
Non sapevo che Teo fosse ad Udine, peccato...lo avrei reincontrato volentieri. E tu, Chiara...vedi di provare - se non lo hai già fatto - le sue Xyauyù altrimenti di Baladin ti manca l'olimpo delle birre. ;-)
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